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“Un’Estate fa, o poco più”
Gianni Lenoci – Enzo Lanzo: gli Architetti Bevitori d'Assenzio

articolo a cura di CLAUDIO MILANO

Ad animare la scorsa estate, non solo di intrattenimenti o di salotti per pseudo-intellettuali a caccia di avventure nella nuova meta del turismo sessuale, il Salento, “Dweto” è stata la Rassegna musicale, consegnata dalla direzione artistica di Enzo Lanzo, ad un pubblico di avventori del linguaggio della musica di confine, nella cornice del suggestivo Jazz Club Quattro Venti, a Fragagnano (TA). Duetti, appunto, per quanto l'assonanza del nome della rassegna, abbia giocato sul tema della primordialità degli spiriti delle culture animiste africane, che come fantasmi, si affacciano alle nostre coscienze, nelle cronache di naufragi. Incontri musicali, nati da progettualità, che hanno avuto l'estro percussivo di Lanzo, presente in ciascun momento performativo, come comune denominatore e che andrà a definire un album, con le incisioni più significative, tratte dalle singole esibizioni, che han visto alternarsi, in singoli eventi, Gaetano PartipiloRoberto Ottaviano, Mirko Signorile e per chiudere, Gianni Lenoci. Un articolo assai meditato questo, per lasciar spazio anche ad ascolti protratti delle produzioni discografiche dei due musicisti di cui, di seguito, si parlerà in sintesi. Ma anche un articolo che ha consapevolezza di come la musica di cui racconterò, non senza emozione, non abbia fretta. E’ già oltre.

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E' della serata, del 14 Giugno 2015, che parlerò, considerandola spunto per tratteggiare i profili dei due protagonisti, compositori e performer, che da almeno due decenni, contribuiscono a ridefinire un linguaggio musicale, che dal jazz parte, ma che altrove giunge, interrogando alle radici il “parlar di nuova musica e il farla concretamente”. Lenoci, è titolare della cattedra jazz presso il Conservatorio di Monopoli. Profondamente legato al valore dell’evoluzione della musica e non alla tradizione, Gianni, è profondo studioso dei percorsi di Lacy, Morton Feldman, di Cage (eccezionali in materia, le due produzioni incise per la Amirani di Gianni Mimmo, la seconda a compendio della funambolica e sensibile Nuova Vocalità di Stefano Luigi Mangia), della musica classica che viene prodotta oggi, quando per oggi, s’intende, Settembre 2016. Nella sua musica, c’è l’ascendenza più diretta del legame tra musica, poesia e vita come forma d’arte, che da Skrjabin in poi, ha trovato percorsi, solo apparentemente laterali alla percezione della forma, che si sarebbe sfaldata, più che nel serialismo, o nella rigida quanto drammatica, numerologia dodecafonica, nel puntillismo pittorico di Mark Tobey e che in musica, avrebbe raggiunto deflagrazione in ColemanAyler, Coxhill. Non solo, è vicino alla scena più progettuale del jazz nordeuropeo, che da Nate Wooley, Nels ClineKamasi Washington, Elliott Sharp, il compianto Derek Bailey, passa per Mats Gustafsson, FIRE! Orchestra, Colin Stetson e il sempiterno Brotzmann. E’ invece di quanto di più distante possibile, dal pianismo jazz popolare d’ascendenza post-moderna (Bollani, l’ultimo Signorile, Mehldau, Craine), quanto dal neo-tribalismo bartokiano di Virelles. Un intellettuale del jazz dunque? Niente di più falso. La sua musica, fatta di nebulose, tasti d’avorio appena accarezzati in cascate luminescenti, che trovano completa autonomia rispetto al pianismo torrenziale di Cecil Taylor, corde nella cassa pizzicate, come nel suonare un’arpa a pedali, s’accende di una passione senza eguali, generando vortici percettivi che in un parallelo di pensiero associativo, neanche Turner, nei suoi gorghi di pigmento, ha rivelato.

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Di contro, Lanzo, batterista dalla tavolozza assai ampia di sfumature, ha fatto della vitalità afroamericana più pura il suo racconto a fuoco. Dalla tradizione e il metodo, il batterista pugliese, si è spostato alla geometria kandinskyana, nella felicissima e matura scrittura per fiati di “Boastful Speeches”, secondo album solista e autentico capolavoro di nuovo jazz, seguito, all’eccezionale esordio Rondonella”, che dalla sanguigna tradizione popolare musicale e verbale dei racconti (“li cunti”), dell’entroterra tarantino, approdava al free jazz e all’astrattismo jazz, per ensemble composto da strumenti tradizionali e auto-costruiti. Nulla è mancato al percorso di Lanzo, il rock, il ricordo dell’esperienza Rock in Opposition (ben espresso nell’album “Tonante.Piango”, che dal ricordo anarcoide dei ’70 trae linfa) e della scena canterburiana, la fusion, il grande amore per Paul Motian, per la mediterraneità più pura (lontana comunque da particolari interessi per la scuola sudamericana), come per i maestri est europei, neanche una fortunatissima e lunga collaborazione con Larry Franco, che dallo swing ha mosso i suoi passi. Il jazz di Lanzo è energia, sorriso, gioco serio e mai serioso, ma, come nella scrittura e nel metodo performativo di Lenoci, non deraglia mai nel fine a sé stesso, nel caos, che tante produzioni di Setola di Maiale, Improvvisatore Involontario, El Gallo Rojo, hanno dispensato nell’ultima decade. E’ sempre presente una progettualità, ben espressa, tra l’altro, nel suo trattato “La Poliritmia nel Jazz”.

Lo scenario:
Più che un'osteria,come Quattro Venti si autotitola, il luogo che accoglie l'evento, già memore della presenza del migliore panorama jazz italiano, teatro e musiche altre, ha il sapore, gli odori, i modi, di un'antica locanda. A contribuire, l'espressionismo pittorico su muri e tele, ad opera di Chiara Chiloiro, autentica trasposizione in chiave cromatico-materica del “sentire” free jazz e le visionarie tavole ad inchiostro, dal sapore street-pop di Damiano Todaro.

Stampe di Escher, accoglienza, buon cibo, vino e birra, preparano al meglio.

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Il concerto:
Dedicata alla recente scomparsa di Ornette Coleman, la scaletta si apre con “Black and Blue” di Fats Waller. Guida affidata a Lenoci. Chiara la capacità di definire geometrie che spaziano dal linguaggio jazz più tradizionale ad una dimensione assai eterea, dove il riferimento tonale diviene più vago. A seguire, “Deadline” (Lacy), uno dei momenti più alti dell’esibizione. Si esprime la volontà di creare una musica profondamente “bella”. Via via, il linguaggio free prende il sopravvento e ci si avvicina ad un flusso che ha familiarità con la musique concrete e l’astrattismo informale di Pollock. Lenoci illustra territori che raggiungono davvero il parossismo tecnico/armonico, ben sposati ad un Lanzo ispiratissimo, nella gestione di dinamiche camaleontiche. Dissoluzioni formali astratte, si ricompongono in un mosaico dalla leggibilità melodica immediata, che non rinunciano neanche ad un uso percussivo di tasti e pelli, di più diretta chiave afroamericana. C’è tanta poesia in questa interazione, epidermica, che eccita per alterità. Non solo Coleman, ma Schoenberg, Messiaen, condotti alle propaggini più subliminali, del “sentire e generare” suono. La sequenza “Angel Eyes/Lonely Woman“, apre ad una forma atonale ampiamente esibita, con altrettanto furore percussivo, ma si scioglie in breve in una astratta forma con cadenze blues, per mutare ancora in un delicatissimo romanticismo dal forte impatto emozionale. Lanzo dispensa energie con una ricchezza e varietà timbriche (e di accenti), davvero apprezzabile. L’essenza, ora meditativa del pezzo, si spegne gradualmente in soluzioni armoniche più parche di trascolorazioni, accendendosi, in ritmiche che tornano a dare fuoco. Lenoci disegna ragnatele impervie di suono, pari a schegge d’eruzione emotiva. “L’arte dell’elasticità dell’intervallo”, la si potrebbe definire. Nell’alternanza di tempo e spazio sonico, il semitono diviene sempre più vago e si percepisce pulviscolo. Nulla a che vedere con microtonalità e Oriente. E’ nuova mitteleuropa. E’ grande il disegno interiore appresso a questo flusso, che torna a definire una cosa, che è, certo, storia, ma che si sta perdendo appresso a necessità di consenso e auto-referenzialità: “jazz è auto-consapevolezza che diviene libertà”. Per carità, ogni genere ha avuto i suoi eroi, con un carico appresso di manifestazione di “bravura”, ma più il tempo passa, più le opere jazz che rimangono nella memoria collettiva, sono i grandi affreschi, dove è un disegno comune a definire i tratti di una bellezza che non cede passo al trascorrere dei decenni. Il percorso di note e pulsioni, torna a raccogliersi reptineo, nel definire una poesia melodica conclusiva, davvero struggente. “Snake Out” (Waldrom), è invece essenza del ritmo che incontra le estremizzazioni più improbabili del fraseggio su tastiera. Una medusa che si sfrangia, seminando ovunque propaggini di sé. Lenoci ritesse metempsicosi, dando lezione di instant composing lontana da stasi alcuna. Lanzo lo sostiene, disegnando contrappunti di una bellezza assai vicina all’arte orientale (che qui, ora, fa capolino) di produrre alternanza tra suono, tocco/colore e misuratissimi silenzi. Il furore che nasce dalle accensioni percussive, è pari a quello di benzina lanciata su petali di fiori, a disegnare sadicamente, contorni appresso alla luce del sole. La padronanza di linguaggio del pianista pugliese è pari a quella di un ago di bilancia. Ida Lupino (Carla Bley), ritorna a dar timone allo strumento di cui la Bley è stata ed è, gigante. Il romanticismo in cui Lenoci affoga la poetica dell’artista statunitense, è pregno di vita, umori, presenza, consapevolezza della precarietà dell’essere. Non è un caso, che io abbia parlato in precedenza di mitteleuropa. Profondità sondabilissima a fior di pelle e stilettate. Pensoso e crudo, quanto creato in questo brano, non ha possibilità di essere raccolto in parole, E’ Il senso di tensione ammutolisce lo sparuto pubblico, che non appare molto avvezzo a queste dinamiche, segue con attenzione, ma pare non cogliere altro se non la manifestazione più tecnica del percorso, come ad aspettare la classica alternanza di soli, in dialoghi che qui, invece, sono giunti. Un racconto del sé senza mestiere esibito, o cadute di tono, dunque. Vita che non accetta intrattenimento. Lanzo, lascia che tutto scorra, per rientrare con maestria, nella sezione conclusiva. Da vedere, oltre che da ascoltare, per cogliere segreti nascosti tra smorfie, rughe, sorrisi, riflessi. In breve, l’arte di Lenoci, indaga il piano con un fare che attraversa massimalismo e minimalismo all’occorrenza, impiegando ciò che è utile al momento, un fare “contemporaneo”, che nulla ha a che spartire con i retaggi post-modernisti, in voga più che mai, nel citazionismo pianistico di blasonati danzatori dei tasti d’avorio fratelli in musica della Transavanguardia. E’ come se John Zorn rimanesse comunque e senza possibilità di deviazione, il faro a cui volgersi per dichiararsi “nuovi” (per quanto tempo ancora, si continueranno a chiamare i The Necks, band post-rock?), quando, oggettivamente, molto è cambiato nel giro di pochi anni, tutti se ne sono accorti, ma si è nell’attesa di uno scatto di lancetta, da secolarismo integralista, che più nobile rende percorsi come la classica contemporanea e, qui in questione, il verbo jazzistico. Questa sera, per grazia ricevuta, solo integrazione organica al moto emotivo. Ci si avvia alla conclusione del viaggio e lo si fa con una tensione “altra”. Dare è importante su un palco, ma lo è altrettanto ricevere e il risultato di una performance è comunque, figlio del legame col pubblico. Palco è sempre arena e da quella di questa sera, se ne vien fuori in modo memorabile, ma per chi ha accolto. Ora è tempo di qualche concessione. Curiosamente, questo “accordo”, arriva con un pezzo di Coleman, “Latin Genetics“. Pianoforte pizzicato, cassa percossa. Lanzo invece, tramuta con leggerezza, una batteria in un coro di percussioni africane, imbevute di memorie europee. C’è una grazia intellegibile, forse ricercata, ma godibile. L’intera esecuzione si articola su un ostinato, che lentamente va a spegnersi, senza trovare un centro energetico nel mezzo. Maestria, con qualche cenno di stanchezza, che incontra però, felice accoglienza del pubblico. La richiesta del bis, vede una “All the Things you are“, dall’eccellente interplay, ma con un‘urgenza espressiva, anche in termini di cronometro, di porre un ultimo accento, gradevole, al concerto più bello del 2015, a cui mi sia stata data l’opportunità di essere presente.

Claudio Milano

Settembre 2016
Rassegna “Dweto”
Quarto incontro, 14 Giugno 2015

Enzo Lanzo: batteria, percussioni
Gianni Lenoci: pianoforte

Osteria Jazz Club “Quattro Venti”, Fragagnano (TA): http://osteriaquattroventi.blogspot.it/

Setlist:
Black and Blue
Deadline
Angel Eyes/Lonely Woman
Snake Out
Ida Lupino
Latin Genetics
encore:
All the Things you are

Links:
Enzo Lanzo:
http://www.enzolanzo.com/
http://www.jazzitalia.net/artisti/enzolanzo.asp#.V9011COLSuU

Gianni Lenoci:
https://en.wikipedia.org/wiki/Gianni_Lenoci
http://www.traccedijazz.it/index.php/primo-piano/30- sulle-tracce- di/673-sulle- tracce-di- gianni-lenoci

Video:
Lenoci: https://www.youtube.com/watch?v=oxRO2-_biwg
Lanzo: https://www.youtube.com/watch?v=0s7xgQxM5qA

 

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MelaVerde Records: un po’ etichetta discografica, un po’ net label, un po’ rete di musicisti, con una particolare attenzione per la musica emergente e l’abnegazione un po’ artigiana di chi è ormai (troppo spesso) abituato a fare da sé.
Il primo progetto discografico è un disco tributo che raccoglie artisti di varia estrazione e provenienza lungo lo stivale per celebrare il trentennale di un album storico, The Queen is Dead degli Smiths. In uscita il 16 Giugno 2016, stessa data dell’album originale, THE QUEEN IS DEAD (30th ANNIVERSARY TRIBUTE) riunisce dieci artisti e band che reinterpretano, ciascuno a suo modo, una delle dieci tracce dell’album di Morrissey, Marr & Co.: Wellington & The Daffodills, TeRa, Phomea, Syilvia/Francesco Biadene, eoslab, delay_house, Mangiacassette, Walking the Cow, Werner e Atterraggio Alieno i progetti musicali coinvolti.
Il mastering del lavoro è stato eseguito da Matteo Gandini presso SJ’ Studio (Quarrata, Pistoia).
L’artwork di copertina dell’album è opera dell’illustratrice La Came  (www.lauracamelli.com).

L’album sarà disponibile gratuitamente per lo streaming e il download digitale sulla pagina Bandcamp dell’etichetta (http://melaverderecords.bandcamp.com). Per maggiori informazioni, seguiteci su Facebook (www.facebook.com/melaverderecords) e sul sito ufficiale (www.melaverderecords.it).
Di seguito, la tracklist definitiva.

 The Queen is Dead (Wellington & The Daffodills)
 Frankly Mr. Shankly RMX (TeRa)
 I Know it’s over (Phomea)
 Never Had no one Ever (Syilvia/Francesco Biadene)
 Cemetry Gates (eoslab)
 Bigmouth Strikes Again (delay_house)
 The Boy With the Thorn in his side (Mangiacassette)
 VIcar in a Tutu (Walking the Cow)
 There is a light that never goes out (Werner)
 Some girls are bigger than others (Atterraggio Alieno)

Tracklist:
Moresca di Sèlavy
It’s now or never
Gloomy Sunday
Amsterdam
Feed the birds
Jolene
Bada bambino, bada vampiro
Lili Marleen
Dona
All I have to do
Litosfera (il cielo in una stanza)
Circle game
Maremma amara
Musica proibita (qui sotto il vidi ieri a passeggiar)

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Durata: 68’19”
Genere: Teatro canzone d’avanguardia
Voto: /

Articolo scritto da: Claudio Milano

“Scratch My Back”, sentenzia Peter Gabriel, mentre Dylan canta Sinatra, Robert Plant, in occasione della cerimonia di consegna dei Kennedy Center Honors, piange a telecamere accese, durante l’esecuzione di “Stairway to Heaven” delle Heart (beh, del resto, cosa aspettarsi da un gruppo di siffatto nome, se non l’induzione al palpito?). I King Crimson abbandonano le improvvisazioni dal vivo su “Live at Orpheum”, per mostrarsi copia carbone di sé stessi e non solo, scindono la formazione in un Giano Bifronte (l’altra faccia, identica, è quella del Crimson ProjeKCt) che permetta a Pat Mastelotto e Tony Levin di far soldi con lo stesso repertorio, in due formazioni “diverse”,  in due tour contemporanei. Geniali. Ma non solo, Trey Gunn (del ProjeKCt), non pago di questo, fonda il Security Project (qui almeno la “k” se l’è risparmiata), chiamando a corte un clone di Gabriel, tale da aver cambiato nome di battesimo, per dar “lode” al repertorio dell’ex Genesis. Solo per parlare di qualche nome ben noto, perché la carovana del Tale e Quale Show, è talmente viva e radicata nella nostra cultura, oggi, da lasciare un solo pensiero: la cultura occidentale è morta. Se serve questo per farci sentire vivi, che davvero tutto finisca  in fretta, assai in fretta, perché è uno spettacolo nauseabondo.

Coucou Sélavy, celebra questa morte e lo fa a modo suo, con naturale e irriverente grazia. Il geniale ricercatore vocale, drammaturgo, regista, attore, poeta romano, dopo aver dato alle stampe nel 2011 “Rien Ne Va Plus: Differita Giocar”, ordito assieme a Ladamerouge, pubblica nel 2014, “Cara o Che?”, considerato a tutti gli effetti, dall’autore stesso, sua prima opera effettiva e compiuta.
Il precedente, che mi piace ricordare, era album tra carillon dolenti, field recordings, marce sbilenche, archi sintetici da operetta da camera, grondanti romanticismo decadente, elettronica ora inacidita, ora da suono puro, pianoforti neoclassici quanto minimali e voci affastellate, in molti fantasmi di sé, a definire un’estetica tra Grand Guignol, gioco e psicodramma. Qualche estratto da quel racconto già vivo e carico di suggestione visiva e capacità d’evocazione. La dolcezza di “No, rien à dire”: https://www.youtube.com/watch?v=B3vxwFKIcsY , pur accompagnata da suoni di voce gutturali e troncata con una violenza da cesoia, tale da far davvero male; l’elegia farsesca e in qualche modo autobiografica, di un Sisifo che “aveva cominciato a vomitare versi”: https://www.youtube.com/watch?v=u3UiRe6Lkns , dove la bellezza grande della melodia, che sa elevare davvero lo spirito, laddove poco altro può, si sposa a suoni vocali onomatopeici. Son rare davvero, le composizioni che riescono a sposare forma canzone a classicismo con simile potenza; lo struggimento senza fine della melodia balcanica di “Lament”, che  trova quiete nel mezzo per poi sbattere la porta in faccia a un mondo rinnegato: https://www.youtube.com/watch?v=qJDq-v9nwGE . L’apice, ma questa è solo un opinione personale, spetta forse a If I, the Branches and the Night https://www.youtube.com/watch?v=_XOne4ts6ZE , ballata di una bellezza luminosissima, appoggiata ad un palpitare elettronico dal sapore nordico e aperture sinfoniche da brivido. Una brezza davvero, che diventa violenza inflitta quando il canto, diviene in italiano e rivela la necessità del decadere del tutto. Un gioiello.

L’assiduità del rapporto col mondo teatrale, conduce l’artista, alla necessità di trasfigurare ulteriormente la realtà attorno, approfondendo in maniera esponenziale lo studio del suono vocale in ogni possibile esternazione, fino a farne, a mio avviso, tra i massimi interpreti di teatro voce al mondo. Lontano da manicheismi, ma con un’urgenza espressiva che travolge con audacia non “raccontabile”, ogni materia affrontata, Sèlavy dà vita all’idea di un disco di canzoni talmente rimodellate da divenire materia propria e non riconducibile alla fonte d’origine. Una sorta di rievocazione di morti che furono, attraverso il canto di fantasmi che han troppe memorie, per non confondere contorni e generare nuova sostanza. A un’Europa che si celebra imitando sé stessa, l’artista romano, sostituisce la contemporaneità a partire da macerie e il risultato, oltre che geniale, è un capolavoro. Le voci, s’imbevono di tonnellate di riverberi, caratteristica che diventerà d’ora in poi cifra stilistica. C’è gioco e dramma, come nell’incipit di Moresca di Sèlavy, che da campionamenti, esplode in ritmiche incalzanti, voci da basso e contralto, che più che esser ricercate, emergono da chissà quali vite precedenti, come in una Terapia “R”eincarnazionista. E’ come se fosse la musica a cercare Sélavy e non viceversa. Esilarante It’s Now or Never, con testo che diviene in italiano, a raccontare storie d’amore e di sangue. Suoni aspirati, profondamente gutturali, raschiati sino all’impossibile, caratterizzazioni che raccolgono l’immaginario dei cartoon s’alternano senza sosta a recitativi, che provengono da un luogo imprecisato nel tempo e nello spazio. “Gloomy Sunday”, fa davvero spavento, assai più di qualsiasi esecuzione della Galàs. Non me ne voglia (o me ne voglia, a suo piacimento) Sèlavy, ma “Amsterdam”, è quanto di più emozionante emerga tra questi solchi, al punto da farne la versione più bella che mi sia stata data d’ascoltare. Qui, l’intensità è debordante, sostenuta da growling devastanti/devastati, alternati a frequenze da mezzosoprano davvero impalpabili e dà potenza al testo, rendendo il porto quello che davvero era e rimane nell’immaginario collettivo, transito, illegalità, gloria che apparirà con facce ben più pulite nelle dimore borghesi. Dall’elegia di “Feed the Birds” e la fisicità di “Jolene”, si arriva al delizioso, cabaret di Bada bambino, bada vampiro con la voce che indossa giocosi panni da crooner. Carezzevolmente laida “Lili Marleen”, che nello spirito davvero richiama bordelli e sadismi dittatoriali. Dona, recupera la tradizione del madrigale italiano e lo fa con un cantar lirico multiottava d’una eleganza che non ha possibili referenze nel mondo pop-rock tutto, perché proprio alle più nobili voci operistiche della prima metà del ‘900 fa riferimento e non a chi già le ha imitate a modo suo. Qui c’è un farsele risuonare dentro e addosso. Ripeto, la sensazione più frequente, nell’ascolto e quello che Sèlavy sia più spesso “tramite” di quanto esterni, più che artefice, secondo un’idealità tardo-romantica, che onestamente credevo fosse estinta e che qui invece, canta con tutti i fantasmi delle storie personali e non, che abbiamo, più o meno coscientemente, attraversato. All I have to do, crea un bridge vocale, tribale, sospeso, da incubo, laddove nella canzone originale, c’era solo un accordo maggiore e va a dissolvere la sezione strumentale in flanger reiterati pari a drones. Un’intuizione di pregio. “Il Cielo in una Stanza”, diviene “Litosfera” e trasforma, lo spazio che più comune ci è, in un “non luogo” dove orchi e fate disseminano un baluginio terrifico e incantevole, come nell’ottica del più sublime dei romanticismi senza retorica. Contemporaneità avanguardista tra le più grandi che mi sia stato dato d’ascoltare. Circle Game è un riatterrare, un riorganizzarsi, tra architetture delle diverse parti del sé che vanno ad armonizzarsi, come in un mosaico composto e fremente. Bassi spaventosi arcaizzano “Maremma amara”, quasi a portarla in chissà quale luogo assai ad Est d’Europa. Il tuonare della voce da basso profondo, in “Musica Proibita” (qui sotto il vidi a passeggiar), s’accompagna a campionamenti di tuoni dal cielo, mentre il pianoforte, muove un  ondeggiare di speranze anelate, ma che già si percepiscono perdute. Il finale sorprende per l’irrompere di una sezione elettronica a richiamare un ensemble di musica antica. Non è solo musica questa, è teatro, visione, scorrere a profusione di frame cinematografici, tale da togliere il fiato.
Una delirante ghost track di quasi otto minuti, decompone, ricompone tutta la materia affrontata, come nei giochi di nastri di Pierre Schaeffer, in un vortice che sembra non solo chiudere un disco, ma una vita. Come guardare un tir che ti viene addosso senza avere la possibilità di sterzare. No, non si deve parlare di questa musica, solo viverla. Al disco, fanno seguito numerosi video on line che vanno ulteriormente ad indagare questo  percorso. Tra questi link, brani del disco e non:

Amsterdam: https://www.youtube.com/watch?v=sWyT0GF69og

Vecchia Zimarra: https://www.youtube.com/watch?v=_x8sjMpY3Ws

Litosfera: https://www.youtube.com/watch?v=fxvXWqq7UOo

Black is the color: https://www.youtube.com/watch?v=u0u2BWa1STM

facciata Nequaquam

TRACKLIST

Incipit
Precipices
L’Entropico Squallore
To the Center (of the Earth, of the Hearth)
Nequaquam
Orfeo, Banfi Lino-lillà
All this World
Nada Rosso Sangre alla Sera
What hides (or Skyes)

Durata: 25’37”

Tutte le voci e strumenti a cura di Coucou Sélavy

Genere: Teatro/Avantgarde
Redattore: Claudio Milano

Il fratellino piccolo (è in India!) qui, di fronte al tramonto sul prato di garofani.”
(A. Rimbaud)

Coucou Sèlavy è attore, ricercatore vocale, compositore, poeta, drammaturgo (in chiave unicamente teatrale lo pseudonimo fa riferimento anche all’attrice e cantante Silvia Pegah Scaglione).
Invocazione, cercata come in un rito, fatto di fantasmi, morti e resurrezioni, decorticazioni. Farsi tutt’uno col tutto, ridurre il momento a una vita e la vita a un momento. Poesia che diventa immagine, scenario e declamazione teatrale che reclama, anche, il cinema, quello delle prime avanguardie del ‘900. Ma non è in oggetto il parlar di un disco? No. Null’affatto. E’ in oggetto il parlar di vita, quella che abbandona il senso del dovere, per diventare “essere”, sempre, indistintamente. Non è possibile parlare di un “solo” lavoro dell’artista (e in questo caso caso il termine ha un significato “antico”, mitteleuropeo, di chi favorisce nuovi linguaggi a bocche stanche di proferire stessi verbi), perché in contemporanea c’è un intero mondo che si muove appreso ad esso e che tra le tracce di un disco non compare, non dichiaratamente. E’ presente solo per chi ne segue le tracce con costanza. Un canale Youtube in continuo aggiornamento: https://www.youtube.com/channel/UCNniEM3lfIDZnH8_pEgAdsA , una pagina Facebook che diviene diario su cui appuntare intuizioni, incontri, maledizioni, giochi: https://www.facebook.com/silvia.francesco.coucou?fref=ts .

Al centro della poetica è la voce, intesa come strumento d’indagine e manifestazione. In questa Voce, ci sono tutte le voci che l’Europa ha generato dal Barocco almeno, ad oggi. Numi tutelari che a citarli tutti si diventa ridicoli, ma tant’è che son morti nella memoria collettiva, che almeno riportare il fatto che “son stati”, diviene cosa che se a muover qualche interesse, male non farebbe. Chaliapine, ad esempio, “ a cui nessun cantante d’opera piaceva; che preferiva applaudire gli attori russi, che li invidiava quando, con la loro voce, imitavano ed evocavano i colori e gli accenti del contadino, del principe, del soldato, del mendicante, del frate sfratato o del mistico ortodosso, mentre lui, in quanto cantante, era condannato a restare prigioniero di quelle vocali tutte oscurate, omogeneizzate, indifferenziate.” (cit. Matteo Marazzi); Artaud; il primo Carmelo Bene; l’implosione progressiva di Leo De Berardinis. Ma anche Johnny Cash, Leo Ferré, Richard Benson, i caratteristi del cinema, dell’avanspettacolo che fu e i doppiatori, il polimorfismo vocale di Sopor Aeternus e Mario Panciera (Devil Doll), qui imbevuto in ambienti e riverberi ora enormi, ora secchissimi, ma davvero, la lista sarebbe infinita, d’altari (mai tabernacoli, qui non c’è nulla che dia la sensazione di “permanenza”, neanche negli amori, neanche nel ricordo della propria storia personale), come di gente da buttare giù da una torre. In questa Voce, l’ossessione per la ricerca di rotondità nei gravi, si sposa a falsettoni rinforzati d’una eleganza senza pari, medi, mai, spinti, a cercare un lirico “cantar moderno” che celebra l’acuto, ma piuttosto un’antica idea di esprimer suono che cercava emozione e non era figlia della ricerca di un’accordatura di quattro muscoli (queste benedette/maledette) corde vocali, che si fan corpo integro e teso (ma nella lirica la tensione non è abominio? Forse, ma qui c’è teatro, quello che vive anche su un marciapiede), a caccia di stelle da accendere e spengere una a una e non “esibizione circense”. Eppure la tecnica c’è e stupore genera, continuo, persino fino al paradosso assoluto, ma è quello stupore che nasce dalla poesia, dalla percezione di una unicità. Sporcature di una cattiveria senza pari (si è oltre screaming e growling, pur presenti), perché il livello, acido, d’emissione, è tale e tanto, da puzzare d’assenzio, sigari, narghilé, oppio, comunicare un senso di profonda malattia, dell’anima. Pustole purulente a margini di corde invece (si spera) intatte, che non risparmiano urlo e carezza, quando si librano a cercare “il fratellino d’India” del citato (e amato) Rimbaud, come a creare vortici di fantasmi, che rendono la vita, un set dove tutto può accadere e mai nulla cambia, né può cambiare. Un senso di decadentismo che non si astiene in alcun modo all’esser lirismo puro, elegiaco. Apparizioni e assenze, dissolvenze, persistenti bui in sala e la percezione di una volatilità del male, improvvisa, come dopo una boccata di cloroformio, o un’iniezione di morfina a rendere il dolore un puntino sempre più distante, fino al bianco di uno schermo nudo e crudo, che diviene consolazione, ultima e definitiva. Ma c’è anche tanta ironia, del tutto estranea a spauracchi “dark”, gotici, espressionisti, esistenzialisti. Un’ironia che a volte va a pescare in una cultura così trash da rendere la narrazione irresistibile. Quello che qui si coglie è LA vita, non quello che vorrebbe, o “dovrebbe” essere. Si, è vero, non c’è la canzone che gira per radio e neanche quella che è andata a generarla su spoglie chiamate più nobili, pur non essendoci neanche dissonanza, destrutturazione, urgenza di far parte del field: “Ciao! Io sono l’avanguardia-spauracchio è ho la faccia che tutti i Festival del Mondo e The Wire mi chiedono d’avere”. Le strutture che definiscono i brani sono mutevoli, non cercano una “definizione”, non la vogliono e non se ne trova da darne, se non Teatro/Musica/Poesia, che siamoci onesti, sarà mica una definizione!

Dura poco più di 25 minuti, ma la tale densità del percorso è tale da parlare di CD e non EP. Nequaquam Voodoo Wake”. Il viatico: da i due movimenti, uno dei quali, Precipices, primo singolo estratto, che introducono all’opera, ambedue sospesi tra citazioni neoclassiche ed elettronica deviata e più semplicemente “sospesi” come etere, carichi di bagliori e voci che come tante parti del sé raccontano di ciò che si è stati e forse si sarà, si giunge a L’Entropico Squallore, primo episodio dove la cupezza diviene necessaria quanto respirare, quando d’aria inizia a scarseggiarne. La voce, prima profonda e progressivamente articolata su più piani e registri emotivi e d’appartenenza di range, si presenta talmente a fior di lacrime da favorire l’immagine di un’anima strappata a brandelli e donata a chi ascolta. To the Center (of the Earth, of the Heart) è sarabanda di ritmiche cerimoniali poggiate su un organo chiesastico, fiati elettrici, chitarre sintetiche, voci che più che avvicinarsi al Vocal Frei, vanno a raschiare il barile di una cassa di whisky abbandonata da Tom Waits, per ergersi solenni ad altezzosità da controtenore con risonanze chiare da mezzosoprano ed incepparsi in un ossessivo, reiterato, distorto declamare in ritmo dispari. Su una struttura minimale, fatta di chitarra, basso e pianoforte, in Nequaquam le voci, disegnano, su poche sillabe, un canovaccio di suoni che esplorano l’intero mondo possibile di emissioni, a partire da cavernosità abissali, acidità stregonesche, sovracuti che scomodano i grandi soprani dei primi del ‘900, timbriche che sposano il Medio Oriente. Un graffiare organi, muscoli e nervi, riportando Roma (qui nasce Coucou Sèlavy) alle fiamme e privandola dell’acqua che l’han resa “caput mundi”. L’orgia vocale si fa ancora più estrema, stregonesca, in Orfeo, Banfi, Lino-lillà, agitata da monsoni di scariche elettriche e un ossessivo incidere dark wave, che si stempera in un inciso fantastico, dove le ritmiche sembrano un gioco di battito di mani a due persone; la melodia diviene canto folk senza tempo, sublime il bridge, il finale deraglia in un cameo Kosmische Musik. Uno di quei pezzi che scaraventano avanti ad oggi e molto, molto più in là, le poetiche di Bauhaus e Virgin Prunes, senza avere necessità di produzioni importanti di chi ha mezzi ma meno sostanza (Zola Jesus, Pharmakon). Ritorna un po’ di pace nello splendido folk di All This World, apocalittico, direbbe qualcuno, se certo David Tibet e i Black Sun Productions, fossero calati direttamente in una rupe, tra effluvi magmatici e baluginio di farfalle tropicali. Ancora furore in Nada Rosso Sangre alla Sera e conclusione con ritmiche EBM, che si raffreddano in un drone mesmerico, nella conclusiva What hides (or Skyes). Nella dimora dei fantasmi, non poteva mancare una ghost track, che ironicamente è 24.000 Baci, certo, proprio quella. Un’ironico rimando a quel “Cara o Che?”, disco dello scorso anno, dove rilettura dei brani è pretesto per re-invenzione assoluta (leggere, scomposizione, ri-composizione e definizione ultima), capacità di giocare con icone, mode e modi, piegando l’intero mondo alla propria estetica, senza “se e ma”, con stile, irriverenza, passionalità abrasiva.

Non è questo, disco di cui si può “parlare”. Non è questo, artista, o meglio, genio, perché davvero “a tutto alieno, dentro il suo tempo e in un posto di cui un giorno (forse), sapremo raccontare”, di cui si deve “parlare”. Soprattutto, non è uno scribaccino di bassa leva, in assenza di poesia e talentuosità artistiche come il sottoscritto, il più indicato a farlo e questo scritto non vuole essere in alcun modo “critica”, solo una “personale introduzione”. Fosse nata da chi, tra i grandi indagatori della musica del proprio tempo, come nell’800, ma anche banalmente, tra gli ultimi critici degni di questo nome del ‘900 (un nome “a caso”, Luigi Pestalozza), che davvero conoscevano tutto quanto prodotto (ammesso oggi sia possibile farlo…) e la materia musicale nella sostanza sua più profonda, forse queste parole avrebbero un senso. Proviamo dunque a darglielo assieme, uno che sia. Non ci sarà oltremodo alcun voto. Questa musica, questo percorso, che non hanno pretese di vendita (30 copie stampate del CD), che vorrebbero rivolgersi a tutti quanti disposti ad accoglierli, ma DEVONO starsene, loro malgrado in un angolo, richiedono una cosa sola: essere VISTI, ASCOLTATI, LETTI.

Signori, a voi, Coucou Sélavy:
“Quando rientro in case che dicono non essere le mie
Altro che aspettare
Pietrificato, ibernato per stagioni a venire, immobili gli epicentri, eppure ai margini,
tutt’attorno e dentro è un agitarsi come di insetti attorno alla luce
E quegli insetti a soffiare ancora stelle, alberi, vie
Che ci aspettano nelle case che abitammo”

(da “Case”)

Link:
Orfeo, Banfi Lino-lillà:

Più baccano faccia il temporale (da Céline su Boccherini):

Il nuovo progetto di musica elettronica sperimentale Distune, con base a Trieste, ha rilasciato ad Ottobre il primo mixtape per il club di Lubiana (Slovenia) Pritlicje.
Alla ricerca di nuovi suoni per il primo EP, in uscita nel corso del 2016, pubblica questo mix di quarantuno minuti contenente alcune delle tracce più rappresentative degli ascolti di uno dei filoni che influenzerà il suo nuovo lavoro, ovvero la techno, la deep house e la tech house di provenienza francese e tedesca. Ma non solo.

A voi l’ascolto su Soundcloud o Mixcloud.

E questa è la tracklist:
BOXCUTTER – Holoscene
BEASTIE RESPOND – Syncopy (Blawan’s Tretcher Mechanica)
EFDEMIN – Lohn & Brot 1
ACTRESS – Redit 124
ELECTRIC VIOLENCE – Parasitism (Tillaux Remix)
SCUBA – Adrenaline (Aucan Remix)
MONSIEUR MONSIEUR – Arym
THE FIELD – Silent
THE CHEMICAL BROTHERS – Just Bang
LEFTFIELD & CHANNY LEANEAGH – Little Fish
DEADBOY – Black Reign
JOY ORBISON – So Derobe
CLAP CLAP! – Fever
SPANK ROCK – Race Riot
BOYS NOIZE – Dawnload
ITAL TEK – Control

Il 2015 è l’anno dei Verdena. Con i due Endkadenz ne hanno parlato tutti, ma di fronte all’enorme qualità dei due dischi il clamore era prevedibile.
La redazione di The Webzine ha deciso di non recensire né provare ad intervistare la band, ma di fare comunque loro un tributo compilando una playlist di 40 canzoni su Spotify. Le migliori, secondo noi, in ordine cronologico inverso.

Ah, Sorriso in Spiaggia parte 1 e parte 2 le abbiamo messe come pezzo unico quindi le tracce sono 41 per un totale di 3 ore e 33 minuti. Buon ascolto!

https://open.spotify.com/user/1166636950/playlist/5gmo0i57okS8MFuDeOKoUW

Ho compilato queste tracklist per i mixtape dei We Are Not Afraid, suonati live o composti in esclusiva per etichette, collettivi artistici, locali. Il campo d’azione non si discosta molto da quello della bass music, comprendendo in questa definizione trap, techno, deep house, tech house, tinte dubstep, EDMdrum’n’bass, ma sempre con un approccio sperimentale e inerente alla produzione We Are Not Afraid.
In fondo la lista di tutti i brani contenuti nelle playlist in ordine alfabetico.

A proposito, potete acquistare il nuovo disco HOLES, uscito cinque mesi fa su Irma Records, a questo link in digitale e qui in copia fisica.

2015

AprilePUNK VANGUARD MAGAZINE
Qui il mixtape originale

FebbraioBASS ISLAND RADIO
Qui il mixtape originale

2014

OttobreFREQUENZE SUBURBANE
Qui il mixtape originale

AgostoMICRO CLUB
Qui il mixtape originale

GiugnoWOULD HAVE BEEN COLLECTIVE
Qui il mixtape originale


COSA AVETE ASCOLTATO?

Lo so, avete tutto già su Spotify, ma se interessa a qualcuno ho ordinato in ordine alfabetico tutte le tracce che avete sentito, in maniera da potervele procurare facilmente. Ovviamente, in maniera legale.

2 Chainz – Birthday Song (feat. Kanye West)
Aazar – Rundat
Ace Hood – Bugatti (feat. Future & Rick Ross)
Alix Perez – Move Aside (feat. Foreign Beggars)
Arnaud Rebotini – All You Need Is Techno (Gesaffelstein Remix)
Atom – Ich Bin Meine Maschine (Boys Noize Remix)
Baauer – One Touch (feat. AlunaGeorge)
BLVCK – Shangri-La
Boys Noize – Got It (feat. Snoop Dogg)
Bro Safari – Spooked (feat. Dj Craze)
Brodinski – Can’t Help Myself (feat. SD)
Busy P – Still Busy (feat. Thunderbird Gerard)
Canblaster – Chicken Run (Panteros666 Remix)
Canblaster – I See You
Carnage – Krakatoa (feat. Junkie Kid)
Chief Keef – Love Sosa (Rl Grime Remix)
Club Cheval – Decisions
Creepy Autograph – Back Ally
D.I.M. – Roket
Danny Brown – Kush Coma (feat. A$AP Rocky & Zelooperz)
Dark Sky – Gaddagive
David Carretta – Crash 1
David Carretta & Workerpoor – The Intruders
Dimeuhduzen & Erick Solo – Secret Society (Aucan Remix)
Diplo – Express Yourself (feat. Nicky Da B)
Diskord – Go Hard
DOCO & Janpier – Spin It Back (G-Buck Remix)
Drumcell – Disturbance
Foreign Beggars – Goon Bags (UZ Remix)
GENER8ION – The New International Sound
Gent & Jawns – TurnUp
Gesaffelstein – Obsession
Gesaffelstein – Pursuit
Goldie – Kemistry (Justin Martin Remake)
GTA & Juyen Sebulba – Hard House
Hudson Mohawke – Chimes
Interpol – Obstacle 1 (Glass Teeth Remix)
Juyen Sebulba – Kaanga
Karel Goldbaum – Addiction (Analphabeth Remix)
Liar – Tzimisce
Minor Rain – Thunderbird
Molecule – 8 Zl 40
Monsieur Monsieur – Arym
Myd – Same Old Brand New You (feat. Boston Bun)
Oblast – Revolution
Perspects – 13 in 2 Parts
Poirier – The Realness (feat. Face-T)
Prosdo – Attack Warning (Futureplays Attacking Remix)
Radical G – Here Comes the Storm (The Hacker Remix)
Ramzoid – Mechanism
Raving George – Submerse (Blatta & Inesha Remix)
Richelle – Belee Dat
RL Grime – Shells
Rob De Large – Jacques NH2
Sharooz – 90907
The Hacker – Flesh and Bone
The McMash Clan – Shadow Dance
The Outside Agency – Forest Children
The Partysquad – Oh My / Club Mix (feat. Boaz)
The Subs – Mitsubitchi
These Hidden Hands – Kheium (SHXCXCHCXSH Remix)
Venice Calypso – Drifting
We Are Not Afraid – Apraxia
We Are Not Afraid – Darksun
We Are Not Afraid – Desholenation
We Are Not Afraid – Faded
We Are Not Afraid – Sharks

Dopo l’enorme successo (quasi tutti sold out) della prima branca del tour per la promozione di Endkadenz Vol. 1, continua il tour dei Verdena. Queste le prossime date.

27.03.2015 – CAP 10100 / Torino
28.03.2015 – IL DEPOSITO / Pordenone
31.03.2015 – TEATRO AUDITORIUM UNICAL / Cosenza
01.04.2015 – VILLANOVA / Pulsano (Taranto)
03.04.2015 – PHENOMENON / Fontaneto d’Agogna (Novara)
04.04.2015 – SONAR / Siena
10.04.2015 – LATTERIA MOLLOY / Brescia
11.04.2015 – BRONSON / Ravenna
17.04.2015 – CONTAINER CLUB / Grottammare (Ascoli Piceno)
18.04.2015 – URBAN / Perugia
23.04.2015 – STUDIO FOCE / Lugano (SVIZZERA)
24.04.2015 – CAGE / Livorno
25.04.2015 – FESTIVAL SUPERNOVA / Genova
27.04.2015 – TEATRO MIELA / Trieste

Le date estive finora annunciate sono invece le seguenti:

12.06.2015 – ESTATHE’ MARKET SOUND / Milano
14.07.2015 – ROCK IN ROMA / Roma
15.07.2015 – FERRARA SOTTO LE STELLE / Ferrara
24.07.2015 – SIREN FESTIVAL / Vasto (Chieti)

ASCOLTA ENDKADENZ VOL. 1

ETICHETTA: Ara Music
GENERE: Pop, cantautore

Raffaele-tedesco-che-mondo-sei

Raffaele Tedesco viene da Moliterno (Potenza), Che Mondo Sei è il suo quarto sforzo discografico e per individuare meglio il fulcro dell’opera occorre dare un’altra coordinata biografica: Raffaele è stato collaboratore di Mogol, e ha mutuato da questa esperienza moltissimi tratti in comune con la musica d’autore italiana di stampo classico, a cavallo tra anni ’60 e ’90. Bruno Lauzi, Gino Paoli, Bobby Solo, qualcosa di Buscaglione e di Battisti, a questi ammiccano i testi del lucano, mentre gli arrangiamenti, fortunatamente affidati ad una squadra di musicisti molto validi, sono più moderni, sporchi di rock e di jazz, blues e black music, ma sono solo venature superficiali che rigano una piattaforma fatta di riferimenti agli anni settanta e ottanta, con il piano (di Franco Frezza) al posto dei synth. I trascorsi musicali di Raffaele Tedesco, in verità, lo vedono congiungere il suo estro creativo, di cantante e chitarrista, ma anche compositore, con nomi del calibro di Arisa e Umberto Tozzi, anche questi in piena coerenza con il percorso intrapreso in Che Mondo Sei.

Tecnicamente, a livello vocale, non c’è veramente nulla da dire. Estroso, versatile, abile nel coniugare messaggio veicolato con il testo ed emozioni comunicate con la voce, Raffaele riesce a rendere un disco se vogliamo pesante, più che altro per la reiterazione di stilemi appartenenti a determinati momenti della storia della musica italiana, attuale con la sua voce, particolare, di classe. E’ la profondità con cui analizza le tematiche scelte per le liriche che riesce ad innalzare anche il contenuto testuale e letterario, rendendo giustizia al maestro Rapetti.
Di fatto, questo disco dimostra come senza innovare niente si possa pubblicare un lavoro onesto e di grande dignità artistica, una volta preso coscienza di quanto questo possa frazionare il pubblico e destinare l’opera a chi ha un’età media superiore a quella di chi compone. Ma magari è pure un bene.

Alla presenza del sindaco del Comune di Asti, dell’Assessore Regionale e della stampa, l’Assessore alla Cultura Massimo Cotto ha presentato  il  progetto Akamu, di cui egli stesso è l’ideatore.

 

Uno straordinario collegio docenti composto daNiccolò Agliardi (reduce dal grande successo della serie Braccialetti Rossi), Giuseppe Anastasi (autore delle più belle canzoni di Arisa), Luca CarboniGrazia Di MicheleFrancesco GucciniGabriele Mori (vocal coach del team Pelù a The Voice), Mauro Pagani,Alfredo Rapetti Mogol (l’autore per eccellenza di Laura Pausini), Andrea Rodini (vocal coach del team Noemi a The Voice) darà il via il prossimo 16 aprile al primo Master in Canzone d’autore all’Università di Asti, il secondo master partirà invece il 23 aprile.

AKAMU è una casa dell’arte dove si insegna canzone d’autore, pop e jazz. Un luogo dove l’aspetto formativo si combina a quello ludico e informativo perché non si limita a insegnare. Durante i corsi, ma anche nel resto dell’anno, l’Accademia promuoverà mostre, concerti, letture, installazioni multimediali, workshop, spettacoli teatrali. Un lavoro a tutto tondo per fare in modo che dall’Università di Asti il talento si muova in ogni direzione per far nascere nuove forme d’arte.

L’obiettivo è dunque duplice: da un lato formare nuovi talenti, dando loro gli strumenti adatti per esprimersi ed emergere in un momento storico drammatico per chi vuole fare musica; dall’altro diventare il motore di ricerca del “ben essere” e, al tempo stesso, il centro di una immaginaria cittadella fortificata di (r)esistenza artistica. Ogni sua attività sarà infatti collegata con altri centri nevralgici dell’arte in città: il teatro Alfieri, il piccolo teatro Giraudi, le Case del Teatro, i musei, il Diavolo Rosso. Tante scintille per accendere ad Asti il grande fuoco dello spettacolo.

Il primo Master (dal 16 al 18 aprile) avrà come docenti Mauro Pagani (già direttore musicale del festival di Sanremo, musicista della PFM e straordinario compagno di viaggio di Fabrizio De Andrè), Giuseppe Anastasi e Alfredo Rapetti in arte Cheope (docenti del CET di Mogol), e Niccolò Agliardi, ai quali si aggiungeranno per una lectio magistralis Francesco Guccini e Luca Carboni, ovvero due generazioni della leggendaria scuola bolognese a confronto.

Il secondo Master (dal 23 al 25 aprile) sarà invece incentrato sul rapporto tra musica e talent. A condurre le lezioni saranno infatti Gabriele Mori (The Voice), Andrea Rodini (X-Factor e The Voice), Grazia Di Michele (Amici, Sanremo 2015) e nuovamenteGiuseppe Anastasi.

AKAMU è un progetto di Massimo Cotto realizzato dall’Università degli Studi di Asti con l’apporto dell’Assessorato alla Cultura della Città di Asti, il sostegno fondamentale della Fondazione Cassa di Risparmio di Asti e della Regione Piemonte, in gemellaggio con l’Assessorato alla Cultura di Sanremo.

Il logo di AKAMU è stato disegnato da Paola Malfatto dell’Associazione Creative.

Info iscrizioni: ANTEROS produzioni Cell.340/9073333 – Tel. 0734/255255

Contatti: Tel. 0185/311603 –akamuaccademia@gmail.com

Produzione: Graziella Corrent, Enrica Corsi

Ufficio Stampa: L’AltopArlAnte Francesca Zizzari  Cell. 328/4161425 – francesca@laltoparlante.it

Facebook: https://www.facebook.com/pages/AKAMU/870501779672617
Twitter: https://www.twitter.com/akamuaccademia

ETICHETTA: MyPlace Records

Human Machine dei nostrani NODe viene spiegato dal quintetto come un prodotto “electro-punk” e “electro-pop”, per citare le definizioni presenti nel loro profilo Facebook. Di fatto, sono etichette calzanti, che descrivono, se non la polpa, lo smalto del disco. Si tratta di un viaggio elettronico che trova però nelle sfumature più dark del rock e della new wave anni ’80 la sua strada verso una smaliziata riproposizione di materiale invero non così originale. Novità non sono senz’altro l’uso del vocoder e dei sequencer, che, prendendo a piene mani dai Kraftwerk e dai Daft Punk, fanno rintracciare in una parte dei pezzi l’evidenza di una tendenza esterofila un po’ forzata. Risulta invece estremamente piacevole l’atmosfera da club di alcuni brani – che richiamano anche qualche elemento techno tedesco, come Paul Kalkbrenner, Anthony Rother, ma non solo – dove il ballo e l’accompagnamento fisico sono suggeriti da cantati catchy, cassa dritta e suoni gonfiati al punto giusto grazie da un mastering equilibrato, caldo e tagliente.
La composizione presenta caratteristiche latenti che si scoprono solo con l’ascolto ripetuto, come la progressione dei brani con echi e rimandi anni ’90, sporcata di synth-pop alla Depeche Mode, sebbene sia il più banale dei paragoni che possiamo fare. Il pantheon dei NODe ci mostra anche l’influenza di Autechre, Front 242, l’album Looking for St. Tropez dei Telex e gli esordi dei Nine Inch Nails, rendendo l’album radiofonico e leggero. A suo modo, questa rilettura italiana non stona, facendo proprie tematiche noir e un’estetica industrial che un sound moderno nei synth e nelle ritmiche rende attuali.
I riferimenti psicanalitici, religiosi e filosofici, quali una pretesa di indagine esistenziale attraverso le tracce di questo disco, non risultano così evidenti e lampanti, e scegliamo così di tralasciare questa particolarità di cui comunque la band restituisce già una chiara descrizione in tutti i vari link online.

Come molti dischi “di derivazione” ha perlomeno la qualità di collocarsi in maniera chiara dentro un filone, quello della nuova musica elettronica italiana, che sta scalzando il rock dal podio dei generi più ascoltati, o forse l’ha già fatto. Dai NODe ci possiamo aspettare, in ogni caso, una scalata e un miglioramento che già si possono intravedere considerando come songwriting e produzione siano in linea con le più recenti e criticamente apprezzate uscite nel genere.

ETICHETTA: VOLUME! Records
GENERE: Canzone d’autore

Denis Guerini è un cantautore, o meglio uno scrittore di canzoni, già conosciuto per lavori a cavallo tra musica e teatro, finiti anche nella sua discografia recente. Con Vaghe Supposizioni, l’indagine di sé stesso che diventa anche indagine dell’uomo in genere, tipica della sua produzione passata, viene estesa lungo nove tracce, toccando venature ermetiche e freudiane. Le tensioni etiche e morali, la difficoltà di dover prendere una scelta e gestirne poi le conseguenze, il bagaglio di esperienze che si accumula ma non è mai sufficiente a vivere senza commettere errori, sono tematiche che traspaiono in maniera piuttosto evidente e che con uno sguardo da osservatore privilegiato, quasi distaccato e per questo imparziale (che ricorda un po’ il narratore onnisciente in letteratura), vengono raccontate tramite canoni da noir metropolitano. L’analisi delle realtà urbane è approfondita un po’ come un James Ellroy o, in Italia, un Loriano Macchiavelli (che ha pure trasformato molti racconti in radiodrammi per la RAI), della musica.
Il contento musicale è incredibilmente variegato, ma rimane nell’ambito delle tinte scure, raramente schiarite da qualche uscita più lieta, magari swing o jazz, mentre in generale prevalgono la tradizione cantautorale italiana, qualche salto fugace nel rock e i primi germi di una contaminazione elettronica che potrebbe farsi più presente nei lavori futuri, visti gli ottimi risultati. In linea di massima, i vari generi toccati vanno a sottrarre coesione al disco, ma la coerenza tra musica e apparato testuale è fuori discussione, a livello di tonalità, colorazione, sfumature sonore e atmosferiche.

Denis Guerini, con questo album, dimostra ancora una volta come in Italia ci sia una radicata tradizione cantautorale, in grado di associare musica e testo – sempre con maggiore importanza alle parole, sia chiaro – con la consapevolezza della restituzione di un messaggio complesso e artisticamente rilevante. Di nuovo, un bel disco italiano di cui c’era bisogno.

Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Pop rock, alternativo

Ragioni economiche, logistiche, e probabilmente anche umane, stanno provocando lentamente la scomparsa delle band affollate di musicisti. Power duo, power trio, cantautori, one-man band, dj o coppie di dj: sono queste le forme più popolari nella musica italiana post-crisi, in qualsiasi genere e direzione si guardi.

I The Panicles, da sei anni e qualche mese, hanno sguinzagliato tutti i vantaggi della formazione in trio per raggiungere agilmente aperture di spicco (quel che è rimasto dei Deep Purple, ma forse sono più importanti per il nostro microclima i Verdena o i Ministri), tour internazionali e contratti discografici importanti con EMI e Virgin. Ma cosa piace dei The Panicles? Sicuramente il sound pop, i cori da stadio, la leggerezza dei brani che non assumono mai strutture imponenti, lunghe e noiose. In Simplicity: The Universe (Extended) ritroviamo, come nelle precedenti produzioni, le formule tipiche delle band che ammettono di stimare (Coldplay, U2, Muse, Pearl Jam), che nell’approccio di chitarra e, ancora di più, nella voce, sembrano quasi frullati insieme e restituiti in una forma certo personale, ma dove gli ingredienti sono ancora eterogeneamente distinguibili.

Il singolo Simplicity, indie-ballad danzereccia con qualcosa di Miles Kane e dei primi The Fratellis, per non dire Franz Ferdinand, è chiaramente fatto per raggiungere un pubblico numeroso. Al contrario di Your Limits, non risulta comunque radiofonica nell’accezione negativa del termine. Paralyzed corre su binari più intimisti, quasi cantautorali, mentre Tell Me Something può ricordare Simple Minds e certe chitarre dei R.E.M. della seconda metà degli anni ’90. In generale, l’idea di catchy guida tutto il disco e ne abita l’essenza, ma l’importante è riconoscergli che hanno scelto la strada, la cui facile percorribilità non è cosa ovvia e scontata come alcuni supporrebbero, del pop di classe, levigato e raffinato, per quanto ammiccante.

Per ora, una vittoria facile e senza sbavature.

Recensione a cura di Cristina Commedini

ETICHETTA: Nessuna (autoproduz.)

copertina (1)

TRACKLIST:
1 Agenzia delle entrate
2 Marlene
3 Buoni propositi (per l’anno nuovo)
4 Don Bastiano
5 Radiosi saluti da Fukushima
6 Linda
7 Centerbe
8 7 titoli

Sul finire del 2014 arriva un disco che fa bene alla musica emergente italiana. Gli artefici sono I PICARI, band umbra che il 29 Novembre 2014 pubblica questo interessantissimo album dal titolo “Radiosi saluti da Fukushima”. Un disco che non vuole sconvolgere nessuno o colpire obbligatoriamente con effetti speciali. No, qui non sentirete nulla di straordinario e credeteci per una volta questo non è per niente un male, anzi. Un disco sincero, onesto, come non se ne sentivano da tanto tempo. Testi comprensibili e mai banali, atmosfere folk-rock e storie in cui tutti si possono rispecchiare. Sono questi gli ingredienti che fanno di questo debutto, un disco degno di nota e da consigliare. Attendiamo quindi fiduciosi gli sviluppi di questa nuova band andandoli a vedere dal vivo alla prima occasione (fatelo anche voi dopo aver ascoltato il disco) e fiduciosi di un secondo disco all’altezza delle premesse.

Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Renilin
GENERE: Rock, cantautorato

TRACKLIST:
Luna d’inverno
Non cambieremo
Il gatto che abbaia
La musica non gira più
Blu occhi
Non portarmi via
Beyond the clouds
Alzami nell’aria
Caccia alla volpe
Anime bruciate

Alessia d’Andrea è un nome che non a tutti suonerà familiare anche se la sua biografia risulta tutt’altro che povera. A partire da una collaborazione con Ian Anderson dei Jethro Tull, la carriera è stata tutta in discesa: concerti in diretta TV, anche fuori dall’Italia, la vittoria del premio Mia Martini, il tributo a De André in Bulgaria, dischi editi in tutto il mondo. Cosa ci ritroviamo tra le mani scartando dunque Luna d’Inverno? Prima di tutto il protagonismo assoluto della voce, eccezionale, di Alessia, che obbliga i musicisti a volare bassi, per darle il giusto rilievo. Abile tanto nei brani più soffusi (straordinario l’incipit di piano e voce di Anime Bruciate, quasi toccante) quanto in quelli più grintosi e rock (Blu Occhi la più completa ed energica, con questo funk sporco ma classy, ironica ed elettrizzante La Musica Non Gira Più), rivela per tutti e dieci i brani un’invidiabile spirito di adattamento ai più diversi registri, accarezzando il blues, il funk, il rock ballabile, le ballad (Non Portarmi Via). I testi meritano l’attenzione che stanno ottenendo, – l’artista segnala sul profilo Facebook proprio in questi giorni alcune traduzioni in tedesco apparse online – scritti con una padronanza della lingua italiana e un utilizzo delle rime certamente degno di menzione (Il Gatto Che Abbaia). Il contesto semantico è spesso romantico, sentimentale, delicato, tipico di talune situazioni neomelodiche della tradizione campana, ma senza inutili svenevolezze o piagnistei.

Luna d’inverno è, in definitiva, un disco maturo, caloroso, grazie alle liriche dense di significato di questa scrittrice prolifica quanto enfatica nei toni. Brillante prova di forza.

Recensione di Andrea Marigo

ETICHETTA: Fat Possum Records
GENERE: Folk, songwriter, rock

TRACKLIST:
1. The Heart Is Willing
2. Down in the Fire (Lost Sea)
3. Skull & Bones
4. 123 Dupuy Street
5. Surfer King
6. Hiway / Fevers
7. DRMZ
8. The Twist
9. Rte. 28 / Believers
10. Scenes form a Circus

Voto 4/5

A.A. Bondy (Auguste Arthur Bondy), è il frontman dei Verbena, band grunge americana (che vanta tra l’altro un gran disco prodotto da Dave Grohl, Into The Pink) scioltasi nel 2003.
Dal 2007, il suddetto artista, decide di passare dalle chitarre à la Cobain alle chitarre acustiche ed inizia il suo percorso (scontato) da songwriter, sfornando dischi solisti, che in realtà non sono per niente malaccio, dalle tonalità folk.

Chiaro che fin qui non c’è niente di male, considerando anche il fatto che il “giovane” detiene una delle migliori voci mai sentite (gusto personale per carità per quanto riguarda il panorama di cui si sta parlando), ma si sa: di dischi folk-solisti-acustici ne è pieno il mondo e differenziarsi da quel che c’è non è la cosa più facile da ottenere. Cosi infatti è per i primi due album che Bondy, in versione solista, da alla luce. Poi questo Believers del 2011 segna invece un cambio di marcia più personale e ci regala un disco molto interessante.
Sempre folk rimane ma stavolta, chitarre semi acustiche, slide e leggere batterie sono coinvolte in un amalgama insolito per il genere.

Un disco che dipinge magistralmente la propria copertina di quando ognuno cerca la propria fuga dall’intorno e si vuol rimaner da soli, senza tante lagne di cornice.

Recensione scritta per Music Opinion Network

Inquadramento geografico: i Misfatto sono di Piacenza, ma la città a cui si ispirano per Heleonor Rosencrutz è Lisbona. La base di partenza di questa opera è infatti il libro “La Chiesa Senza Tetto: 35 Giorni a Lisbona”, il cui autore è lo stesso Gabriele Finotti, chitarrista, scrittore e fondatore della band. L’opera possiede il medesimo nucleo del libro, il fulcro attorno al quale il contenuto musicale gravita in maniera molto equilibrata: il tema del viaggio. Lo strumento che calamita di più l’attenzione è la chitarra, indubbiamente il perno dell’intero lavoro, che sta sempre girovagando lungo assoli e atmosfere che ondeggiano per temperatura, atmosfera, rosa di colori. Il risultato è brillante, riuscendo ad evitare la ridondanza e il barocchismo nonostante il notevole apporto tecnico. L’anima è pop, vuole parlare a più persone possibili, ma mantenendo alto il livello medio, nella struttura dei brani, nella qualità degli arrangiamenti, nel contenuto culturalmente valido, facendo sorgere spontaneamente una certa curiosità nell’andare ad individuare il significato di alcuni termini nominati nei brani o nei titoli: ad esempio, a cosa si riferisce Xoringiket? Una sorta di malinconia vena tutto il disco, dove tutti e nove i pezzi, introdotti da Heleonor con il commiato finale di Goodnight, regalano momenti di sospensione, di vero e proprio trip. Non bisogna comunque perdere di vista la stella polare che guida il disco, l’ispirazione madre, quel rock vero, autentico – classic/hard rock anni ’70, prog italiano del medesimo decennio, la grinta del grunge – lontano dalle accidiose imitazioni d’oggigiorno.

Cosa possiamo dire ancora di Heleonor Rosencrutz? Ascoltatelo per capire, pronti ad affrontare un vero e proprio viaggio non solo nella capitale portoghese, ma anche nella mente di un pugno di ottimi musicisti italiani.

The Sidh – Nitro [2014]

Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Artists Record
GENERE: Celtica, elettronica, world music

La stagnazione in termini di novità discografiche ha prodotto negli ultimi anni almeno due macrocategorie di artisti che, prendendo in prestito due termini del linguaggio politico, potremmo chiamare “progressisti” e “conservatori”: i primi tentano di andare avanti, superare le etichette ormai “classiche” – e bisognerebbe aprire un dibattito riguardo l’opportunità di alcune di queste – spesso contaminando, mescolando, fondendo materiale proveniente da diversi orizzonti. I conservatori, lo dice il termine stesso, rimangono attaccati a stilemi e motivi del passato, ripetendosi e contribuendo alla ciclicità del ritorno delle mode. La domanda da fare è dunque: dove si collocano i The Sidh? Intanto, chi sono? Marr, Melato, Subet e Pagliaro sono quattro musicisti già attivi in altre formazioni che si sono uniti con lo scopo dichiarato di dare una patina moderna alla musica celtica di matrice irlandese, un genere di per sé chiuso, complice l’isolazionismo di questa zona d’Europa. Per riadattare e rivedere brani tradizionali appartenenti ad un’altra cultura bisogna innanzitutto conoscerla a fondo e il quartetto lo dimostra, quantomeno sul piano musicale. Gli elementi “nuovi” si identificano qui nell’elettronica, quindi drum machine, sintetizzatori, tastiere, con strutture e accentazioni ritmiche provenienti da alcuni dei generi che più hanno aggredito massivamente l’industria musicale nell’ultimo lustro (dubstep, r’n’b, hip hop americano, drum’n’bass, glitch), senza tralasciare le tracce di folk, di prog, di punk a cui la band aveva abituato gli ascoltatori. Il risultato è un intelligente mosaico di musica vecchia e nuova, dove l’obiettivo di attualizzare ogni singolo brano può fare a volte dimenticare la presenza dell’elemento irish, anche se il contributo di strumenti come la cornamusa è determinante per mantenere il collante ideologico che regge questo lavoro. Immaginatevi i Flogging Molly che incontrano Alva Noto e gli Autechre, Shane MacGowan che canta su una produzione brostep di Nero, l’hip hop di Diplo con le uilleann pipes. L’operazione riesce sicuramente dal punto di vista della fusione dei linguaggi, grazie ad una registrazione e ad un mastering di grande classe. L’impressione che i musicisti abbiano spinto più sui suoni che sull’intensità emotiva o la naturalezza dei brani tende a minare la bellezza di alcuni momenti, ma anche questo aspetto è perfettamente controbilanciato dall’ottima capacità strumentale udibile in tutte le sezioni. E’ grazie a questo che la definizione “prog” non risulta più così fuori luogo.

Se vi piace il folk irlandese/celtico e siete curiosi di sentirlo in una maniera “diversa”, vi consigliamo questo viaggio. Se vi farà storcere il naso, vi si chiede comunque di comprendere quante capacità servano per comporre un disco del genere, frutto di un innegabile labor limae. Piacevole scoperta degna di brillare in un periodo di ombre.

Recensione a cura di Cristina Commedini

ETICHETTA: La Fame Dischi
GENERE: Cantautore, indie rock

Cover

Claudio Rossetti in arte Il Rondine debutta con questo “Può capitare a chiunque ciò che può capitare a qualcuno”, primo album registrato a Perugia dall’etichetta indipendente La Fame Dischi in seguito alla vittoria (su ben 134 band iscritte) della seconda edizione del concorso annuale che la label umbra organizza ogni anno dal titolo “Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame 2013/2014”.

Non conosciamo gli altri iscritti però ci pare che le canzoni del nostro giovane (classe 1985) cantautore indie-rock romano meritano di essere spinte e divulgate e quindi aiutate a farsi conoscere da più gente possibile. Azzeccata quindi la scelta dell’etichetta. Canzoni che parlano di storie quotidiane, dove tutti possono immedesimarsi e che nascondono sempre un doppio significato. E la magia sta proprio in questo: partire da comuni storielle di tutti i giorni per poi ritrovarsi a riflettere sulla vita e le sue perenni questioni.

Pregiudizio su sergio, La naturale capacità, In tempo, Mi fido più di me, La fine di uno scarafaggio, La settima differenza, Morto, La bolletta del gas, vanno tutte in questa direzione. Ascoltare per credere.

STREAMING DISCO (SPOTIFY) http://goo.gl/GhtRHb
STREAMING DISCO (YOUTUBE) http://goo.gl/4rs5yo

LINK ACQUISTO (COPIA FISICA) http://goo.gl/4x6iuL
LINK ACQUISTO (DIGITALE / MP3) http://goo.gl/snKkur

VIDEO SINGOLO “MI FIDO PIU’ DI ME”
http://youtu.be/DkVrCxKYt-Q

Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Gutenberg Music

Il dremong è un orso tibetano poco noto dalle nostre parti. Non essendo questo il luogo ideale per approfondimenti zoologici, vi risparmieremo anche inutili sermoni sul povero animale e le sofferenze che la medicina e la cosmesi cinese gli causano per ricavare la sua bile. Max Manfredi, attivo da tempo, giunge a realizzare questo album grazie al crowdfunding e, libero di conseguenza da qualsiasi richiesta di produttori o label, sfoggia un album senza tempo, lontano da ogni parvenza di immediatezza o di adeguamento al mercato, caleidoscopico e multiculturale. Gli strumenti utilizzati ne disegnano già gli orizzonti geografici e culturali: glockenspiel, violino, flauti, ma anche ingegnosi ammennicoli orientali come il guqin, affiancati logicamente alle sezioni ritmiche e melodiche degli standard a cui siamo abituati. Paragonarlo ad altri artisti non è facile e sforzandosi si produrrebbero solo accostamenti impalpabili ed imprecisioni citazioniste di bassa tacca, ma tracciamo volentieri un identikit avvalendoci di una manciata di etichette: classic rock, world music, progressive. Non è un disco per mercanteggiare con la propria arte, ma per comunicare CON la musica qualcosa. Nessun brano annoia, nessuna facile trivialità, né dozzinalità. L”evoluzione strutturale dei brani racconta di una gestazione molto ponderata, soppesata, narra di una composizione dove i riferimenti culturali – si legga qualsiasi intervista all’artista – zampillano con il giusto equilibrio senza banalità né sfrontatezza. L’Oriente pervade un po’ tutto il disco, in particolare la Cina, e al di là del titolo sono molte le reminiscenze che guardano verso est: le più vicine sono quelle greche, e infatti non mancano tracce di rebetiko, genere di dimensione nazionalpopolare in Grecia. Unica pecca: avremo voluto sentire un po’ di bouzouki. Il basso, per la cronaca un fretless, quando è protagonista arricchisce ed agghinda il brano in maniera sempre percettibile, non accontentandosi di sostenere lo scheletro ritmico della canzone come spesso accade nella musica da chart. Per “Sestiere del Molo” un solo commento: ascoltatela per prima e vi dirà molto sull’argomento di questo articolo.

La qualità del songwriting è notevole, ma particolarmente sopra le righe ed eccitante è la scrittura testuale, così come la sua controparte nell’interpretazione vocale di Manfredi. Musicisti come Bruno Cimenti non possono che impreziosire un lavoro già di per sé significativo dal punto di vista musicale quanto ornamentale nel panorama italiano, ed è lampante quanto non possa essere considerato solo uno dei tanti prodotti dell’ingegno tipicamente derivativo dei nostri cantautori moderni. Album come Dremong ingemmano la discografia nostrana tutta, la nobilitano, le conferiscono una dignità spesse volte assente nei dischi che più piacciono. Gridare al capolavoro diventa sempre più difficile ma talvolta ancora accade che ci si trovi al terzo o al quarto ascolto, costretti a prendere fiato e, sorpresi, irrompere sbalorditi in un gesto di sbigottimento. Questo è il caso.

Recensione a cura di Carla Imperatore

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Canzone d’autore

Copertina LEBENSWELT

Cantare in italiano, si sa, può essere utile nel nostro paese per una band emergente che così riesce subito a farsi intendere e arrivare al proprio pubblico in maniera diretta, ma risulta anche una lingua difficile. Cadere negli scivoloni della banalità è un pericolo sempre dietro l’angolo e cimentarsi non è mai semplice. In Italia infatti, attualmente, scarseggiano le band che cantano in italiano che ci sanno fare davvero con i testi. Spesso assistiamo a un miscuglio di cose già dette, già sentite e spesso ripetute anche male.

Ci fa quindi piacere potervi segnalare un gruppo che ha da poco pubblicato una seconda opera con testi in italiano di tutto rispetto. E non sono solo i testi a colpire. Loro sono La Madonna di Mezzastrada e vengono da Perugia. Sono nati nel 2008 come duo acustico, dall’incontro del chitarrista e cantante e autore dei testi Fabio Ripanucci (San Benedetto del Tronto) e del chitarrista Luigi Del Bello (Ascoli Piceno) . Nel 2009 il progetto si allarga al bassista Fabrizio De Angelis (Ascoli Piceno) e al batterista Simone Sensoni (Piansano – Viterbo) che verrà in seguito sostituito dal batterista attuale Michele Turco. Nel 2012 anche il chitarrista Lugi Del Bello abbandona il progetto. Il periodo di pausa che ne segue da spazio alla maturazione di nuove idee che prendono forma con l’ingresso di Damun Miri Lavasani (Perugia) al piano e al synt e Luca Papalini (Perugia) al violino. La conseguenza è un radicale cambio di sound che li porta a esordire nel 2012 con il primo album CANTICHE.

Il 13 Marzo 2014 esce invece “LEBENSWELT (il mondo della vita)”, il secondo disco de La Madonna di MezzaStrada. Il disco è stato anticipato dal brano “Tunisia” che è stato inserito nella seconda compilation dell’etichetta indipendente La Fame Dischi, uscita il 14 Febbraio 2014. Compilation legata al concorso “Le canzoni migliori le aiuta La Fame – SECONDA EDIZIONE”, concorso a cui La Madonna ha partecipato classificandosi fra i primi 30 gruppi (per l’esattezza al 24°posto su oltre 130 band partecipanti).

Quello che colpisce di questa band è l’approccio quasi punk ed il suo sound ben impastato che colpisce al primo ascolto. Il disco apre con la bellissima “Il mondo della vita” che è una perfetta sintesi della direzione che a mio avviso deve prendere questa band: giri di chitarra tirati, basso a palla e fiumi di parole ben sostenute dal cantante Fabio Ripanucci. Dicevamo dei testi, qui ormai fondamentali. Le tematiche sono le più disparate e le più disperate se vogliamo. L’insoddisfazione di questi tempi sono descritti quasi alla perfezione in quello che alla fine di tutto riesce ad essere un disco molto convincente. Consigliatissimo!

TRACKLIST
1 Il mondo della vita // 2 Io // 3 Le vite degli altri // 4 Mosche // 5 Nostalgia // 6 Vietato pensare // 7 Piccoli drammi // 8 Tunisia // 9 Regione

CREDITS
Fabio Ripanucci: Chitarra e voce (1,2,3,4,5,6,7,8,9), piano (4), ukulele (2, 3)
Fabrizio De Angelis: Basso (1,2,3,4,5,6,7,8,9)
Damun Miri Lavasani: Piano e synth, cori (1,2,3,4,5,6,7,8,9)
Luca Papalini: Violino (1,2,3,4,5,6,7,8,9)
Elis Tremamunno: Violino (5,7,8)
Franco Pellicani: Batteria (1,2,3,4,5,6,7,8,9)

Registrato da Daniele Rotella e Francesco Federici presso gli studi di “Cura domestica” all’Ostello della Musica Mario Spagnoli di Perugia. Missaggio a cura di Franco Pellicani. Mastering effettuato agli Skylab Studios Recording di Giorgio Speranza. Art Work by AN DEGRIDA

LINK
http://facebook.com/LaMadonnadiMezzaStrada
http://lamadonnadimezzastrada.bandcamp.com/
https://soundcloud.com/lamadonnadimezzastrada

Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Novunque
GENERE: Musica d’autore

Poetry, titolo dell’ultimo lavoro del cantautore casertano trapiantato a Roma Valerio Piccolo, trova questo suo nome proprio dal materiale che ha originato il disco che stiamo recensendo: nove poesie che l’artista ha fatto comporre per il progetto in questione da autori letterari e musicisti americani. I nomi non sono certo sconosciuti poiché parliamo della storica cantautrice californiana Suzanne Vega, l’autore del best seller The Fortress of Solitude (in italiano La Fortezza della Solitudine) Jonathan Lethem, il critico musicale del New Yorker Ben Greeman e molti altri. I consensi raccolti dall’artista in ambito musicale ma anche teatrale lo hanno visto legarsi più volte a doppio filo con il mondo newyorkese e collaborare con tantissimi esponenti della scena italiana e non (Paola Turci, Andrea Costa dei Quintorigo, Neri Marcoré e un’infinità di altri) e si può certo dire che tutta questa esperienza in ambito di collaborazioni gli ha permesso di scegliersi in maniera molto accurata anche le figure di cui si è attorniato stavolta. 

Nel disco, che per la cronaca è in lingua italica tradotta direttamente da Valerio, riappare anche il già citato Marcoré nella splendida “Maledizione”, filippica contro un innominato destinatario carica di una tensione in equilibrio tra il comico dei poeti giullareschi del trecento (come l’aretino Cenne de la Chitarra) e l’insulto velato, mai volgare. “Chiacchiere da Bar” ci porta nel mondo della quotidianità, dove la banalità delle giornate porta a dare significato alle dicerie e ai cicalecci più che a ciò che realmente si conosce o dovrebbe importare. Logicamente, bar e osterie, ma anche barbieri e saloni di bellezza, sono il luogo ideale per questa pratica talvolta vicina alla diffamazione. Non è un caso, di conseguenza, se il concetto del locale ritorna anche nella conclusiva “Un Barman all’Inferno”, distesa e melodica conclusione di un disco che si configura più come un mosaico di armonia ed proporzione, mentre discordia, dissonanza e cacofonia rimangono solo nel contenuto dell’universo lirico. La poetessa Sarah Manguso (autrice di una delle poesie ispiratrici del progetto), del resto, aveva scritto sei anni fa (e qui parliamo di prosa) The Two Kinds of Decay. Il mondo della recitazione entra a pié pari nell’entourage artistico di cui si circonda l’artista campano grazie agli attori che mettono in scena il video del singolo, “Ordine”, tra cui citiamo Lucia Ocone, Maya Camerini e Arcangelo Jannace. 

Che dire, “Poetry” non è certo un disco consueto per il panorama dello Stivale. Attingendo da fonti letterarie composte appositamente per essere poi musicate, di fatto, stravolge le mode del citazionismo che stanno iniziando a diventare davvero anacronistiche ed arcaiche, più che altro per il senso di vissuto che evocano o la poca cultura “reale” di chi se ne avvale. Bene ha fatto dunque Valerio ad inventarsi questo stratagemma, completando poi l’opera grazie a un songwriting che non trascura mai gli arrangiamenti e la costruzione dei brani. Nessuno di questi, difatti, risulta convenzionale, dozzinale o insipido, sorvolando o evitando di affrontare tutte le classiche dinamiche del cantautorato dei “quattro accordi”. Quando un disco passa ad essere un’opera d’arte e non solo un album, si può dire un successo. 

Carissimi Push Button Gently, benvenuti! The Webzine continua la sua serie di “pleasant talks” (piacevoli conversazioni) intervistando anche voi. Raccontateci un po’, come parte la vostra avventura?
Abbiamo cominciato nel 2006; Io (Giulio) e Nicolo’ ci trovavamo nella nostra saletta e giocavamo con qualsiasi strumento ci capitasse sottomano. Da li abbiamo continuato a trovarci e registrare canzoni, idee, rumori, e con il tempo e’ nata l’idea di cominciare a suonare anche dal vivo, di formare una vera e propria band.

Sono diverse le uscite discografiche che risultano dal vostro Bandcamp. Che tipo di evoluzione sonora vi ha portato dall’esordio alla pubblicazione di URU EP?
Fin dall’inizio abbiamo sempre dato molta importanza all’aspetto di improvvisazione, di spontaneita’ della musica, quindi la musica e’ cambiata molto col passare del tempo, col cambiare degli strumenti usati e soprattutto dei membri del gruppo. URU Ep per noi e’ un lavoro di transizione, ci stiamo staccando dalle composizioni del passato ( con A.DePoi alla batteria e L.Monti al basso, da due anni sostituiti da Natale De Leo e Francesco Ruggiero) e ora abbiamo trovato un nuovo equilibrio, che ci permette di sperimentare e osare di piu.

“Kinnonai” è il titolo di un vostro pezzo recente. Un termine che da una ricerca Google non dà altri risultati se non la vostra canzone. Ci volete parlare di questo brano e di cosa significa?
E’ una parola giapponese che significa indifferenza, e la canzone parla di bellezza, di come si possa essere colpiti nel profondo da qualcosa che in realta’ e’ totalmente indifferente a noi.

Anche voi, come moltissime band, state iniziando ad usare sempre più synth ma non per una banale svolta elettronica, direi più psichedelica. Delle varie definizioni musicali che vi sono state affibbiate (indie, alternative, ecc.) qual è quella che vi sta più stretta e che non vorreste sentirvi attribuita?
Finche nessuno si fissa su una etichetta in particolare direi che siamo contenti!

Si evince dalla vostra storia discografica che avete un sacco di materiale vecchio mai pubblicato. Pensate che in futuro queste perle nascoste possano essere sfruttate in qualche modo?
Non si sa mai, ogni tanto e’ bello rispolverare qualcuno di quei vecchi esperimenti, pero’ di sicuro siamo piu interessati ad andare avanti e scoprire cose nuove, non e’ ancora il momento di fare un “best of”

Qual è il rapporto tra i Push Button Gently e i social? Pensate possano aiutare un musicista a dare diffusione alla sua musica oppure che abbiano influenzato negativamente l’andamento della scena?
Non siamo proprio innamorati dei social, ma e’ innegabile che siano un ottimo mezzo per tenersi in contatto e darsi visibilita’

Oggi per suonare ed imporsi bisogna perlopiù pagare. Booking, uffici stampa, etichette, non investono nulla (anche giustamente) e chiedono che le band acquistino dei servizi. Come vedete la scena musicale alla luce dei nuovi meccanismi che stanno regolando il mercato?
Cambiano i modi ed i mezzi, ma il succo e’ sempre quello, e’ difficile farsi vedere, tutto quello che puoi fare e’ darci dentro e divertirti.

Cosa si deve aspettare il pubblico da un concerto dei Push Button Gently? Se volete ricordare prossime date o prossime uscite, avete tutto lo spazio necessario.
Un sacco di rumore e un bel viaggio per chissaddove, il prossimo e’ a Como con i Bud Spencer Blues Explosion il 30 Agosto (NDR: causa ferie questo riferimento è ormai vecchio, ma lo lasciamo comunque a titolo informativo)

Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Autoproduzione, Artist First (distribuzione)
GENERE: Hip.hop, reggae

Per parlare dei Krikka Reggae bisogna necessariamente fare il punto della situazione a livello biografico. La formazione lucana, celebre per l’uso del dialetto bernaldese nei testi, nasce tredici anni fa e giunge oggi al quarto album in studio, nella fattispecie finanziato tramite la piattaforma di crowdfunding di Giovanni Gulino, l’ormai arcinota Musicraiser. I territori sono quelli del reggae, dell’hip-hop, della dancehall, con energiche sferzate, stavolta, anche in terreni come l’elettronica e l’rnb. Sono molte le situazioni che hanno visto la band calcare palchi importanti, unire le forze con artisti di grosso calibro (come accade stavolta con Roy Paci, i 99 Posse, il giamaicano Fyah George e molti altri), o comparire in pellicole cinematografiche come Basilicata Coast to Coast.

La fatica del duemilaquattordici, In Viaggio, mantiene fede alle radici della band, piantate solidamente nel panorama meridionale che ha reso famosi, per fare un esempio, i Sud Sound System, con i quali condividono l’energia sul palco e nei dischi, la capacità di far divertire non solo utilizzando la formula sempre vincente del levare, ma anche con testi attuali e che creano, tramite il dialetto, un forte senso identitario. Musicalmente, siamo di fronte a musicisti di spessore, con un’esperienza che li qualifica come artisti navigati e in grado di gestire situazioni difficili come la fusione tra reggae, roots music ed elettronica, riuscendo quasi sempre a far ballare, sorridere ma anche pensare. Le liriche sempre intelligenti staccano spesso la qualità degli arrangiamenti, come nella splendida Memoria Storica o nel featuring con Perfect Giddimani intitolato Life Ova Money. Un altro pregio del disco è quello di filare liscio con tutti i suoi undici brani anche laddove per molti ascoltatori il reggae potrebbe risultare indigesto o pesante. Sono talmente tanti i linguaggi, i riferimenti anche colti, le sensazioni evocate, che dopo qualche ascolto sembra di conoscere la band anche senza averla mai ascoltata. Un lusso che non tutti si possono permettere e che ha spinto a soddisfazioni più che meritate questa formazione che sicuramente continuerà ad averne. 

 

Articolo a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Flying Kids Records/To Lose La Track
GENERE: Hardcore, screamo

TRACKLIST:
Vecchio
Estate
Chitarra
Fiato
Baracchetta
Chiromante

Voto: 5/5

Arriva un nuovo disco per i Do Nascimiento.
Arriva un gran bel disco per noi.

Mentre tutto va un pò così nel nostro stivale (musica compresa), “in un giugno che pareva non avesse più niente da dire”, ci si ritrova ad ascoltare questi sei brani che il quartetto diGenova (in realtà vivono un pò sparsi per il mondo) racchiudono in Giorgio.

Una tracklist breve ed incisiva, che parte da quello a cui i Do Nascimiento ci avevano abituato fin qui (soprattutto nello Splittone Paura). Ora però si sente unʼinedita maturità nel comporre, che raggiunge il suo punto più alto in Fiato.

Sei pezzi. Velocissimi, efficaci, ben prodotti, ben suonati, ben cantati, ben tutto. Tra chitarre dal tocco indie a là American Football e una voce che varia dal limite del gridato al cantato “normale”, Giorgio va di diritto a collocarsi come uno dei migliori dischi italiani degli ultimi tempi, sicuramente per la scena punk italiana ma direi anche per tutto lʼunderground e non solo.

Disco che merita davvero. Chapeau.

ARTICOLO DI ENRICA A.

Finalmente, dopo un secolo, ritorno a scrivere.

Background story: Sono in vacanza con mia mamma al Lido di Jesolo, è la sera del 18 luglio e ci stiamo un po’ annoiando, quindi decidiamo di andare verso “il centro città” (che a questo punto, non so neanche se esiste), ma mentre siamo in macchina veniamo attratte dal suono di una batteria. Dopo aver perso 40 anni di vita per trovare parcheggio, seguiamo le note di “Holiday” dei Green Day che ci portano in una piazzetta piena di gente, circondata da acqua. Dietro al palco c’è una fontana.

Mi avvicino e inizio a scattare foto. Il cantante sembra essere Billie Joe con i capelli ricci e biondi (e magari qualche hanno in meno), il batterista è talmente potente da smontare (!?) la batteria a ogni colpo, le due ragazze sono delle badass e il chitarrista è il più amato e acclamato (dal pubblico e dalla band stessa).
La maggior parte della gente è seduta, guarda il concerto in silenzio, ridendo eventualmente alle battute e agli accenni del cantante; parecchia gente però si è radunata intorno alle fontane, attirata dalla musica.
La serata scorre molto veloce, la band suona più di due ore senza mai fermarsi (roba che io non ho mai visto, giuro). Si esibisce soprattutto in cover delle grandi canzoni dei Green Day, qualcosa dei Nirvana, dei Blink e qualcosa loro. Suonano tantissimo, con passione e con grinta.
Aggiungerei, quasi fin troppa: il cantante si diverte a salire e a scendere la palco, ad andare prendere gli amici dal pubblico per farli cantare o per salutarli, a saltare e a sdraiarsi; la batteria ogni tanto perde qualche pezzo, che vola in aria.
Tra i ragazzi c’è molta complicità, tra di loro si parlano e si consigliano, si seguono l’un l’altro, improvvisano. Ogni canzone ha una intro dettata da uno di loro, ha una storia o un segno particolare.
L’ultima si chiama “Stay The Night” e viene presentata con un lungo discorso del frontman su come “dobbiamo diventare quelli che vogliamo diventare” e che “dobbiamo fregarcene degli altri”, perché “noi siamo padroni di noi stessi”. Se state pensando che sia banale, non avete la minima idea del cuore con cui ha pronunciato quelle parole.

Ecco, questi sono i Money For Nothing, trovati per caso in una noiosa sera di luglio; una band di ragazzi pronti a spaccare il mondo, che ti lasciano il dolce in bocca, che sorprendono veramente.

Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Advice Music
GENERE: Pop

No Chains. Titolo in inglese per un album che si può tagliare nettamente in due tra brani cantati in italiano e altri nella lingua anglosassone. Assenza di catene, per la brillante voce di questa giovane cantante di Bordighera (Imperia), oppure stretti legacci che la imbrigliano ad un canone di vocalità e di songwriting che in molti in Italia da tempo speriamo di dimenticare? Obiettivamente, Idhea mette in campo una timbrica e una capacità tecnica di cui ben poche nuove leve del rock commerciale italiano dispongono, anche tra gli alti papaveri che della nostra scena tessono la trama da decenni. Indubbiamente, inoltre, gli arrangiamenti sono molto curati e celano dietro un velo di superficialità radiofonica anche una versatilità parcellizzata nei tanti pezzi che compongono questo lavoro. Soffermandoci sull’aspetto, appunto, orecchiabile del disco, la voce di Idhea ci ricorda molto da vicino la tradizione italiana partita tempo addietro con Massimo Ranieri e passata poi per Ron, Raf, il recente Renga, ma anche gli svolazzi di Sangiorgi dei Negramaro o la sempre più inascoltabile Laura Pausini degli ultimi anni. Non è un caso, ad esempio, se tra i collaboratori di questo prodotto spiccano nomi come Vinci e Vollaro. Lungi da noi voler tagliare le gambe ad una giovane artista solo per il facile ascolto che deriva dalle sue canzoni, ma su The Webzine non vengono molto spesso apprezzati gli emuli dei peggiori casi umani della musica nostrana (Emma Marrone, Deborah Iurato, Anna Tatangelo, ecc.). A salvare questo disco intervengono però dei discreti momenti rock, come Wanted Love In A While, divertissement piuttosto carico che ci ricorda anche la prima Gianna Nannini. Pure la title-track naviga a vista verso lidi rockeggianti ma avremo preferito forse delle virate più secche verso il blues, piuttosto che certi ammiccamenti a Vasco e Ligabue che si scorgono qui. I pezzi migliori, in ogni caso, NON sono quelli in italiano, dove la vicinanza con i tanti artisti citati è talmente evidente che si rischia di perdere anche il piacere dell’ascolto.

Per dare il giusto onore ad un disco del genere occorrerebbe criticarlo con il filtro di una radio di sola musica italiana, ed è qui che intervengono nomi come l’autrice Paola Capone e l’etichetta milanese Advice Music a dare lustro al tutto. Si perché se il nostro obiettivo invece che recensire un album fosse provare a venderlo, parleremo di un’operazione convincente, soprattutto con brani come Allora Stai Con Me. Il nostro ruolo però ci impone un po’ di sincerità ed occorre, a questo punto, andare a fondo: banalità e prevedibilità regnano in “No Chains” e, nonostante le ineccepibili capacità canore della giovane Idhea, non si può definire un disco che lascia il segno. Perlomeno qui a The Webzine.

Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Popolare

Naufragati nel Deserto è il titolo perfetto per questo disco, i cui richiami principali anche dal punto di vista musicale si rifanno all’elemento acquatico del Mediterraneo, un mare certamente vicino al concetto di naufragio, ma anche alle aride lande sahariane dell’Africa centro-settentrionale, fino al suo affacciarsi, di nuovo, sul Mare Nostrum. Folk, pop, jazz, echi spagnoli di musica gitana ma anche flamenco, un fiume infinito di idiomi diversi dal francese all’arabo passando per il sicilianu, tutto condensato in quella che risulta infine un’eccelsa padronanza culturale in primis plurilinguistica, ma variopinta anche nella sua essenza identitaria, perché questo duo in realtà risiede a Genova, aggiungendo un altro punto di riferimento anche geografico alle diverse chiavi di lettura che si possono applicare a questo loro nuovo album.

Un duo, dicevamo, produzione Primigenia che Alessandra Ravizza e Andrea Megliola hanno saputo sfruttare al meglio, dandosi visibilità anche con partecipazioni più che meritate a rassegne come Mediterrarte Festival, il Festival Italiano di Suzhou in Cina e Sanremo Off, tra gli altri. L’ultima edizione di Mediterrarte, inoltre, ha visto la partecipazione della cantante Antonella Serà, rappresentante di un orizzonte canoro non troppo distante da quello della Ravizza. Di Naufragati nel Deserto, tuttavia, non vengono ricordate solamente le voci, ma più che altro gli arrangiamenti più complessi, quelli che mettono in piena evidenza la qualità dei musicisti coinvolti. I momenti più vivaci sono scanditi da violini e intrecci di chitarre classiche ed acustiche, mentre i clarinetti fanno pensare alla tradizione ebraica, come il klezmer di Norman Nawrocki (che in realtà e’ canadese). Se dobbiamo muovere una critica a questo lavoro è forse la mancanza d’incisività dei brani o l’assenza di una direzione che renda comprensibile l’obiettivo di questo prodotto. Piacere a tutti o piacere a pochi? Alcuni pezzi più catchy farebbero pensare alla prima strada, ma la risposta è forse più nella seconda, perché alcuni assoli e fraseggi non ci faranno mai sentire estratti da questo disco nelle radio più popolari. Di conseguenza, se potessimo identificare questo disco come un’esercizio di stile e una naturale composizione proveniente da un multiculturalismo di ispirazione mediterranea, come si diceva all’inizio, l’apprezzamento sarebbe d’obbligo. In definitiva, bella prova da parte di questi genovesi che dimostrano ancora una volta come la Liguria sia patria di artisti di qualità, dentro e fuori il mondo della musica popolare.

Articolo a cura di CLAUDIO MILANO

ETICHETTA: Leo Records
GENERE: Songwriting

TRACKLIST:
1. Glad To Be Unhappy (R.Rodgers/L.Hart) – 6’05”
2. Brighten (for Teresa) (A. La Volpe) – 5’17”
3. The Solitude Of Things (A. La Volpe) – 3’55”
4. The Crisis (S.L. Mangia) – 5’40”
5. Rush (S.L. Mangia) – 4’04”
6. Is This Your Time? (S.L.Mangia) – 4’50”
7. Is Love An Illusion? (S.L.Mangia) – 4’34”
8. Purple, Lavender, Black (A. La Volpe) – 7’39”
9. Unhappy To Be Glad (S.L. Mangia) – 5’44”

Voto: 8

Web:

http://www.stefanoluigimangia.it/

Suoni elettro-acustici estranei ad ogni tradizione italiana introducono con dolcezza alla materia dell’album. No, la copertina di Maria Teresa De Palma come poteva ingannare?
Un’opera incantevole, che anche se solo fotografata, riesce a comunicare una morbidezza fanciullesca, nonostante ritagli di reticolati metallici, sagomati ad alberi e sole/luna, affiancati da cartoncini di diverso colore e forma, la scritta “viens avec moi”. Elettronica, dicevamo, a ricreare fanciulleschi glockenspiel affiancati ad una chitarra acustica appena sfiorata, ad una melodica altrettanto accennata, il notevole timbro della tromba di Giorgio Distante e… la voce. Quella di Stefano Luigi Mangia, didatta ed interprete, che solo l’ascolto del disco saprà chiarirvi perché, ad oggi, non alla ribalta di cronache e classifiche di sorta. Per paradosso. Si, proprio per paradosso.
Stefano, assieme a Dalila Kayros e John De Leo, è per chi scrive la voce più importante del panorama italico a latere e non. Quello che fa della scuola della Nuova Vocalità humus fertile per chiunque a livello mondiale voglia avvicinarsi ad una nuova estetica del canto. Perché si, se si eccettua l’ultima decade, in Italia “saper cantare” è stato sempre importante.
Mangia, conosce il linguaggio del jazz, tradizionale e non, della lirica, da quella “classica” a quella strettamente “contemporanea”. Ma è anche esperto in emissioni “estreme”, armonici, subarmonici, suoni aritenoidei, fischi (whistle register intendo, non il “fischiare”). Il tutto ottenuto in assoluta leggerezza, senza mai impiego di troppa aria e “proiezione”. Stefano è eleganza, grazia, ma non è mai mellifluo. E’qui che troviamo l’interprete, oltre che al cantante. La sua emissione sa essere carezzevole, fragile, ma sempre estremamente intima, profonda, cosa che lo rende adatto tanto ad un repertorio brillante che ad uno drammatico. Mangia non è un’esperto di beatboxing come Savoldelli, Hera, De Leo, ma se affronta un pezzo sa portarti dagli inferi alle stelle, accarezzandoti l’anima fino a commuovere. Nella sua voce c’è la “pasta” del jazzista vero, non del funambolo d’intrattenimento, per quanto colto. Nina Simone, Chet Baker, Tim Buckley, Paolo Saporiti, emergono dalle sue corde creando paralleli improbabili con l’amore per Stratos (studiato, rimasticato, ma MAI citato), la frammentazione linguistica di Phil Minton, il candore del canto da tenore leggero tardo medievale. Il suo è un canto fatto di sensi in costante seduzione, già a partire dall’iniziale Glad to Be Unhappy, emozionante ed emozionata rilettura del brano di Rogers/Hart. In Brighten (for Teresa) del compagno di viaggio e chitarrista Adolfo La Volpe, è l’elettronica a creare un substrato etereo e tremulo su cui s’appoggia un canto di gran levità, perfettamente “centrato” nell’emissione, anche sulle frequenze più gravi, dove mai viene cercata potenza superflua. Anche il solo di tromba, s’adagia su una materia fatta di cotone inumidito di umori tristi e si muove trasversalmente. Ecco, l’armonia in questo disco è del Novecento rinnegato, ma non suona mai disturbata, andando a lambire le grandi riletture degli standard classici nella stessa edificazione del nuovo. The Solitude of Things, di Volpe, ha questo sapore, quello di un nuovo standard. Nel finale, suoni di “prevocale”, giochi dal sapore infantile echeggiano sapori della psichedelia barrettiana. Non avesse la stessa fame acida, il parallelo naturale di Mangia sarebbe la, vergognosamente dimenticata Patty Waters. The Crisis ha il sapore delle melodie crimsoniane di Discipline, ma presenta improvvisi “crolli” microtonali, che affiancati ad un’estetica da musique concrete e a un’estetica glitch, non possono suonare null’altro che portatori di un’identità inequivocabile.
Il sistema armonico misto della superba Rush, le sue armonizzazioni aperte per elettrica, sembrano portare il Sylvian di Blemish e Manafon a casa del Buckley Sr. di Anonymous Proposition, tra colori di un’elettronica pari a pulviscolo alchemico che letteralmente stordisce. Un gioiello.
Ancora la penna di Mangia su Is This Your Time, dove, per la prima volta nel disco si ascoltano dei “fortissimo” vocali associati a escursioni impressionanti, che da subarmonici sull’ottava 0, superano progressivamente l’estensione del piano emulando e battendo in possibilità timbriche elettronica e chitarra elettrica. Fumettoso, teatrale, intenso, qui, tanto più, unico, sorprendente, conturbante, gli altri aggettivi trovateli voi, non vi mancheranno. Is Love an Illusion si apre con una pioggia rumorista che mai però conduce ad una vera disintegrazione della forma, tant’è che presto appare il canto, con una melodia non meno che splendida. Per chi scrive, altro gioiello del disco, essenziale nel suo svolgimento lineare. Purple, Lavender, Black, ha il colore di certa saudade, accarezzata tante volte dalla voce di Wyatt ed è un altro episodio a firma La Volpe. Dopo il solo di tromba, sorprende il deragliamento su lidi acidi con voce in aspirazione, funzioni detune ed esplorazioni dello spettro sonico in salsa avant-psych. Unico momento autenticamente terrifico dell’opera. Si torna su momenti di una morbidezza assai più rassicurante con Unhappy to Be Glad.

Conclusione: L’anti-indie italico, ma anche l’anti jazz italico, qui non c’è puzza di paraculismo, fighettismo, scazzo, accademismo, snobismo, autocompiacimento nell’essere “bravi”. Piacevole ma non confortevole, estremo ma intimissimo e accarezzato da melodia vera, avvincente, non è un caso che Glad to Be Unhappy sia stato pubblicato da un’etichetta straniera illuminata come la Leo Records, che stia trovando casa tra radio di tutto il mondo, ma che le recensioni italiane ad esso dedicate, abbiano colto il suo essere “sfuggente” non come stimmate artistica, ma come limite, brancolando nel buio.
Per chi scrive, il disco di cantautorato nobile italiano più bello da tanto tempo a questa parte, assieme a The Restless Fall di Saporiti, L’Abito di Alessandro Grazian, Tutta la Dolcezza ai Vermi di Pane, al migliore Capossela e Humpty Dumpty, ma si sa, appena subentra qualcosa che non sia immediatamente e unilateralmente codificabile come minima variante sul tema, critica e pubblico oggi, fanno spallucce e relegano in un cantuccio.
Figuriamoci se Stefano lo merita, a lui, solo assoluto rispetto e gratitudine.

101 Booking è lieta di gestire la finale della sezione musica (UnPalcoPerTutti) del concorso multidisciplinare nazionale MarteLive nella nostra regione. In Veneto, le cinque migliori band selezionate da giuria di qualità e pubblico durante le prime tappe eliminatorie al Circolo MAME di Padova e allo Studio 2 di Vigonovo (VE), si sfideranno con 30 minuti di esibizione a testa, rigorosamente di musica propria, per stabilire chi andrà a Roma a concorrere nella Biennale MarteLive ad uno dei tanti premimessi a disposizione da MarteLive, MarteLabel e MarteAwards.

Le band che sono riuscite a passare le eliminatorie, risultando le migliori band della regione, sono:
JAPANESEBUTGOODIES | https://www.facebook.com/pages/JapaneseButGoodies/501975826494720?fref=ts
VIRGO | https://www.facebook.com/pages/VIRGO/120318194751830?fref=ts
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