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Archive for the ‘GENERE: Post-punk’ Category

ETICHETTA: Black Candy
GENERE: Post-punk

TRACKLIST:
1. La Caduta
2. La Notte dei Lunghi Coltelli
3. La Nave Marcia
4. J’Ai Toujours Eté Intact de Dieu
5. Morte a Credito
6. D’isco Deo
7. Levami le Mani dalla Faccia
8. Ivan Iljc
9. DDR
10. Veglia Comune

Se dici Karim degli Zen Circus, dici tutto e dici niente. Questo progetto, non l’unico lavoro solista ad uscire dai tre pisani in questo periodo, è tutto sommato interessante, al di là di quel velo di serietà che, sia dai titoli delle canzoni che da quello del disco e del gruppo stesso, procede per gradi sino a insinuare nella mentalità dell’ascoltatore l’idea che si stia avendo a che fare con qualcosa di serio, di storico, di filosofico, forse anche di psicologico, o semplicemente di documentaristico. Tentativi interpretativi a parte, l’intuizione principale che si può avere dopo i primi ascolti è quella che piuttosto di un quadretto pieno di informazioni si tratti invece di un vero e proprio sfogo, rancido vomito di violenza distruttiva, la voglia di annichilire tutto e tutti, distorcere, degradare, dilaniare. In ogni caso, al di là del nervosismo e della foga devastante, sono individuabili ampiamente anche alcuni riferimenti letterari (Tolstoj, Prevert, ecc.), riportando il discorso in pari per quel che riguarda i contenuti. Sul fronte musicale, invece, macina brani incredibilmente veementi, travolgenti, quasi facinorosi nell’incedere e nel modo di porsi. Hardcore, post-punk, punk, i Refused, sferzate quasi metal, i Gallows, questi sono gli ingredienti più comuni, ma non mancano anche colori post-industriali e cantautorali, sempre in un’atmosfera nichilista fatta di irrefrenabili impulsi di brutale corporeità. Non mancano gli ospiti (Nicola Manzan in La Notte dei Lunghi Coltelli, Aimone Romizi in Levami le Mani dalla Faccia e altri) e non mancano incursioni in territori linguistici diversi (D’isco Deo, in sardo, ad esempio). In tutto questo, i brani che definiscono in maniera più precisa lo stile del progetto sono i migliori (Morte a CreditoLa Nave Marcia e soprattutto l’assalto iniziale La Caduta, che si fregia pure del testo migliore).

Tutto sommato Karim Qqru è riuscito a ritagliarsi uno spazietto per esprimere quella sfrontatezza che ritmicamente pervade il suo contributo negli Zen Circus ormai da parecchi anni. Il disco non ha una direzione precisa e può non piacere per questo, ma è altresì vero che, una volta decontestualizzati i singoli brani, si può anche parlare di un lavoro interessante, diverso, probabilmente l’unica maniera in cui un personaggio di questo calibro poteva realizzare la sua idea di musica solista. A noi di The Webzine è piaciuto, su questo non c’è dubbio.

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ETICHETTA: Tannen
GENERE: Post-punk

TRACKLIST:
Rosario
E Tu Non Ci Sei
I Diari del Kamikaze
Drive In
Le Ali di Alì
Si Appressa la Morte, Non C’è Dato Sapere Cosa C’è Aldiqua
Santa Brigida
Se Me Lo Chiedi Dolcemente
Dentro i Battimenti delle Rondini
Sono Il Mio Passeggero
Le Mostre di Pittura

In Italia c’è un fenomeno alternativo a quello, sempre più sopravvalutato, delle superband: le superband di qualità, ovvero quando artisti davvero poliedrici e con qualcosa da dire si coalizzano per produrre qualcosa che sia davvero interessante. Non succede spesso, diremmo anzi quasi mai, ma il progetto denominato Craxi rientra appieno in questa categoria di spessore, non solo perché dietro lo pseudonimo politico (molto meno politico dei testi, a testimoniare che la scelta è più di “suono” del nome scelto, più che di vera vicinanza alla figura socialista in questione, e fortunatamente, s’aggiungerebbe…) si celano Alessandro Fiori, Enrico Gabrielli, Andrea Belfi e Luca Cavina, tutti eccellenti musicisti con un bagaglio curricolare pesantissimo e una qualità compositiva eccelsa, ma anche perché il risultato vale davvero più di un attento ascolto. Tra noise, post-punk e pop dall’estetica classica, i riferimenti si sprecano, riportando con superba maestria qualcosa che assomiglia a degli Shellac jazzati arrangiati da original score di qualche serie poliziesca, e testi derivati dalla più bella tradizione italiana. Il risultato è quantomeno strano, forse perché la cultura musicale dei quattro è talmente estesa che produrre coesione diventa difficile, forse perché la coerenza non era nemmeno ricercata, ma lungi da noi perseguire l’idea che questo Dentro i Battimenti delle Rondini sia un polpettone senza direzione. Il disco è infatti un’uscita imprescindibile dell’anno appena finito, realizzazione concreta di un’ideale di musica che la Tannen rappresenta, come etichetta, meglio di chiunque altro, e che questi artisti incarnano nel migliore dei modi: più si conosce di musica, sapendola anche suonare, più si riesce a stupire, sconvolgendo e stravolgendo ogni linguaggio che possa regolare la scena. Bettino non lo rivalutiamo, ma questo quartetto c’è piaciuto.

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WORA WORA WASHINGTON – RADICAL BENDING (Shyrec, 2012)
L’indie rock ballerino dalle forti tendenze electro dei Wora Wora Washington, veneziani già apprezzati con il precedente Techno Lovers, raggiunge la sua forma più perfetta. Migliora la produzione, migliora la costruzione dei brani, si affina la tecnica, non certo eccelsa ma comunque più che adeguata al genere proposto. Il vero lavoro sporco lo fa il sound, in una scelta di suoni veramente azzeccata che impreziosisce piccole perle post-punk/indie come “If It’s So Wow”, “Marbles” e “Dozen Frozen” di una carica notevole che si apprezzerà anche nei loro ottimi live set. Miracoloso? No, l’oceano sterminato di band che fanno la stessa cosa non glielo permette, ma troveranno senz’altro spazio in una scena per certi versi paralitica come quella nordestina e, successivamente, quella italiana, dominata da hipster pronti a negare di aver ascoltato, prima del successo, i Wora Wora Washington.
Radical Bending è un album potente, divertente, spensierato, senz’altro aggiunge del sale radio-friendly ad una produzione già largamente orecchiabile, fatta di melodie indimenticabili e anthem da stadio che, visto dove siamo, riempiranno solo i locali. Ma questo può bastare.

ILENIA VOLPE – RADICAL CHIC UN CAZZO (Disco Dada, 2012)
Ancora una volta Giorgio Canali, davvero onnipresente negli ultimi anni. La contiguità con l’artista prodotto, stavolta, è più palpabile. La rabbiosissima cantautrice romana porta sulla scena un disco veramente rock, ma rock nel senso classico, tra CCCP, primi Litfiba, Estra, Ritmo Tribale. La cattiveria politicizzata dei testi di Canali è presente in egual misura, ma si esplorano territori più grunge che non risparmiano né i Bush né gli Alice In Chains (“La Crocifinzione”, “Le Nostre Vergogne”, nel lato melodico del disco), con spazio nelle atmosfere testualmente più trasognanti ma dalla graffiante carica alt rock di “Gli Incubi di un Tubetto di Crema Arancione”. La cover di Direzioni Diverse del Teatro Degli Orrori arricchisce un pacchetto già di per sé molto ricco, che annovera tra i suoi assi nella manica anche uno splendido ed energico primo singolo estratto dal titolo “La Mia Professoressa di Italiano”.
Niente di nuovo sotto il sole, ma l’energia di Giorgio Canali, incanalata nell’ugola di Ilenia e nella mordacità di certi suoi testi, rivista sotto da una lente femminile, risulta ancora più impetuoso. Ecco perché non potrete ignorare un disco così.

STEREONOISES – COLOURS IN THE SKY (Seahorse Recordings, 2012)
U2, Coldplay, Stereophonics, Oasis. Ecco i riferimenti che, con un pizzico di elettronica, sentiamo in Colours In The Sky, disco molto British che raggiunge con una notevole immediatezza lo status di album commerciale pieno di ballad e momenti di grande godimento radiofonico. L’indice di gradimento cresce quando non si assomiglia troppo agli U2 (“Time”, “I’m Still Here” e “Tonight”), scende quando ci si avvicina in maniera esagerata (la debole title-track). “Makin A Circle” è senz’altro uno di quei momenti di ostinata dolcezza che piace ad un pubblico mediamente molto esteso, e nel disco rappresenta uno dei momenti più alti.
Colours In The Sky non è un gran disco, ma non è neppure drammaticamente brutto come si potrebbe presupporre. E’ troppo derivativo, in tutto, dai titoli dei pezzi al songwriting, ma si può senz’altro godere ed apprezzare quando non si cerca qualcosa di esageratamente complesso. Banale ma godibile, insomma.

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Recensione a cura di RENATO RANCAN
ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Post-punk, hardcore, emo

TRACKLIST:
1. Majorana Aveva Ragione…
2. …Eppure Aveva Torto
3. Incontrarsi a Copenhagen
4. Punto Omega (Dove il Cuore è Lontano da Tutto)
5. Punto Omega (Il Lamento del Tempo)

Heisenberg e il principio di indeterminazione, se ci si avvicina troppo non si può più sapere con esattezza la velocità e la posizione di quello che si osserva, la scienza non avrebbe mai voluto scoprirlo, l’impossibilità dimostrata di non poter conoscere in maniera determinata il mondo.
L’angoscia di questo si riflette nell’EP degli Heisenberg, cinque brani incerti, un continuo rimestarsi, riff ripetuti per pochi secondi che esplodono per poi ripartire con nuovi riff che poco hanno a che fare coi precedenti, ci si trova senza punti di riferimento, un elettrone visto da troppo vicino.
Le coordinate della band sono puramente post-punk hardcore, con pure qualche fastidiosa punta emo, cantato in italiano che vuole rifarsi al primo Emidio Clementi, impresa difficile, e a volte si cade nella pretenziosità, si cerca di mostrare il rapporto emotività-razionalità ma manca la poesia dei meravigliosi Altro.
La produzione è strana, per il genere dovrebbe esser molto scarna, e dal punto di vista dell’equalizzazione lo è, ma si trova pure un’abbondanza di riverberi e chorus che rendono insolito e poco piacevole l’ascolto, suoni impersonali tra gli ’80 e ’90 che non aiutano canzoni senza capo né coda, la non linearità va bene ma l’ispirazione è solo a tratti, seppur in qualche momento di alto livello come l’inizio di “Punto Omega (Il Lamento Del Tempo)”, probabilmente brano migliore del lotto, e si finisce a pensare non a musica indeterminata ma ad un gruppo indeterminato, senza equilibrio.
Difficile affezionarsi ai pezzi, troppa disomogeneità e cambi di atmosfera in apparenza forzati, ed è un peccato perché con un approccio più a fuoco potrebbero venir fuori ottime cose, la carne c’è, e i ragazzi seppur giovani sanno suonare bene, il post punk non si sa perché viene proprio bene agli italiani, uno di quei pochi generi in cui non dobbiamo invidiare l’estero.
Tutto sommato non si può però promuovere questo lavoro, eccessivamente acerbo e sconclusionato, se si aggiunge che i migliori momenti son quelli più derivativi e legati al genere le speranze non sono molte, ma l’energia c’è e attenderò con piacere una loro nuova uscita, le potenzialità inespresse sono molte, devono solo sbocciare stando attenti di non cadere nell’emo più commerciale.

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ETICHETTA: Tannen Records
GENERE: Post-punk, alternative rock

TRACKLIST:
1. Innerself Surgery
2. Silver Strawberry For A Bullet
3. Super Void
4. Useless Crash
5. Throat Miners
6. Scorpio Rising
7. Forzier
8. Dust Tiger
9. Grass Snake Vertigo
10. Deathfuck
11. Ted Sad
12. Slap You
13. Carcharodan Carcharias

Ci sono pochissimi motivi per continuare a sostenere il proliferare inarrestabile di gruppi post-punk, che in centinaia di declinazioni diverse stanno spopolando sempre più. E’ difficile individuare band davvero originali in questo calderone ma negli album che si salvano merita una menzione speciale proprio Innerself Surgery dei Laser Geyser.
IS è un disco assolutamente vario, senza nessun ingrediente lasciato al caso; miscelando hardcore punk, alternative rock, stoner e post-punk di derivazione eighties, convergono verso quella scena che in Italia è rappresentata da band come Love in Elevator, Laida Bologna Crew (due di loro erano proprio in questa formazione), One Dimensional Man del primo periodo e molti altri. Le diverse incarnazioni che il trio riesce a portare in campo però rendono il prodotto più vario, a partire dalla travolgente energia della title-track, di “Silver Strawberry For A Bullet” e di “Slap You”, senza dimenticare le derive deliranti à-la Fugazi che sporcano un po’ tutto il disco di una venatura post-hardcore internazionale che trascina l’album inesorabilmente verso un apprezzamento più ampio.
Testualmente inquietano i testi molto apocalittici, quasi distopici (si legge in essi una sorta di visione utopica alla Edward Bellamy, ma rivoltata al contrario, oppure un Orwell più violento che ha imparato il pessimismo leopardiano comparandolo con Nietzsche), a disegnare un quadretto molto oscuro ma sobrio che ben si sposa con le atmosfere crude ma contemporaneamente semplici e mai troppo virtuose delle tredici canzoni.

E’ evidente, brano per brano, come una band perfettamente conscia di cosa significa muoversi in un genere così ampio ma ormai già percorso in lungo e in largo da migliaia di gruppi in tutto il mondo; il tentativo di non risultare banali riesce quasi sempre, tranne in alcuni momenti (“Useless Crash” e “Forzier” su tutti) che ricordano un po’ troppo alcune delle band sopracitate. Tutto sommato la versione italiana di una fusione perfezionista di Drive Like Jehu, Black Flag, June of 44 e Mission of Burma. E cosa volete di più?

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ETICHETTA: To Lose La Track
GENERE: Post-hardcore, post-punk

TRACKLIST:
1. Il Tram delle Sei
2. Dettato
3. Senza di Te
4. Frate Indovino
5. Troppo Facile
6. Ci Mancherà
7. Cinghiale
8. 300 Lire

Esistono dei momenti in cui bisogna riconoscere che la musica italiana occupa ben più di un angolino in penombra all’interno del grande, caotico e variopinto panorama europeo. I Gazebo Penguins, quest’anno, scegliendo di approfondire una strada nuova rispetto a quella precedentemente battuta, che assomiglia di più ad alcuni accenni dei primi One Dimensional Man (ma che oggi attualizzeremo in un paragone coi Fine Before You Came, il cui cantante è pure ospite in”Senza di Te”), mentre per la voce meno aggressiva ci si appoggia a un universo più vicino ai Marta Sui Tubi.
La scelta della lingua nostrana è senz’altro un punto a favore per il disco, che rinchiudendo dentro i nostri confini il suo campo d’azione diventa senz’altro un punto di riferimento nel genere. L’immediatezza del sound, nonostante i suoi accenti post-hardcore, è da subito percepibile, così com’è palpabile l’atmosfera internazionale di un’imprescindibile violenza post-punk. Ma di quello buono. “Troppo Facile”, “Il Tram delle Sei” e “Ci Mancherà”, nella loro velocità, rappresentano la collosa tattica di penetrazione rapida che contraddistingue l’intero disco. E’ come ascoltare una versione levigata di un qualsivoglia disco screamo italiano, levigato da tutte le imperfezioni e le sbavature che hanno reso grossi act come i La Quiete, nonostante suoni sporchi e cacofonici rimangano evidenti in alcuni momenti (“Dettato” e “Cinghiale” soprattutto). Le influenze sono talmente tante che l’eterogeneità scompare, e rimangono i ventitré minuti più sconvolgenti degli ultimi tempi.

Originale, perlomeno qui. Veloce e possente, intrepido, trepidante. Questo disco, quest’anno, non ce lo dimenticheremo, questo è certo. Un ottimo modo di passare l’estate con dei pinguini emiliani.

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Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: One Little Indian
GENERE: Indie rock, post-punk, new wave, alternative

TRACKLIST:
1. Draw In Light
2. Caretaker
3. Delight in Temptation
4. Pale Fire
5. LHC
6. Carnations
7.  Swirling Shards
8. The (Never Ceasing Ever Increasing) Cavalcade
9. To The Lighthouse
10. Not Wing Clippers

Accendiamo i riflettori sopra questi Wild Palms, londinesi, provenienti da un universo post-punk che in questo disco quasi scompare lasciando solo piccole tracce nell’universo più pop in cui provano, con esiti più che positivi, ad affondare. Essenzialmente la proposta dei Wild Palms non si scosta molto da quella delle decine di band new wave revival che hanno riempito le charts di tutti i paesi del mondo negli ultimi quindici anni, anche se è una sostanziale capacità di approfondimento e personalizzazione dei suoni a far comprendere i reali punti a favore del disco. Si perché Until Spring riesce a unire post-punk e pop in una maniera incredibile: lo fa con la linearità delle ritmiche che tendono però a disperdersi in alcuni tempi più irregolari, qualche sincope, cambi che, per quanto prevedibili, esulano dal classificarsi come “puramente post punk”; lo fa anche con l’estrema pulizia del sound di tutti gli strumenti, un basso in primo piano ma senza eccessi, una voce fin troppo limpida e una chitarra che non si preoccupa di soffocarsi dietro all’insieme. “Caretaker” e “Carnations” perfette per comprendere questi aspetti. Unendo queste due caratteristiche otteniamo la formulazione più onesta di un indie rock sia britannico che internazionale, che guarda oltre le barriere dell’imitazione, grazie ad alcuni accenni di novità che toccano soprattutto riff e metriche vocali (“Draw In Light”, “Not Wing Clippers”). Rintracciamo ora quali sono i punti deboli dell’album: la durata eccessiva di alcuni brani, in realtà ben costruiti ma che tendono a ripetersi un po’ troppo sino a scadere nel ritornare di modelli che sanno troppo di già sentiti: “LHC”, “To The Lighthouse”; il neanche tanto velato tentativo di rendere il suono più new wave grazie allo stato depressivo di alcuni passaggi lirici, come nella già citata “Carnations” o in “Swirling Shards”, che questa volta cadono troppo in quell’insieme di cliché eighties che non fanno altro che ricordarci, di nuovo, di Joy Division e New Order e forse anche dei Depeche Mode.

Until Spring è un ottimo disco di debutto, questo si, forse preché la sua levatura morale minima e senza pretese gli permette di osare senza dover rendere conto a nessuno, e un po’ anche perché i Wild Palms sono una formazione molto buona. Incredibilmente bravi a proporre cose che non hanno niente di nuovo sorbendosi la responsabilità di “caratterizzare” il sound fino a quel punto in cui li puoi davvero riconoscere, sperando che ci sia ancora qualcuno disposto ad ascoltare band come questa.In ogni caso, ve li consigliamo.

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Recensione pubblicata anche su IMPATTO SONORO
ETICHETTA: MadMan Records
GENERE: Post-punk, indie

TRACKLIST:
1. Apatica
2. Cravatte e Cucchiai
3. Solite Illusioni
4. Il Tuo Segreto
5. Canali e Spirali
6. Orano
7. Madre Universale
8. Plexiglass
9. Il Doo
10. Schiava

Rimpasti di indie, post-punk, frangenti più propriamente punk e soporifere ballad neo-post-qualcosa. I Violaspinto si presentano, più o meno, con una di quelle formule snob-pasticcio che ci piacciono poco, ma, per fortuna, lo fanno con un certo decoro.
Scartato il pacchetto e tentato il primo approccio critico privo di pregiudizi, troviamo effettivamente la vera natura di questa formazione lombarda: un’anima rock puramente garage, con velati riferimenti al punk più classico che ritornano sia a livello di sound che di strutture dei brani.
Non è facile capire perché, oggi, così tante band si stiano dando a queste soluzioni così “spinte”, eterogenee e che viaggiano ai mille all’ora contromano rispetto alla “pulizia del sound” che sembra essere una moda degli ultimi tempi: è proprio questo che definiamo più spesso “garage”, al giorno d’oggi, focosa e sfocata tendenza a sporcare i suoni, distorcere l’indistorcibile e ammorbidire poi il tutto in pretenziose ballatine dall’anima nineties. Beh, sembrerebbe proprio che Indivenire non mi sia piaciuto, ma non è così. Analizzando con una certa debolezza metafisica questo disco, mi sono venute in mente corse in autostrada che poi si arrestano, nervose, al pagamento del pedaggio, smielose dichiarazioni d’amore, amarezze alimentari che non si possono mandare giù. Beh, una specie di “piano-forte”, “dolce-amaro”, “agro-dolce”, un gioco delle contrapposizioni che nonostante prediliga quasi sempre gli aspetti più “duri” delle coppie antitetiche, fa sentire il peso di entrambe. Lo si sente in “Plexiglass” e “Apatica”, tra le più cariche, e poi in “Il Dono” che, insieme a “Il Tuo Segreto”, rivela la natura più (melo)drammatica, sentimentale e romantica della loro musica, per certi versi definibile come un indelicato tentativo di struggere l’ascoltatore con testi pseudo-poetici che verranno apprezzati soprattutto da fan di band molto “alterate” dal punto di vista letterario, come Verdena, Afterhours e Marlene Kuntz, diciamo quelle più classiche per noi degli anni zero, ma che comunque presentano sempre una stesura dei testi piuttosto impalpabile. Esercizi di scrittura, a volte, sembrano portare a riflessioni di natura molto intimistica (la sezione-reading di “Madre Universale”), mentre l’estatico alternarsi di roboanti distorsioni e dolci stacchi melodici culla l’ascoltatore al punto da creare, dopo qualche ascolto, una sensazione di distensione capace di rilassare e, contemporaneamente, spronare il listener a continuare la sua esperienza con i Violaspinto.
Strumentalmente la band se la cava anche se viene, qualche volta, penalizzata da alcune sviste alla produzione (che comunque si caratterizza per un certo morboso legame autoreferenziale al genere proposto dalla band, così come lo sa suonare). Per il resto, il disco è piuttosto completo e segnala la presenza di una formazione valida e che, con un minimo di personalità in più, presenta già evidenti tracce di una maturità che non tarderà ad arrivare.

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ETICHETTA: Mia Cameretta Records
GENERE: Garage, alternative, punk

TRACKLIST:
1. Running Uptown
2. I Need A Psychologist
3. Kettle In The Sun
4. Come With Me
5. Monkey
6. Loser Blues

In puro stile Mia Cameretta, anche i Poptones propongono una devastante ed asimmetrica mistura di punk ed alternative dallo stile molto garage, che alcuni chiamerebbero lo-fi, ma che senz’altro fa riferimento a certi cromatismi grunge che comunque sono più d’attitudine che d’ispirazione. Questa raccolta di sei brani è una interessante combinazione di elementi che condividono solo il termine cazzone, un modo di (auto)interpretarsi che sembra quello delle band da sala prove che però hanno voglia di salire sul palco, suonare tre pezzi e andarsene lasciando l’amplificatore frusciare, fischiare, per poi tornare sul palco fare un bis e spaccare tutta la strumentazione. Magari anche quella degli altri.
Preoccupandosi non poco di disseminare i brani (ad esempio “Monkey”) di piccoli momenti orecchiabili, dove la melodia prende il sopravvento, anche qui, più come attitudine, come portamento, che come modo di rappresentazione. Ciò che rimane è un molotov cocktail di rabbia, aggressività, ira, collera (e voi lo sapete che non sono solo sinonimi, soprattutto in musica), che trova il suo momento massimo nella virulenza inorganica di “I Need A Psychologist”, che potremo senza problemi elevare a gonfalone dell’intero disco (che forse è piu un EP per forma e confezione). Qualche sferzata rock’n’roll si unisce vigorosamente con quel punk rock che citavamo, riportandoci quasi a certe atmosfere dei The Who: i brani corti, la cui brevità senz’altro ha uno scopo “catalitico”: depurazione, purificazione, congiunzione interminabile tra la veemenza e la cultura del catchy tune di vecchia ispirazione seventies.

Questi sei brani dimostrano, nella loro breve durata, la grande capacità di “triturare” un numero di elementi veramente notevole. Lo hanno fatto in molti, è vero, ma non tutti riescono a proporre nel duemiladieci (e nemmeno un anno dopo) un prodotto così ben organizzato nel suo essere puro caos, disordine, entropia. E noi che queste cose le abbiamo sempre apprezzato, non possiamo che parlare di una piccola perla da ascoltare in auto a volume altissimo (ma non se siete milanesi o bolognesi). Noise, noise, noise, ancora noise. La nostra scena si ripopola, alzate i calici.

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ETICHETTA: Mia Cameretta Records
GENERE: Post-punk, Noise rock

TRACKLIST:
1. Romantic Song
3. ChatRoulette
5. Nails and Glue
7. The Guitar Trader
8. Chemtrails

L’universo del post-punk, dell’hardcore e, più in generale, dell’alternative rock, negli ultimi anni, è diventato un (ultra)popoloso ammasso di band più o meno originali che emergono dal mucchio solo di rado, latitando nella ricerca di soluzioni innovative e che sottolineino un minimo di ricerca in più rispetto alla media. I Bandwidth fanno tristemente parte di questa immensa ed inesauribilmente prolifica cerchia, ma Trinitite ha comunque dei buoni contenuti, che necessitano di un minimo di considerazione extra.
Al di là della tracklist non convenzionale, che salta seconda, quarta e sesta traccia (in realtà presenti come interludi che congiungono i vari brani), il prodotto è un intelligente e sapido miscuglio di buon punk neomelodico e furia garage, riversata in un contenitore già sporco di tracce new wave e che, pertanto, risulta essere proprio “post-punk”, un’etichetta tanto abusata quanto verosimile per descrivere il sound di band analoghe. Che non staremo ad enumerare. “Nails and Glue” e “Chemtrails” mettono a nudo la band e si preoccupano di narrarne la genealogia con quelle chitarre così graffianti, adrenaliniche e quasi frenasteniche che esplodono di punto in bianco con dell’ottimo noise di stampo americano. Nineties, ovviamente. La parola d’ordine è “potenza”, un termine che in tutto il disco condivide le sue sorti con quello di “veemenza”, due concetti simili ma che, secondo il dizionario (a voi la ricerca), riuscirebbero ad esprimere quella specie di tracotanza rock che solo ascoltando “ChatRoulette” e i suoi spasmi eccessivamente violenti riuscirete a comprendere.
La band si preoccupa non poco di rendere questo piccolo e breve lavoro variopinto, dimenticandosi si lasciare una traccia personale. La verità è che però il loro punto di forza risiede nella incredibile furia con cui devastano i timpani dell’ascoltatore con un’effervescenza ritmica che riesce a coinvolgere anche i meno abituati al genere. Noise, come parola-chiave, post-punk, come mondo di riferimento. Sottosuolo per band molto produttive, come i Bandwidth, che hanno già dato alle stampe due release prima di questa, sottraendosi, come dicevamo prima, al fallimento degli esperimenti “di scena” che sono un po’ tipici dello Stivale. Una band che deve continuare su questa strada, senza paura, senza limiti, personalizzandosi quanto più possibile in un’ottica custom che non può che diventare beneficio per un loro futuro disco.

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ETICHETTA: Fiction Records
GENERE: New Wave, Post-Punk, Indie rock

TRACKLIST:
1. Is Love
2. Strangers
3. Bigger Than Us
4. Peace & Quiet
5. Streetlights
6. Holy Ghost
7. Turn The Bells
8. The Power & The Glory
9. Bad Love
10. Come Down

RECENSIONE:
Quando si ascoltano dischi come questi la prima considerazione che arriva alla mente è: da quando fare successo vuol dire per forza aver imitato qualcosa che ha fatto successo prima? Forse nel mondo dell’arte e della cultura questa cosa è sempre stata in voga, quando c’erano artisti che copiavano i quadri di Picasso o di Van Gogh e li vendevano a prezzi stracciati guadagnando come o più dell’ideatore originale. Ma noi sappiamo che è comunque importante il valore dell’originalità, almeno in un’opera musicale, e quindi valuteremo questo disco in base a quello che in realtà contiene, cioè niente, o quasi.
Ritual arriva a un paio d’anni di distanza dal disco di debutto, che li ha consacrati al successo come band spalla di praticamente tutti (soprattutto nel tour degli stadi dei Coldplay), e come portavoce di un filone new wave revival di enorme successo, quello più commerciale che li ha visti addirittura includere in classifiche del decennio insieme a nomi come Arctic Monkeys, Editors, Interpol e Franz Ferdinand che, se permettete, hanno una levatura molto maggiore.
Perché effettivamente Ritual non è un brutto disco, e non lo sono neanche i nuovi degli Interpol. La delusione sta nel fatto che imitare band che già imitavano i grandi della new wave anni ’80, gli antesignani di un genere che mai si sarebbe pensato avrebbe prodotto una così incredibile serie di emuli e beceri scopiazzatori trent’anni dopo. Eppure è così, e i White Lies lo sanno bene, e con canzoni orecchiabili nonostante il loro mood iperdepresso, riescono a conquistare un pubblico esageratamente esteso ed entusiasta, grazie a refrains molto catchy (“Turn The Bells” su tutte), strutture semplici e ad effetto (“Street Lights”, “Bad Love”), e tanta tanta voglia di vendere di più, ove possibile. Senti la voce baritonale che è ancora più baritonale, levigata e resa vendibile, senti le melodie che sono ancora le stesse ma sono più radiofoniche (nel singolo “Bigger Than Us” in particolare), senti il groove di basso e batteria che incalza proprio nei momenti adatti a scatenare l’interesse dei “fanecchi” degli indie dj-set che stanno rovinando tutta la scena (intrugli di musica che sembrano essere preferiti ai concerti da alcune, permettetemi, categorie di persone che non mi permetto di definire perché mi scapperebbe, forse, qualche insulto di troppo). La produzione non è comunque delle migliori e per quanto ci si impegni a smussare gli angoli alcune imprecisioni di basso e voce rimangono, proprio come nei live. Per il resto, i brani sono comunque tutti sopra la sufficienza, se valutati con il metro dell’orecchiabilità, sottoterra se si volta pagina e si parla di originalità. Si perché essenzialmente, il disco è la replica del primo, con gli stessi punti di forza, e gli stessi punti deboli. Per questo non lo bolleremo in nessun altro modo che così: i revivalisti della new wave ci hanno rotto i coglioni, ma qualcosa nella loro musica ci continua a convincere nell’ascoltarli, come se in tutto quello che l’album contiene ci fossero anche delle sostanze psicotrope che ci impediscono di liberarci dalla loro dipendenza.
Ci si poteva, complessivamente, aspettare che questo titolo più che una dichiarazione d’intenti fosse un semplice titolo; invece Ritual è la definizione giusta per questo album, così rituale da risultare quasi liturgico, con quei coretti da stadio, i suoi cambi di tempo al punto giusto, quasi una fenomenologia di NME e altre riviste di settore (o di moda?).

E’ arrivata l’ora del metadone? O delle “grandi purghe” staliniane, ad hoc.

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ETICHETTA: Sinusite Records
GENERE: Post-punk, alternative rock

TRACKLIST:
1. La Noia
2. 2010 (Anno di Cambiamento)
3. Passato Presente
4. I Ragazzi Sono Stanchi
5. Bottoni
6. La Gaia Scienza
7. SanRemo
8. Di Nuovo Giovani (Live)
9. Nel Bene e nel Male
10. Maratona
11. Da Grande Voglio Avere 40 Anni

RECENSIONE:
Impressioni iniziali: questi si sono mangiati i Love in Elevator e il Teatro degli Orrori in una volta sola, masturbandosi con la loro furia che a volte si piega anche in melodia, elemento che illumina con toni brillanti un disco godibile e divertente, violento, nervoso e vibrante. Pochi dischi possono vantare una durata di diciotto minuti con dodici tracce, ma la veemenza con cui una dopo l’altra vengono spiaccicate fuori dalle casse ne dà comunque una forma concreta, psicotica, quasi forzosa, come se tutto nascesse da un’improvvisazione di un gruppo che ama lo shoegaze tanto quanto il post-rock, però ascolta tutto il punk (con le relative evo- ed involuzioni). “2010 (Anno di Cambiamento)”, nasconde una vena tragica di critica sociale, a dipingere un anno che non ci ha visti per niente migliorare né cambiare, con le sue venature semiacustiche che, nel resto del disco, troviamo veramente poco. In generale, piovono le distorsioni, che lo inondano in lungo e in largo, portandosi via “Passato Presente” nell’esagerazione e “La Gaia Scienza” in un’ondata di collerica frenesia (come “Di Nuovo Giovani”). Non piace tanto il cantato, forse troppo urlato, forse troppo imitazione di sé stesso, ma la verità su questo disco si può riassumere così: bell’album, forse troppo impetuoso ed impulsivo, per una band che dimostra di saper condensare tutta la sua indole in brani estremamente corti. Li attendiamo al varco per un “vero full-length” dove la loro intensa morbosità  potrà davvero provocare un’ecatombe sonica di dimensioni spaventose, e se il senso di questa frase sarà positivo o negativo lo scopriremo solo allora.

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