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Archive for the ‘GENERE: Indie Rock’ Category

Recensione a cura di Cristina Commedini

ETICHETTA: La Fame Dischi
GENERE: Cantautore, indie rock

Cover

Claudio Rossetti in arte Il Rondine debutta con questo “Può capitare a chiunque ciò che può capitare a qualcuno”, primo album registrato a Perugia dall’etichetta indipendente La Fame Dischi in seguito alla vittoria (su ben 134 band iscritte) della seconda edizione del concorso annuale che la label umbra organizza ogni anno dal titolo “Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame 2013/2014”.

Non conosciamo gli altri iscritti però ci pare che le canzoni del nostro giovane (classe 1985) cantautore indie-rock romano meritano di essere spinte e divulgate e quindi aiutate a farsi conoscere da più gente possibile. Azzeccata quindi la scelta dell’etichetta. Canzoni che parlano di storie quotidiane, dove tutti possono immedesimarsi e che nascondono sempre un doppio significato. E la magia sta proprio in questo: partire da comuni storielle di tutti i giorni per poi ritrovarsi a riflettere sulla vita e le sue perenni questioni.

Pregiudizio su sergio, La naturale capacità, In tempo, Mi fido più di me, La fine di uno scarafaggio, La settima differenza, Morto, La bolletta del gas, vanno tutte in questa direzione. Ascoltare per credere.

STREAMING DISCO (SPOTIFY) http://goo.gl/GhtRHb
STREAMING DISCO (YOUTUBE) http://goo.gl/4rs5yo

LINK ACQUISTO (COPIA FISICA) http://goo.gl/4x6iuL
LINK ACQUISTO (DIGITALE / MP3) http://goo.gl/snKkur

VIDEO SINGOLO “MI FIDO PIU’ DI ME”
http://youtu.be/DkVrCxKYt-Q

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Recensione a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Polyvinyl Records
GENERE: Pop, rock, indie

TRACKLIST:
I Got High
Blues to Black
Love is Not Enough
Coffin Companions
The Burial
Bad Blood
Who Cares?
A Fever
Where Do I Begin?
Vivid Dreams

Voto: 3/5

LʼAmi Du Peuple oltre ad essere un giornale fondato in Francia durante la rivoluzione francese, è anche lʼottavo album di Mike Kinsella; lʼottavo della sua carriera solista iniziata nel 2001, che ha visto, se pur lentamente ma in maniera incisiva, una continua evoluzione in ogni nuovo lavoro, merito che trapela anche da LʼAmi Du Peuple.
In questo suo ultimo lavoro Kinsella riprende quello che il precedente Ghost Town aveva lasciato, arrivando ad un livello compositvo decisamente più massiccio alternato a momenti più soft come da tradizione Owen: Bad Blood, Blues To Black ma anche la traccia dʼapertura, che contiene un ottima struttura di batteria, si contrappongono a brani come Coffin Companions, The Burial, A Fever più fedeli alla parte centrale della carriera di Owen.
Love Is Not Enough riprende invece i primi lavori ma in questo caso spuntano degli assoli di chitarra, cosa mai sentita prima.

LʼAmi Du Peuple non è un disco che spiazza ma è ancora un disco evolutivo, che traccia i nuovi passi di Kinsella, in maniera quasi lenta, ma senza mai annoiare

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

Bergamo è ormai tradizionalmente considerata un terreno fertile per il rock, soprattutto in lingua italiana. Anche se la scelta linguistica dei ventenni Kingshouters nel loro esordio discografico You vs Me intraprendere una direzione anglosassone, la prolificità del territorio orobico sembra aver attecchito, innestandosi nel loro DNA. Come molte band nate qui, gli inizi di carriera seguono la strada dell’imitazione dei propri beniamini: furono i Nirvana per i Verdena del Demotape, sono band del settore post-grunge o post-punk (Smashing Pumpkins, White Lies, Editors) quelli dei Kingshouters. Specificare che non si tratta di una sterile riproposizione-fotocopia d’altro è però più che opportuno visto che il sottobosco nineties e “anni zero” di cui i quattro dimostrano e dichiarano di essersi nutriti appare più che altro come una guida verso una rotta più personale che guarda da lontano anche alla scena anni ottanta inglese e alla nuova ondata new wave anche italiana. Nella liberazione dalle catene che li imbriglia alle loro origini negli ascolti, si commette però comunque più di qualche leggerezza, cambiando a volte registro ma non struttura, così in “Dance”, ballad quasi indie rock (definizione orrenda ed imprecisa, lo sappiamo) pare di sentire un featuring tra i Franz Ferdinand e Billy Corgan oppure in “Jane” sentiamo Jared Leto riprendere le atmosfere più dark ma comunque pop dei Depeche Mode e degli Editors più recenti. I momenti di pop più riuscito (“Levels”, “Sometimes I Can’t Sleep”) mancano dell’appeal radio-friendly di certi altri capitoli di  questo lavoro, come il singolo “Friend” o la scurissima “The Last Emperor’s Day”, ma è forse l’assenza di passaggi banali a donare loro brillantezza. Musicalmente, inoltre, la band ha in essa i germi di una prosecuzione in crescita, che già lascia intravedere una maturità compositiva quasi raggiunta. Suonano già bene, e questo è fuor di dubbio.

Sconvolgere l’ossatura un pochino prevedibile di questi brani potrebbe, in sintesi, essere la chiave per un piccolo gioiellino, strada che ai giovani lombardi consigliamo di battere. In definitiva, questo You vs Me è il debutto migliore che si potesse avere viste le premesse e in questo la band deve senz’altro trovare conforto e voglia di migliorarsi. Quanti dischi mediocri sono usciti in questo genere nell’ultimo lustro? La risposta è: un’infinità. You vs Me non è tra questi ed è già un risultato di cui gioire.

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Recensione a cura di ANDREA MARIGO

ETICHETTA: Barsuk Records
GENERE: Indie rock

LIST:
You Can Play These Songs With Chords (1997)
Something About Airplanes (1999)
We Have The Facts And Weʼre Voting Yes (2000)
The Death Cab For Cutie Forbidden Love EP (2000)
The Photo Album (2001)
The Stability Ep (2002)
Transatlanticism (2003)

Voto 4/5

In genere non amo i best of e/o simili, ma i Death Cab negli ultimi anni, da bandiere indierock dʼoltreoceano si sono trasformati in una mega pop rock band che riempie gli stadi ad ogni concerto (anche se è lodevole il fatto che eseguano sempre e comunque brani tratti da tutti i loro dischi) per cui non mi stupirei se prima o poi ne facessero uscire uno. Ma una volta erano una band gloriosa, e qui, la cara Barsuk Records, sforna una raccolta limitata in vinile di 1500 pezzi, singolarmente numerati e firmati dalla band, con i primi album, compresi gli EP.
Questa deluxe box comunque non è un best of, anche se in qualche modo potrebbe sembrare un qualcosa di futile dedicato solo ai fans più assidui, ma è una guida consigliata vivamente a chi non li conosce o non conosce il loro passato, che traccia il percorso musicale della band di Seattle, dagli esordi allʼultimo lavoro, pubblicato sempre per la label indipendente, Transatlanticism.
Si parte dal lo-fi di “You Can Play These Songs With Chords”, passando per “Something About Airplanes” con Bend To Squares e Your Bruise.
Si nota subito una svolta con “We Have The Facts And Weʼre Voting Yes” ma soprattutto con lʼ ep “Forbidden Love” dove emergono brani come Photobooth e Song For Kelly Huckaby.
“The Photo Album”, a detta di molti il loro miglior lavoro, accresce notevolmente la fama della band in tutti gli Stati Uniti e oltre con il brano A movie Script Ending e con “Stability Ep” si sente emergere lʼ esigenza, da parte della band, di salire ancora di qualche gradino.
Ma questʼ ultimo ep è solo il passo che porta a “Transatlanticism”, ed è li che i DCfC raggiungono lʼ apice (e lʼ Europa).
The Barsuk Years è dunque la raccolta dei lavori che Gibbard e soci sfornano durante i primi anni di attività, gli anni di gioventù, ed è risaputo che in genere, sono gli anni migliori.

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ETICHETTA: Moscow
GENERE: Indie rock

http://thecharlestones.bandcamp.com

TRACKLIST:
off the beat
love is a Cadillac
energy
the girl who came to stay

she was a firework
eager beaver
eager beaver (reprise)
let it all hang out
the clue
standing in the prime of life

Nuovo sforzo per i giovani friulani The Charlestones, negli ultimi anni fiore all’occhiello della loro conterranea etichetta Moscow che già ci presentò interessanti artisti del calibro di Trabant e FilmDaFuga. Il primo lavoro, Out From The Blue, vagava in maniera molto interessante nel panorama brit pop con quelle scosse indie rock mainstream che fino a qualche tempo fa andavano molto di moda all’interno di quel revival new wave e post-punk che fece impazzire mezzo mondo. Off The Beat parte dagli stessi presupposti ballerini, potenti e sbilenchi, tra indie pop e punk, ma tenta di rifarsi un po’ di più alle origini beatlesiane di quei linguaggi. She Was A Firework, Standing In The Prime of Life, Eager Beaver e la relativa ripresa sono tutte la contestualizzazione perfetta ed eccellente di quel brit-pop che i Beatles contribuirono a forgiare e rendere celebre, fino a trasformarlo in qualcosa di estremamente influente, senza negare le sue origini “beat” che nel titolo di questo disco sono citate. Sia ritmicamente che melodicamente l’album viaggia su quelle dinamiche spensierate ma danzabili che tutti ancora stimiamo perché sono ancora attuali, e forse a volte avere una band che tenta di rifarsi a quelle situazioni, se da un lato denota poca originalità, serve anche a ricordarci da dove tre quarti della musica che ascoltiamo deriva. Se poi i giovani tolmezzini lo fanno mettendoci anche quella personalità e quel tocco di creatività che manca a molti follower della scuola Beatles, allora possiamo davvero divertirci. Ancora una volta.

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ETICHETTA: Infecta Suoni&Affini, Venus Dischi, Face Like a Frog Records
GENERE: Indie rock, new wave, alternative rock

TRACKLIST:
1. Helsinki
2. Non Preoccuparti Bambina
3. Vendere i Soldi
4. La Provincia (con Andrea Appino)
5. Dettagli
6. L’Individualismo vi Farà Morire Soli (con Matteo Dainese e Ceskova Midori)
7. Il Figlio Gaio!
8. Padre la Smetta
9. Una Lega di Matti
10. I Pezzi di Merda Non Muoiono Mai
11. Mente Animale

Si potrebbe recensire questo disco citando qualche frase a caso, per comunicare il mood generale. Lo faremo:
E’ lui (il tuo vecchio, ndr) che ti ha detto che tutto sommato è solo una questione di testa. 
Sento di avere qualcosa di rotto in me, mi si son rotte le palle. 
Ed è il più furbo è chi ne sa approfittare e ti consiglia pure di fare uguale.
Tu guardi Helsinki con gli occhi di chi ha gli occhi stanchi di stare qui


L’individualismo-o-o vi farà morire soli
, che è anche il titolo di una delle canzoni più catchy del disco, introduce uno degli argomenti portanti del disco: la stanchezza disillusa di questi giovani ragazzi, i Nu Bohemien, verso l’italiano medio, verso quell’ipocrita egoista che non conosce sentimenti di morale comune, di vero patriottismo equo e altruista, di legalità o perlomeno di coerenza personale. Solidi e chiari i messaggi convogliati, la disgrazia delle nuove generazioni con solo un pezzo di carta igienica come laurea, metafora abusatissima ma in momenti di lucidità come quelli dell’intero spettacolare La Consuetudine del Sentito Dire sempre buona a far capire il pensiero di fondo. Ce n’è per tutti, dal Vaticano ai luoghi comuni di una società sempre più in affanno per il senso di perdita dell’identità nazionale o semplicemente di una società troppo tradizionalista (impeccabile in questo senso la logorrea velatamente politicizzata di “Una Lega di Matti”). La qualità dei testi è mediocre, con espressioni talvolta ridondanti seppur dolcemente macabre, ma l’acerbità è presto ricambiata da un sentimento post-cantautorale tipicamente folk che ricorda molto gli artisti di strada oppure i trovatori, vogliosi di raccontare storie al popolo come veri menestrelli dell’ogni giorno. Una tenuta da buskers, gonfia di chitarre acustiche e ritmi danzerecci, che gli fa certo onore.

Chi se la prende sempre in culo sono gli operai, dicono qui, loro che forse, come tanti giovani italiani, in fabbrica non ci sono andati e non ci andranno mai, ma è facile capire perché questo disco può trovare successo: si infila in una sequenza di dischi socialmente impegnati che dopo aver iniziato a stufare tempo fa sono tornati in voga tra folk rock e cantautorato, dapprima con una nuova linfa, poi con cliché che si sono riverberati fino a qui, fino a questi Nu Bohemién che pur ripetendo gli stessi schemi riescono a rompere la banalità quasi triviale di una scena stagnante. La stessa scena che dopo gli Zen Circus (anch’essi peggiorati ultimamente), il cui Andrea Appino è presente in questo disco alla sei corde, aveva perso la sua carica narrativa di una quotidianità che era stata ormai troppo sviscerata da quell’ironica opacità che li contraddistingueva per permettere nuove imitazioni.
Razionalmente non diremo che è un capolavoro, ma la musica è anche cuore ed energia. Istintivamente è emerso un vero impulso ferino, animale, selvaggio, nell’ascoltare questo disco, quasi un sentimento riottoso di prepotenza ribelle, come a dire “hanno ragione, scendiamo in piazza e spacchiamo la faccia a tutti”. Ma la terribile realtà è che l’errore nostro di italiani sta proprio lì, nel lamentarci sempre, in maniera poco costruttiva, talvolta abbassando troppo i toni fino ai livelli infimi di certa volgare musica di protesta. I Nu Bohemién, fortunatamente, non appartengono a questa categoria, ed è per questo che li apprezziamo.

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Recensione a cura di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: WoodWater Records
GENERE: Indie rock

TRACKLIST:
1. Slow Walk Town
2. 24 Hours Drive
3. Get Out of the Park
4. Good Night, Friends
5. Look Up Today
6. The Tree of Knowledge
7. Night Falls Into Snow
8. The Ordinary Days
9. Try to Keep
10. Summer End
11. Untitled

Beata scena indie americana, rimembrare i tempi del liceo, i primi amori, aver voglia di stare al sole perchè ritorna primavera.
Evidentemente vivono queste sensazioni anche in Giappone, e si sente cosa i quattro di Fukuoka hanno ascoltato: American Football e Death Cab for Cutie (quelli dei primi dischi) su tutti, si possono citare poi Very Secretary, Ida ecc.. e tutte quelle band riempite di Telecaster “lagnose” che tracciano melodie da broken hearts.
Questo disco credo sia impossibile da trovare qui da noi, ma lo potete scaricare da Itunes, oppure, se siete affezionati ad avere booklet con disco reale, ve lo fate spedire direttamente dal paese del Sol Levante. Ma parliamo un pò delle canzoni che compongono questʼ album.
Le 11 tracce che si susseguono, sono ricche di chitarre in puro stile indie, abili a tracciare sfumature agrodolci: a tratti solari, a tratti malinconiche. 11 brani che spingono verso lʼ ordinarietà delle piccole cose: quelle che rassicurano, non quelle che annoiano.
Eʼ un continuo alternarsi di momenti indie rock caratterizzati da una buona energia e altri più soft, arrivando ad un risultato piacevole che non stanca, anche se la matrice di ogni brano è sempre la costante di chitarre che intrecciano arpeggi tra loro, che ai primi ascolti, possono apparire simili.
La voce del cantante/bassista è apprezzabile, anche se forse poco incisiva (forse per insicurezze di lingua? cantano in inglese) ma non è detto che ciò sia un male.
Esistono poi anche dei remix in chiave indie-elettronica molto ben fatti: uno su tutti “Good Night Friends” firmato Miyauchi Yuri.
Se vi dovessero piacere, consiglio anche il secondo album “The Foot”, altro discreto lavoro, dove la band giapponese trova soluzioni nuove, arrivando a comporre un album
più lento, disteso, dove si sente unʼ evoluzione rispetto a questʼ esordio più dinamico.
Questa band è una chicca per gli amanti dellʼ indie americano, quindi se siete fans del genere e/o nostalgici dei Death Cab targati Barsuk Records, ve li consiglio vivamente.

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ETICHETTA: Autonomix, Venus
GENERE: Folk rock, indie rock

TRACKLIST:
1. Ritratto Deforme
2. Pick Up
3. Frutti Tropicali
4. L’Attesa
5. Terra dei Pomodori
6. La Danza di Dioniso
7. Obiettivo Sensibile
8. Madri de Placa de Majo
9. Al Conero
10. Tina
11. Tornerai
12. Serenata Alla Notte
13. Melodia
14. Dietro la Tenda

Obiettivo Sensibile è senz’altro la “boccata di energia” che i Gasparazzo indicavano nella descrizione per la stampa. Iconograficamente pieno di riferimenti (dalla plaça de Mayo di Buenos Aires a Tina Modotti, attrice e fotografa socialista italiana morta in Messico in circostanze sospette), è un ensemble naturalmente denso di concetti e forze fisiche che interagiscono per formare una rete complessa di significanti e significati. Il folk rock rappreso in inquantificabili riferimenti pop, che sono la giusta mazzata al prevedibile, caratteristica sicuramente lontana dall’essere connaturata in questo disco.
Si aprono gli sportelli e si scorgono subito, dal primo colpo che raggiunge vista e udito, “Serenata” e “Pick Up” , i due episodi più veementi e rumorosi, dove la grinta che veleggia fiera dalle parti del rock più spinto serpeggia con delle chitarre iperdistorte e un messaggio di rabbia che sarà controbilanciato lungo tutto il disco dalla più completa promiscuità di elementi malinconici, dolci e sofferti (la title-track, “Dietro La Tenda”), mentre dall’altro lato è la collera sterile e cupa di “Serenata Alla Notte” a evidenziare l’ambiguità dell’anima di una band matura e versatile, per questo anche capace di stupire con del materiale fresco, fuori dalla forsennata banalità che molti lavori di scarso valore obbligano ad accostare ai termini “indie” e “folk” (qui invece esaltati e perfezionati all’ennesima potenza). Dino Olivieri, nel 1937, scrisse “Tornerai”, tenebrosamente rivisitata in un’intensa ballad elettronica dal gusto noir e vintage.

Obiettivo Sensibile è un cerchio chiuso, una figura perfetta. Lo ricorderemo per una compattezza sicuramente degna di nota, mentre tanto folk va alla deriva in insensibili contenitori da classifica. L’orecchiabilità di questo disco, ridotta al minimo indispensabile, fa da base per visualizzare più luminosamente il background della band, riempito dalle più diverse influenze che, però, non compaiono in maniera troppo palese. Omogeneo, ecco la parola giusta. Molti, si spera, lo ameranno. Per gli altri, un’esortazione a digerirlo (e comprenderlo) meglio.

DATE DEL TOUR:
11.02 LAB AQ16, Reggio Emilia
12.02 CHINASKI, Sermide (MN)
30.03 DEJA VU, Teramo
31.03 ROYAL GREEN, Campobasso

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ETICHETTA: Foolica Records
GENERE: Indie rock, post-punk

TRACKLIST:
1. I Wish I Was Cool
2. Dear Fear
3. Breakfast
4. M. Gondry
5. Crowd Surfing
6. Next Time
7. Repetitive Parts
8. Time Waster
9. Blabla
10. We All
11. I Don’t Know

A parte la provenienza geografica, cosa possono avere in comune una band come gli Heike Has The Giggles, per altro giovanissimi, e Laura Pausini? L’idea di musica come una linea retta che prosegue unidirezionalmente senza svoltare mai, portando avanti un progetto così com’è nato senza nessuna evoluzione di sorta. L’indie rock magnetico e poderoso degli HHTG, in Crowd Surfing, è identico a tutto ciò da loro proposto finora: tipico di formazioni di questo tipo, che si esprimono in un linguaggio quantomai clonato ma continuano ad avere, chissà perché, una notevole presa su una grossa fascia di pubblico, soprattutto quando sono artisti anglosassoni. Dalla sua parte Crowd Surfing, rispetto a Sh!, ha qualche momento più disteso come “Next Time”, che accarezza sonorità post-punk dal piglio soft, edulcorando lo stile sgraziato di punk band commerciali degli ultimi due decenni (Blink 182, Green Day, Offspring) in una sorta di ballad à-la-Cure che si apprezza molto, nel contesto. Anche “Breakfast” si ammira per la sua varietà di toni e una diversità notevole rispetto le atmosfere ipertese del disco, i cui punti più brillanti sono senz’altro la veemenza scoordinata ma imprescindibilmente appealing di “M. Gondry” e dell’opener “I Wish I Was Cool”, con killer riffs iper-orecchiabili che si fatica a scordare. “Repetitive Parts” è un’altra delle schegge tipiche della band e sono i Devo e i Talking Heads ad essere annoverati sul piano delle influenze: il brano è colorato, sostenuto, privo di momenti morti. Live lo si apprezzerà senz’altro.
Tutto il disco è trascinato con facilità dalla potenza delle tracce più propriamente indie, che non si discostano dal loro sound originario, che li ha avvicinati ai grandi nomi dell’olimpo British degli ultimi anni: Arctic Monkeys del primo periodo, Franz Ferdinand, The Kooks su tutti, ma anche The Vaccines e The Wombats; il loro asso nella manica è giocare in una nazione con pochi rivali, con una voce femminile che stupisce e un’età anagrafica che li aiuterà nell’affermazione lenta a cui tutte queste formazioni, per la scarsa nomea che riescono ad ottenere essendo di per sé imitazioni dalla nascita, sono costrette.
Detto questo Crowd Surfing non è un brutto disco, ma non ha nessun pezzo di particolare rilievo. Efficace per capire la band e le sue abilità distruttive sul palco (“Blabla”), per far emergere capacità tecniche innegabili soprattutto se paragonate alla media nel genere, e anche per comprendere che difficilmente ci sarà un rinnovamento in un genere di questo tipo.
Tutto sommato lo si ascolta volentieri, proprio come tutta la loro produzione. L’importante è non attendersi alcunché di sorprendente.

PROSSIMI CONCERTI:
10.02 ARCI TOM, Mantova
15.02 CAPANNO 17, Prato
15.02 FNAC, Firenze
16.02 TRIBU’, Nocera Inferiore (SA)
17.02 RIFRULLO, Eboli (SA)
18.02 BRONSON, Ravenna
24.02 COVO CLUB, Bologna
25.02 MAGNOLIA, Milano
02.03 ETNOBLOG, Trieste
03.03 VINILE 45, Brescia
09.03 KALINKA, Carpi (MO)
10.03 BLAH BLAH, Torino
10.03 FNAC, Torino
17.03 VINILE, Rosà (VI)
18.03 FNAC, Verona
23.03 BARBARA DISCO LAB, Catania
24.03 TEATRO MONTEVERGINI, Palermo
30.03 CALAMITA, Cavriago (RE)
31.03 AFTERLIFE, Perugia
06.04 CORSARO ROSSO, Viareggio (LU)

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Recensione di RENATO RANCAN
ETICHETTA: Seahorse Recording, New Model Label
GENERE: Pop, new wave, indie rock

TRACKLIST:
1. Sleeping Pills
2. You’ll Like It
3. Something Left
4. Down in here
5. Sugare Cane
6. Little Girl
7. After the day
8. We’re swimming
9. No Title
10. Astronauts

Astronauti acquatici che esplorano sereni un lago sotterraneo, illuminati e confortati dalle calde luci di Tom Verlaine, Michael Stipe e soprattutto Morrissey, vero faro della band.

I Formanta sono un quartetto romano che, dopo un demo e un gustoso EP, il prossimo 21 febbraio pubblicherà il suo primo lavoro sulla lunga durata.
Mantengono la sana abitudine di distribuire copie fisiche: custodia cartacea dall’apertura originale che fa anche da copertina, opera del fotografo americano Matthew South; una misteriosa ragazza di nome Amelia persa in malinconici pensieri tinti d’arancio che, come dice il titolo dell’album, visti da lontano son nitidi ma da vicino sfuocati. Pure il cd vuole farsi notare, imita un 45 giri, ci son pure i solchi, che funzioni?

Ma è di musica che si vuole parlare, inseriamo il cd nell’impianto e vediamo cosa ci si presenta.
La grancassa bussa, “prego, accomodatevi”, entra un piacevolissimo intreccio di chitarre acustiche e la calda voce di Sabrina Gabrielli, subito colpisce la produzione per l’alta qualità, equilibrata e coinvolgente, si inseriscono le chitarre piene di chorus degli Smiths e un basso pulsante, il vero perno portante dell’opera, e infine pure qualche dissonanza che ricorda più i conterranei Marlene Kuntz che i Sonic Youth, questa “Sleeping Pills” è un bellissimo biglietto da visita.
Segue “You’ll Like It” che si inoltra in territori Dinosaur Jr., quelli più dolci e rassicuranti, si dice che una buona canzone pop debba saper reggersi anche solo chitarra acustica e voce, i Formanta confermano in pieno questo detto ma la grazia e la cura degli arrangiamenti danno un grande valore aggiuntivo, tutto è a suo posto, fin troppo, nulla stona e tutto scivola sinuoso nelle profondità nostro lago sotterraneo. Con “Something Left” ecco gli A Toys Orchestra, pianoforte e voce filtrata, un carillon solare per una felice giornata in campagna con gli amici, in cui qualche accenno di malinconia viene facilmente lavato via.

Il brano che piace di più è “After The Day”, accompagnato da un azzeccatissimo video, una ragazza con un velo danza nelle profondità marine, alla ricetta si aggiungono spruzzate di shoegaze e di new wave contemporanea, Interpol, Editors e Chapel Club su tutti, eppure la voce resiste su territori anni ’90.

Non fatevi ingannare da tutti questi riferimenti, solo in alcuni momenti si calca troppo la mano, come in “Sugar Cane”, omaggio fin troppo sentito agli Smiths di “This Charming Man”; la pasta sonora è personale e non sta certo nella sua parziale derivatività il difetto, che forse va cercato nelle orecchie di chi ascolta, che alla fine pongono un fastidioso interrogativo: dove stanno i Formanta?
Date le buone capacità melodiche sarebbe stato facile per loro sfornare delle hit radiofoniche ma questo lavoro non cede mai a ritornelli e strutture eccessivamente easy, sarà forse per l’anima troppo elegante; tuttavia non si percorre nemmeno la via opposta, non c’è nessuna ruggine o tensione, non si rischia mai qualcosa in più, tutto è controllato e misurato anche nella poesia rischiando di impantanarsi nel lago della monotonia. I Formanta sono così privi sia dello spirito underground che di quello commerciale, ma che sia davvero un difetto? Forse è davvero solo un problema delle nostre orecchie, provate a calarvi nei loro vortici subacquei, non vi porteranno al nirvana dei My Bloody Valentine ma di certo vi faranno sorridere il cuore.

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Recensione di GIACOMO “JACK” CASILE
ETICHETTA:  Tannen Records
GENERE: Pop rock

TRACKLIST:
1. Cowards
2. Do You Remember
3. Love Love Love
4. Fat Boys
5. Soldier of Love
6. There’s no Need to Complicate This Life, Everything is Gonna Be Alright
7. Fabienne
8. Confession
9. Your Picture
10. Around Here
11. The Goonies ‘r Good Enough

Ormai è dagli inizi degli anni zero che il mainstream musicale pone grande attenzione verso qualunque band proponga un revival rock a cavallo tra il garage e melodie di chiaro stampo brit pop. Tutto è iniziato grazie al successo ottenuto da band come The Strokes e Franz Ferdinand con i rispettivi dischi d’esordio. Da allora questa forma di indie rock è diventata tra le più inflazionate degli ultimi anni con migliaia di uscite discografiche tutte uguali e di una banalità incredibile. Ecco allora spuntare da ogni parte del mondo band che si cimentano nelle modaiole sonorità British; infatti, anche questo “Eleven” dei nostrani Home, qui alle prese con il terzo lavoro in studio, propone esattamente tutti gli stereotipi del genere. Tutti i brani presentano strutture abbastanza semplici e melodie easy listening che si rifanno ai vari The Hives, Arctic Monkeys, The Vines et similia. La produzione del disco è ottima e i musicisti dimostrano un buon bagaglio tecnico, ma le canzoni sono troppo poco personali. Ogni traccia riporta in mente qualcosa di già sentito e nessuna riesce a spiccare nel mucchio, però si tratta indubbiamente di motivetti costruiti bene che le nuove generazioni cresciute a pane e brit pop apprezzeranno. Io dalla mia posso dire solo che nell’ultimo decennio raramente abbiamo assistito a proposte musicali originali, ma questa specie di indie rock da classifica di anno in anno risulta sempre più fastidioso e banale poichè vengono riproposte sempre le solite melodie ormai vecchie come il cucco con la variante solo della produzione moderna. Visto che di questi ultimi tempi la moda è stata il revival, spero di cuore che ritornino alla ribalta le sonorità rabbiose degli anni 90, almeno così riascolteremo un pò di vera musica alternativa e indipendente.

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PROSSIME DATE
14 gennaio 2012 – SIDRO CLUB, Savignano sul Rubicone (FC)

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Recensione a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Barsuk Records, Grand Hotel Van Cleef
GENERE: Indie rock, rock

TRACKLIST:
1. The New Year
2. Lightness
3. Title and Registration
4. Expo ʼ86
5. The Sound of Settling
6. Tiny Vessels
7. Transatlanticism
8. Passenger Seat
9. Death of an Interior Decorator
10.We Looked Like Giants
11.A Lack of Color

Voto 5/5

I Death Cab for Cutie sono una band statunitense che forse molti ora conoscono, vuoi per essere stati citati in più di qualche telefilm (e film) per teenager o per le pagine di gossip americane.
Ecco, quando non li conosceva nessuno forse era meglio.
Nel 2005 con Plans lasciarono lʼindipendente Barsuk Records per il gigante Atlantic Records che fu inizio del nuovo percorso verso lidi più pop della band di Seattle.
Ma concentriamoci sulla prima vita dei DCfC dove dopo lʼ esordio targato 1998 e altri 2 LP
Gibbard &Co. danno alla luce Transatlanticism.
Gli undici brani si muovono ordinati dentro lʼ ottima struttura della tracklist e trascinano lʼ ascoltatore nellʼ immaginario gibbardiano colorato dalle sue ossessioni di distacco e insicurezza poste in chiave romantica.
Dolci e malinconiche melodie fanno da guida ai pezzi più intimi, decantati ad un amore perduto tra illusioni e i vari arpeggi di chitarre e pianoforte “Lightness”, “Passenger Seat”, “A Lack of Color” e il binomio “Tiny Vessels” / “Transatlanticism” descrizione di un amore reale,
comodo ma insignificante e il desiderio di toccare quello distante un oceano con il repeat di “I need you so much closer” frase emblema del brano e in un certo senso di tutto il disco.
Non mancano gli episodi più solari ma mai banali di perle indie/pop/rock come lʼ elegante “The New Year”, “Title and Registration”, “Expo ’86”, “The Sound of Settling”, “We Looked Like Giants” dove emerge un energia spiccata che si contrappone alla malinconia degli altri pezzi.
La splendida voce di Gibbard, le architetture armoniche e ritmiche vanno via filate dallʼinizio alla fine, lʼ ottima produzione del chitarrista Walla ne fa uscire un disco dal suono meraviglioso, sintetico e complesso, sempre avvolgente, limpido e rassicurante, legando ogni brano allʼ altro come perle di una collana che si avvicinano, poi si distanziano e poi ancora ritornano.
Per alcuni Transatlanticism sarà un disco che forse non lascerà traccia, oppure sarà un disco che vorrà dire tutto, forse il miglior disco che abbiate mai ascoltato, che diverrà parte di voi e che riuscirà a sostituire fotografie che avevate dimenticato di scattare.

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Recensione di GIACOMO “JACK” CASILE

ETICHETTA: Doug The Dog
GENERE: Indie/Psychedelic Rock

TRACKLIST:
1. Any Minute Now
2. Sloop Jay B
3. Trapped in the GRA
4. Crash City
5. Big Daisy
6. Miles Monroe
7. Cheap-com
8. From Head to Twelve
9. Iranian Doom
10. Too Many Mistakes
11. Parallelepyped Song
12. Their Own, Not Each Others

Sterbus è il progetto solista di Emanuele Sterbini, cantante polistrumentista romano autore di una musica particolare e fuori dagli schemi, debitrice tanto al progressive anni ’70 quanto all’alternative dei ’90. “Iranian Doom” è il terzo lavoro in studio dell’artista dopo il full lenght “Chi Ha Ordinato gli Spinaci?”, uscito poco più di un’anno fa, e l’EP “Eva Anger” del 2007, due buoni lavori che già avevano fatto intuire le potenzialità del progetto. Questo nuovo album riprende l’idea di collage musicale dei due precedenti, migliorando però nelle strutture dei brani e nella qualità complessiva del prodotto. Sterbus si muove nei generi più disparati in piena tradizione zappiana, però sempre con criterio e mai in maniera caotica, riuscendo ad amalgamare il tutto in un unico stile personale. “Iranian Doom” parte con un intro piuttosto curioso dove a sonorità progressive si interseca uno stacchetto musicale che cita “The Rocky Horror Picture Show”. Si prosegue con “Sloop Jay”, rivisitazione dei Beach Boys di “Pet Sounds”, con un risultato molto vicino a certe sperimentazioni di Beck. Aumenta l’intensità con “Trapped in GRA”, sicuramente la traccia più aggressiva e movimentata dell’album, caratterizzata da un arrangiamento superbo in grado di far coesistere grunge, stoner rock e coretti alla Beatles. In “Crash City” invece predomina la psichedelia, le melodie soffuse del brano si avvicinano molto alle atmosfere dei francesi Air. Proseguendo nell’ascolto ci si imbatte in pezzi strumentali come “Big Daisy” e “Cheap-com”, dove a farla da padrone è il collage ironico e spericolato, per passare poi ad altri bizzarri come “Miles Monroe” che nel finale sfoggia una melodia che sembra essere un rifacimento della sigla di Beautiful. Nella seconda metà del disco abbiamo invece i due episodi più riusciti, ovvero “Parallelepyped Song” e la title track; la prima rappresenta il mix perfetto tra le varie influenze presenti nel full-lenght, la seconda invece ricorda l’Elliot Smith più ispirato per il suo incedere ipnotico e alienante. L’unico aspetto dell’album che ho trovato un pò sottotono è la produzione; per il suo essere troppo fredda e lo-fi rende un pò ostico l’ascolto a chi non è avvezzo al genere. In sintesi consiglio vivamente questo “Iranian Doom”, perchè, pur non facendo gridare al miracolo, si tratta di un lavoro di qualità e abbastanza insolito, realizzato da un’artista preparato che ama la musica in tutte le sue sfaccettature.

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ETICHETTA: Columbia
GENERE: Indie rock, pop rock

TRACKLIST:
1. Let’s Roll Just Like We Used To
2. Days Are Forgotten
3. Goodbye Kiss
4. La Fée Verte
5. Velociraptor!
6. Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm)
7. I Hear Voices
8. Re-Wired
9. Man Of Simple Pleasures
10. Switchblade Smiles
11. Neon Noon

Velociraptor!, il nuovo disco dei Kasabian, porta con sé il peso dell’eccessiva hype che ormai accompagna ogni mossa dei rockettari del Leicestershire, mentre dall’altro soffre della troppa velocità con cui i nuovi dischi della band sono dati in pasto al pubblico. I primi tre album hanno presentato, confermato e sviluppato perfettamente un sound originale, riconoscibile, assolutamente perfetto per le logiche mainstream che la band segue, pur con alcune evoluzioni radicalmente opposte. Questo quarto sforzo ci presenta una band leggermente sbiadita, nonostante in campo ci siano tutte quelle tendenze melodiche a metà tra dance, indie rock, brit-pop e alternative che li hanno resi famosi.
Nello scorrere degli undici brani si rimane spesso distaccati e si fatica ad entrare nell’anima del disco, complice la brevità esagerata di alcuni brani che si potevano certamente estendere oltre, mentre alcune soluzioni già sentite annacquano elementi di sicuro interesse (come “Days Are Forgotten”, ottimo primo estratto che però assomiglia troppo a molti altri singoli della band, oppure “Switchblade Smiles”, uno dei migliori elementi del disco, contaminata da un’elettronica ballabile che ai concerti ha già fatto sentire il suo peso). Difficile incontrare un momento di alto livello, anche se “Acid Turkish Bath”, con un riff iniziale che ricorda vagamente i Queens Of The Stone Age, e “La Fee Verte”, denotano qualche possibilità di innovazione nelle esplorazioni future. Mediocre conclusione con “Neon Noon”, un po’ fiacca, mentre la title-track si ricorderà per le classiche ritmiche incalzanti e dritte di cui la formazione abusa da tempo.

Qualità strumentale e produzione non si discostano molto dai fasti dei precedenti lavori, che sicuramente contribuiscono pezzo per pezzo a forgiare uno stile veramente Kasabian oggi come in passato. Manca l’appeal degli altri dischi ma un fan potrà indubbiamente apprezzare ogni singolo momento di questo Velociraptor, com’è altrettanto ovvio come questo disco sia più adatto ad un’esecuzione live che ad un ascolto casalingo.
Si poteva fare di meglio, ma vista la velocità con cui buttano fuori materiale, gliela passiamo a pieno titolo.

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ETICHETTA: Recreation Ltd.
GENERE: Indie rock, psichedelia

TRACKLIST:
1. Jules’ Story
2. Seance
3. Summer Solstice
4. By The Sawkill
5. Two-Way Mirror
6. Way Out
7. Fortune Telling
8. Always Afraid
9. Knee Deep
10. Sun-Bleached
11. Dog Days

I Crystal Antlers avevano già stupito il poco pubblico che ha potuto conoscerli ed apprezzarli, grazie ad uno splendido Tentacles. Ci riprovano con una buona dose di pretenziosità con un disco fatto di psichedelia mutante, mischiata con qualsiasi cosa serva a renderla più originale di gran parte dei tanti “neo-psychedelic acts” che girano ultimamente. In un album comunque non così brillante da far gridare al miracolo, dipingono un variopinto mosaico frastagliato delle più diverse influenze: angoli di garage rock pesante ma misurato (“By The Sawkill”), poi addormentato in virulente sferzate psichedeliche dal gusto commerciale (“Dog Days”, in chiusura); noise, rumori, fuzz e distorsioni per il puro gusto di fare casino (“Knee Deep”, alcune sezioni di “Summer Solstice”, le code di molti pezzi); power pop diventato metal e poi riconvertito in indie nuova scuola, ricoperto da vesti screamo (“Two-Way Mirror”, provare per credere). Difficile capire da che parte arrivano le botte, ma sono tante, e anche quando la musica si quieta e lascia spazio all’ambiente profondamente “elettrico”, la tensione rimane alta.

Sembra che le strade che si possono percorrere siano molte, in tutte le direzioni. C’è chi pensa che prenderanno una svolta pop mainstream, chi invece che batteranno quella di uno spietato noise rock dalle venature macabre/dark. Le bastonate acide che ci si prendono ascoltando questo disco farebbero pensare più alla seconda, ma chi lo sa, noi li attendiamo. Prova sufficiente a capire di che pasta sono fatti, ma rimane meglio Tentacles.

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ETICHETTA: Modern Life
GENERE: Indie, alternative rock

TRACKLIST:
1. La Vita Sognata
2. Regole di Ingaggio
3. Settembre
4. Il Limite
5. Oblio
6. Giorno di Follia
7. L’Estate In Un Giorno
8. Dormi

I Giorni dell’Idrogeno a noi ha già stupito: ha stupito la sua capacità di raccontare storie per niente facili da rendere in musica, con parole che colpiscono in maniera semplice e diretta, ma senza banalità; ha stupito una maturità compositiva evidente nota per nota lungo tutta la sua durata, forte di una mescolanza di ingredienti brit, new wave e pop senza nessuna sbavatura; infine, ha stupito anche per la sua contemporaneità, capace di penetrare l’inconscio dell’ascoltatore in quanto attuale e quotidiano come pochi altri lavori negli ultimi tempi.
Nel tentativo di esulare da ogni definizione, gli ingredienti sopraindicati sono comunque molto evidenti, e questo rende il tutto maggiormente compatto. Le ballate e i brani più aggressivi e danzabili si fondono in un’unica serpentina di emozioni, seguendo una semantica pop quasi decadente/romantica (e, a seguire, anche la parte estetica di queste etichette). I Manic Street Preachers e gli intramontabili Joy Division vengono fusi in un album molto originale che trova forza nei suoi testi in italiano, che lo rendono contestualizzato e moderno. Di prima scelta soprattutto “Regole di Ingaggio”, “Il Limite” e “La Vita Sognata”. Azzeccatissimo anche il primo singolo “Settembre”, mentre i brani meno efficaci (ma egualmente potenti nella propria effervescenza e comunicatività) rimangono, a latere, “L’Estate in Un Giorno” e “Dormi”.

Illusioni, speranze e malinconie, ma anche la voglia di alzare la testa. La sfida dei The Shadow Line era difficile da vincere, ma evidentemente ce l’hanno fatta. Speriamo che i meritati giorni di gloria arrivino anche per loro!

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ETICHETTA: XL Recordings
GENERE: Indie rock, alternative rock

TRACKLIST:
1. Changing the Rain
2. You Said
3. I Can See Through You
4. Endless Blue
5. Dive In
6. Still Life
7. Wild Eyed
8. Moving Further Away
9. Monica Gems
10. Oceans Burning

Garage? Macché. Punk? Macché. Indie? Macché.
Nessuna definizione calzerà mai a pennello con l’abbigliamento e soprattutto con la musica degli Horrors. Ma come, direte, non c’è scritto forse “indie rock” nella categoria genere qui sopra? Si è vero, ma come meglio li definireste? Gli Horrors sono in realtà una delle creazioni più geniali dell’Inghilterra del nuovo millennio, figlia ovviamente di quello precedente ma poche volte per davvero (visto che molti sono più occupati a copiarsi a vicenda che a derivare da qualcosa in maniera intelligente), sicuramente in grado di azzoppare, anche solo con i dischi finora prodotti, metà della scena da chart che conosciamo bene.
Sgangherati e oscuri, liquidano con una grazia da persone perbene una decina di brani di tutto rispetto, tutti egualmente belli, tutti egualmente ben composti: gli angolini più nascosti della new wave anni ottanta che prima erano sottobosco della loro produzione ma non terreno fertile, ora sono ben esposti e si tirano in ballo alla luce del sole le atmosfere più synth-pop che però negli Horrors hanno una declinazione se vogliamo molto più energica, grazie all’approccio aggressivo delle chitarre. C’è però molto di più dentro Skying, una deriva psichedelica che quasi citando i Pink Floyd pietrifica l’ascoltatore più attento, dentro a vortici di malinconia e sentimentalismi pseudodark che in “Still Life” come in “Oceans Burning” non possono che ricordare le meravigliose ballad di Gilmour e soci, ma anche di certi Flaming Lips. E si finisce con piccoli frammenti noise che speculano sul futuro della band vista la possibilità di una presa di posizione evidente in favore di questo filone, ma non vogliamo scommetterci. “Dive In” lo conferma. L’anima post-punk dei predecessori di Skying non è morta, ma si è sepolta per bene sotto una coltre di malinconia e pallori à-la Echo and the Bunnymen.
Essenzialmente ci si diverte, in questo disco, a scoprire da che pozzanghera si sono abbeverati per ogni singolo brano, ma a parte i giochi malati da recensore pignolo quale il sottoscritto (non) si vanta di essere, la coesione con cui dieci brani simili ma dissimili contemporaneamente si fanno trovare è veramente qualcosa di sconvolgente. Da eccezionali collanti scorgiamo da un lato le ritmiche di basso e batteria, più soffuse e distese che in passato, ma sempre molto vigorose, e dall’altro il sound, più etereo e sognante in certi punti, lontano da smanie progressive ma vicino ai più intensi delay psichedelici di Slint e Sonic Youth. Che, sia chiaro, non assomigliano per niente a quanto gli Horrors propongono.

Skying poteva essere il primo passo falso nella loro discografia ma non lo è stato. Con gli occhi puntati al dio denaro e gli strumenti puntati al fare musica sul serio, sfornano una piccola perla che in questo duemilaundici era necessaria, perché l’Inghilterra si sta facendo soffiare il suo scettro di vera culla del rock indipendente. Ok, escono con XL, e quindi? Questo disco s’ha da ascoltare, veramente sopra ad ogni mediocre uscita indie di quest’anno. A maturità raggiunta da tempo, e con l’età pensionabile ancora distante, hanno scelto di sbizzarrirsi raggiungendo, per ora, l’apice, artisticamente parlando, della loro carriera musicale.

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ETICHETTA: Jost, Audioglobe
GENERE: New wave, rock

TRACKLIST:
1. L’Esperienza Segna
2. Anni Settanta
3. Come Cade Chi
4. Cosa Dire
5. Facili Forme
6. Gene
7. Intermezzo Uno
8. Infettami
9. Luce
10. Pensiero in Movimento
11. Un Bacio
12. Tutto&Nulla
13. Alta Velocità
BONUS TRACKS
14. Gene (ft. Federico Fiumani)
15. Anni Settanta (ft. Mao)
16. Luce (ft. Garbo)

“Dammi i soldi e ti porto la soluzione”. No, non c’entra niente. Questa soluzione è molto migliore di quella proposta da Fabri Fibra: L’Esperienza Segna è un disco genuino, un continuo depistaggio verso lidi misteriosi, celati da una parvenza di semplicità che serve solo ad aumentare l’effetto appiccicoso di alcuni brani. In senso buono, si intende.
L’esperienza a cui si va incontro ascoltando questo disco è quasi catartica, tesa quasi a liberare dalla crisi di originalità che pervade un po’ ogni categoria musicale italiana: le bonus track con gli ospiti puntano ad un pubblico più generico, come ultimamente sembra diventato tipico fare, irretendo i più distanti con i grossi nomi (Fiumani e Mao, in questo caso). E’ un pop rock d’autore, con un languido sguardo al passato, soprattutto ai settanta e gli ottanta, con riferimenti testuali che ricordano Le Luci, Dente e Bugo, forse anche qualche cantautore più lontano nel tempo, e un contesto musicale pienamente new wave, con venature dark che certamente contribuiscono a colorarlo di toni cupi e intimistici, sporchi di malinconia soft rock che ricorda proprio gli anni di cui si parlava. Le atmosfere romantico-decadenti di “Luce” fanno il resto. Determinante anche la strumentale “Intermezzo Uno”, che quasi svolge da lente d’ingrandimento nei riguardi del genere che la band propone, rozzo ma levigato contemporaneamente, sporco ma limpido.

Il disco è veramente molto bello, conscio delle sue potenzialità e per questo pronto a penetrare la scena in maniera decisiva. Il progetto Soluzione è destinato ad arrivare in alto, la strada l’ha già trovata e si ricerca ora una conferma definitiva. Gran lavoro, veramente.

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ETICHETTA: New Model Label
GENERE: Indie rock, new wave

TRACKLIST:
1. Ogni Animale
2. Capitalism Kills Love
3. Morte Fashion
4. Tacchi a Spillo

L’hype preconfezionato a preludio di un fallimento. Il modo migliore di suicidarsi con una bella autobomba musicale.
Prendete un disco che viene presentato in maniera assolutamente interessante, potente grazie ad immagini colorate e pregne di significato (il termine Animalia stesso oppure la descrizione di una “società odierna, bulimica di immagini, dove l’unica via di sopravvivenza rimane rinchiudersi in solitudine all’interno di un’egomania sfrenata”), e riversatene il contenuto su una tela corvina, in modo da poter vedere risaltare ciò che più brilla. Con Animalia vedrete poco, o meglio vedrete un disco piuttosto insipido, penetrato in più punti da strali di materia prima originale, ma che produce, all’interno, una farcitura disomogenea, troppo mista, forse anche discontinua. L’electro, l’industrial (“Tacchi a Spillo”) la new wave, il post-punk e l’indie si fondono qui senza soluzioni di continuità, perdendo più volte il filo del discorso (“Morte Fashion”), disperdendosi in cambi di genere, di tempo e di intensità che non trovano nel loro giungere una caratterizzazione completa all’interno dei brani. Manca la personalità, a volte manca persino il motivo di certe scelte stilistiche. Se poi magari un giorno scopriremo che questa è avanguardia, ve lo segnaleremo.

Il disco, di per sé, è piuttosto debole ed espelle più volte i sintomi di originalità trasformandoli in banalità-indie delle più sentite. La maturità non è ancora giunta, questo è certo, ma quegli strali di cui parlavamo prima potrebbero anche lasciar presagire qualcosa di buono. Che dire, aspettiamo un nuovo lavoro o li azzoppiamo subito? The Webzine preferisce aspettare, per ora si gradisce, con una punta di critica, lo sforzo di sciabattare fuori dalle piste più ovvie del new wave revival.

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ETICHETTA: Produzioni Dada
GENERE: Pop rock, new wave

TRACKLIST:
1. Enemy
2. I Hate You
3. Love Is A Warmgun
4. I Can’t Stay
5. My Doll
6. Teen Attitude
7. Wake Up
8. Ghost Town
9. Change
10. Without You

La scena gardesana non sfiorisce: gli Speedliner, da Desenzano, nati appena un anno fa, arrivano al primo full-length senza passare dal via, prodotti direttamente da Fausto Zanardelli, in arte Edipo. La pulizia del sound che lui sempre ricerca si riverbera quindi anche nel disco di questi ragazzi, che non sembrano certo dei neofiti vista la raffinatezza di alcuni arrangiamenti.
New-wave e synth-pop tra le chiavi di lettura più semplici da carpire, mentre si scende in sentieri più determinati dall’introspezione indie rock, sporcandosi di The Bravery e parzialmente dei nuovi Band of Horses.
Non stupisce la presenza di filtri depechemodiani più o meno diffusi, laddove l’ispirazione prima di questo mondo oscuro, quasi dark, è proprio il cantato di Dave Gahan. Non ci si abbandona a particolari momenti di riflessione, certo, ma i contenuti sono validi, soprattutto dal punto di vista musicale e letterario: contestualmente, si sceglie la critica della società per fare un viaggio all’interno del mondo di tutti i giorni, dei rapporti interpersonali e del quotidiano. Le formulazioni più evidenti sono quelle del pop-rock, manifestazioni evidenti di una scelta di ricerca dell’orecchiabilità, anche nelle scelte lessicali.

In sostanza, un disco semplice, che non aggiunge niente di nuovo alla nostra scena, né tantomeno al suo riferimento più esplicito: quello indie dalle venature dark, se vogliamo post-punk. Gli Speedliner possono senz’altro personalizzare ulteriormente la loro produzione, e le venature più caratteristiche che si riscontrano in momenti come “My Doll”, “Teen Attitude” e “Change” senz’altro lasciano ben sperare. Li rivaluteremo a tempo debito.

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ETICHETTA: Acid Cobra Records
GENERE: Indie rock, post-rock, sperimentale

TRACKLIST:
1. La Condanna
2. Transoceanica
3. De Rosario
4. Un Fiore per il Capitano
5. La Lettera
6. A.M.A.N.O.
7. Da Quando Mi Hai Abbandonato…
8. Ago e Filo
9. Scena Muta
10. L’ospedale Vecchio/I Sette Giri del Corrente

Elegante e ricco d’immagini e colori: Addio! Amore Mio è un disco completo che noi definiremo quasi l’evoluzione post-rock di una contaminazione virale tra Baustelle, Offlaga Disco Pax e Giardini di Mirò, con sonorità internazionali. La voce, incandescente e soffuso meccanismo di propaganda sperimentale, riempie solo i momenti più delicati e lascia agli strumenti il protagonismo che solitamente compete a dischi noise o post-qualcosa.
I TV Lumière sono, anche per questo, una formazione interessante, i cui brani raccontano storie che le parole difficilmente riescono a descrivere senza l’ausilio della musica. La malinconia quasi esistenzialista disegna variopinte tele d’avanguardia, alla faccia di tutti i proclami alternative della nostra nuova tradizione nazionale.
Rapiscono, quasi sequestrano, l’ascoltatore con i tortuosi voli di pianoforte in “A.m.a.n.o.” e le scintille post-rock ultraritmate di “De Rosario”. I titoli, un po’ fuori luogo a volte, sembrano voler significare sempre il contrario della canzone stessa (“La Condanna”, “Ago e Filo”). La comunicazione pare sempre interrompersi, ma l’opera trova una sua concentrazione solo dopo un doveroso assorbimento nel tempo. Il rischio della troppa diluizione c’è, ma lo si smembra pian piano, carpendo i segreti di questo sound che si frappone certamente tra la nostra tradizione strumentale troppo saldamente ancorata ai GDM sopracitati (e, quando c’è di mezzo il piano, un po’ ai momenti meno suonati degli …A Toys Orchestra) e quella ultimamente così declinata dai Mogwai. Le scelte un po’ garage nel sound gli danno un’aura da band emergente che ne nobilita lo stile.

E’ trascinante, a suo modo sfacciato, e non si lascia schiacciare dal peso delle influenze troppo evidenti. TV Lumière è un progetto a sé stante, lontano dal perdere il dono dell’originalità, infuso dal tocco classico ma contemporaneamente sperimentale di una band che dimostra abilità e maturità compositiva in ogni nota. Senza gridare al miracolo, parleremo di questo disco per qualche mese come un delicato diversivo alla musica di tutti i giorni, o un palliativo per le delusioni che accompagnano sia la nostra scena mainstream che quella underground. Ci si sta risvegliando? Ce lo dirà il loro prossimo full-length.

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ETICHETTA: Domino
GENERE: Indie rock, alternative

TRACKLIST:
1. She’s Thunderstorms
2. Black Treacle
3. Brick By Brick
4. The Hellcat Spangled Shalalala
5. Don’t Sit Down Cause I Moved Your Chair
6. Library Pictures
7. All My Own Stunts
8. Reckless Serenade
9. Piledriver Waltz
10. Love Is A Laserquest
11. Suck It And See
12. That’s Where You’re Wrong

“Suck It And See” ha già fatto discutere per il suo titolo, offensivo per gli americani, simpatico per gli inglesi. A fare chiarezza ci ha pensato anche Turner, ma a noi questo interessa relativamente: gli alfieri dell’indie rock del ventunesimo secolo, il revival del post-punk nato addirittura dai social network, hanno già dimostrato di voler cambiare sound con il precedente, mediocre ma fresco, Humbug, dal quale sono già trascorsi due anni. Sotto l’occhio vigile di Josh Homme, si profilava nelle scelte sonore della band un background stoner e grunge, che questa volta si ripropone, acutizzato in alcuni momenti, più pacato e sommerso in altri.
Sostanzialmente non c’è niente di originale o di nuovo dentro Suck It And See, un disco più pop/rock, leggero, catchy, interessante dal punto di vista radiofonico, ma forse un po’ meno da quello prettamente musicale; sono presenti, come dicevamo, momenti più stoner che sembrano i Black Sabbath meno doom con il sound modern British, a partire dal singolo “Don’t Sit Down Cause I Moved Your Chair”, alla più criptica “Brick My Brick”. Dai simpatici testi delle due citate, si passa anche a ballad strappalacrime che vantano ben pochi legami con i primi due dischi, più ballerini e festaioli, delle scimmie artiche: la title track e anche “Black Treacle”, danno la giusta dimensione di questa scelta di direzione, ma le reminiscenze beatlesiane che già introducevano certi eleganti momenti in Humbug rimangono in “Piledriver Waltz”, che poi già si era sentita nel disco da solista del frontman.

Le scelte pop fanno la loro figura, inquadrate in un contesto rock tipicamente inglese (Oasis, Beatles e Black Sabbath i punti di riferimento forse anche troppo evidenti) che si pone degli obiettivi concreti, in bilico tra la volontà di sfondare ancora nelle classifiche come agli inizi e fare qualcosa di “diverso”. Questa seconda sfida non sembra facile da vincere, ma la strada imboccata è quella giusta: anche Humbug sembrava l’ultimo capitolo della loro carriera, quello che ne prefigurava la fine, e quindi questo Suck It And See diventa un disco da rivalutare, stupefacente perché supera ogni aspettativa, regalando anche la possibilità di prospettare qualcosa di ulteriormente buono per il futuro. Sul resto, non si può certo gridare al miracolo e aspetteremo le versioni live, dove gli Arctic Monkeys davvero non hanno mai deluso.

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RECENSIONE SCRITTA PER INDIE FOR BUNNIES
GENERE: Folk pop
ETICHETTA: 42, Vaggimal

TRACKLIST:
1. Casual Things (wall, book, dawn)
2. Rather than Saint Valentine’s day Part 1
3. Rather than Saint Valentine’s day Part 2
4. Wejk Ap
5. Low-Sir
6. The Moka Efti Crazy Bar
7. Solanje

Come dire, la prima cosa interessante di questo disco è la sua immagine, ottenuta da una presentazione particolare che gli conferisce quest’aura di lavoro “pane e vino” nato tra i monti dove “il sindaco, il panettiere, il mugnaio e lo spazzacamino cantavano con loro a messa”. Allora uno cosa si dovrebbe aspettare? Suoni tirolesi o d’orchestra trentina d’altri tempi, al limite quelle bande da festa paesana a cui sono abituati i Comuni della Val di Fassa o della Carnia? Si, sembrerebbe, ma poi il disco si presenta semplicemente come l’ennesima sorpresa indie folk pop che noi italiani sappiamo fare molto bene.
I C+C Maxigross viaggiano veloce alla scoperta di quello che è l’interesse mediatico ancora troppo acceso nei confronti dell’universo folk americaneggiante d’importazione, genere che si salverà solo il giorno in cui lo faremo diversamente e riusciremo ad esportarlo più che fagocitarlo immeritatamente. Però suonano bene, i motivetti reggono e si ascoltano (e canticchiano) con piacere (“Rather Than Saint Valentine’s day Part 1”), con il suo strascico pop che comunque ha anche le sue retroscene beatlesiane (la part 2 del pezzo appena citato), quasi da paragonare per alcuni versi ai Babyshambles, finendo per rendere il disco la giusta accozzaglia di elementi folk pop moderni. Bon Iver, Suede, tradizione popolare, Fleet Foxes e Iron & Wine. Se manca ancora qualcosa, ascoltate “Low-Sir”: è la chiave di volta britannica, candidato a singolo, un brano veramente molto radio-friendly che si ricorderà nel tempo se a qualcuno fregherà pubblicizzarlo.

Supera che non serviva fare un disco così, e avrai comunque una perla italiana come poche, candidato tra i dischi dell’anno (nel genere, non in generale) per quella patina veramente “popolareggiante” ma ancora indie che ormai sporca ogni lavoro sedicente folk. E’ un bene quando, come nel caso dei C+C Maxigross, trovi gente che sa suonare.

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ETICHETTA: 42 Records
GENERE: Indie rock

TRACKLIST:
1. Silly Fool
2. Your Shoes
3. Goodbye Your Guitar
4. 90 Minutes
5. Junk Food
6. Shake! Shake! Shake!
7. Mr. Cloud
8. Shooting Star
9. Fool on the Bus
10. Downtown
11. Lovin’ Lovin’ Lovin’

Nel 2011 si sentiva il bisogno di staccare la spina, cambiare aria ed argomenti, fuggire in maniera subdola ma serena, cancellando il senso di stagnante che si sta pian piano portando via la musica europea. Svicolando attentamente dietro l’angolo, i Cat Claws si inseriscono invece in uno di quei filoni che sta lentamente morendo, forse riuscendo in qualche modo a non risultare fuori tempo massimo e a guadagnarsi una credibilità che pochi altri riescono ancora ad avere. Il grunge è morto molto prima di questo indie così banale da risultare sempre fresco e godibile anche dopo tanti ascolti (il problema è sempre col susseguirsi dei dischi). Dall’Italia gli indie acts hanno spesso deluso, e altre volte (Thoc!, Heike Has The Giggles, Trabant ecc.), cavalcando l’onda del post-punk ballerino dei nuovi club sedicenti new wave, si sono ritagliati uno spazietto neanche troppo minuto, con qualche sostenitore hipster sempre pronto a scavalcare la parola moda con il suo senso iperbolico di fashion che è un termine che vale di più quando si parla “indie-pendente”.
A cosa serve allora questo Cat Laws? Le undici canzoni che lo compongono non introducono novità, non rivoluzionano niente, ma semplicemente riassumono le più importanti direttive dell’indie storico, spiazzando per la diversità degli ingredienti messi in gioco che però sono sempre gli stessi: Joy Division, Pixies, Devo, New Order, derelitti moderni vari e malinconica dolcezza progredita à-la-Strokes, perlomeno per le chitarre. I brani tendono a declinare verso impostazioni già sentite, soprattutto i ritornelli e le entrate di batteria, ma gli incontri quasi iconoclasti tra psichedelia e noise più leggero, per non parlare dell’incespicare electro di alcuni elementi senz’altro più adatti al movimento fisico nei live, risollevano la maturità, l’originalità e l’efficacia del disco, perfetto anche per mandare giù il difficile boccone del secondo lavoro, difficile per molti, come ricordava il buon Caparezza. La voce femminile, ancora abbastanza infrequente nel genere, quindi poco noiosa per i più schizzinosi, rende il tutto, se possibile, più digeribile.

I Cat Claws possono sfruttare la garanzia di fare bene un genere facile ma contemporaneamente complesso da portare in seno nel suo periodo di massimo splendore commerciale, cioè di declino qualitativo. Il songwriting sempre molto pulito, coniugato con una produzione rozza tipica delle registrazioni in presa diretta, gli conferisce anche la ruvidità che denota raramente produzioni analoghe per quanto riguarda l’Europa: dovremo spostarci in Europa ma non lo faremo perché questo disco è nato qui, e lo apprezzeremo solo qui, con i suoi pregi e i suoi limiti, entrambi evidenti.

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ETICHETTA: Foolica Records
GENERE: Indie Rock

TRACKLIST:
1. Etiquette is Useless
2. Wake Up Alone In An Empty Bed
3. Carry On (To Carry On)
4. 6:00 am
5. John Arne
6. Echoes From My Brain
7. Nova Ruda
8. My Wrong Words
9. Caledonian McByrne

Incute quasi timore dover parlare di un disco così. Il primo aggettivo che mi è venuto alla mente dopo gli ascolti necessari a scrivere questo articolo è “viscerale”. Riferito al sound, ovviamente, sound quasi estrapolato con forza dalle interiora di un animale gigante o di un enorme natante lasciato al largo in balìa della tempesta, che deve essere scavato, ricercato, poi interiorizzato e infine lasciato decomprimere. Esplodere.
I Camera 237 sono forse la prima band, tra le centinaia che ho recensito, a stupire per una sorta di “potenza al contrario”. Un languido pulsare interno, cavernoso, che senza tentennare riempie l’udito dell’ascoltatore dandogli una sensazione di intensità priva di manifestazioni sensibili. Come dire che non la si sente, ma esiste.
Piano, è facile stracapire quando si inizia una recensione così ma è anche vero che abbandonarsi alla descrizione delle proprie percezioni sensoriali ascoltando un disco è una delle cose che più aiutano a comprenderne l’impatto emotivo.
Tutto sommato, Alone In An Empty Bed è un disco carino, una collezione di nove tracce di puro indie rock italiano con soffiate elettriche dalla natura veramente rude, forse addirittura rudimentale, nell’approccio (troppo) energico alle chitarre, nel creare una tensione che rischia da un momento all’altro di far implodere il disco stesso. Energia pura, energia negativa, positiva, chimica, fisica: “6:00 am”, “Nova Ruda”, “My Wrong Words” e il loro crescendo di pulsazioni incendiarie possono da sole spiegarvi cos’è questo disco. Ma in questo caso varrebbe solo sei, e sarebbe un misero EP: accostateci tutte le altre sei perle ed avrete un vero prodotto di qualità.
Poi vogliamo per forza trovarci una pecca? Vabbene. Dopo un capolavoro come Inspiration Is Not Here c’era il rischio che calcassero troppo la mano con l’autoreferenzialità ed effettivamente è così, però siamo già giunti ad un punto in cui l’indie si fonde con le sperimentazioni più estemporanee ed anti-canoniche che una band italiana possa nel 2011 cavare fuori.
Allora, diciamoci la verità: un sorprendente masterpiece che dimenticheremo difficilmente.

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ETICHETTA: Beady Eye Recordings
GENERE: British rock

TRACKLIST:
1. Four Letter Word
2. Millionaire
3. The Roller
4. Beatles and Stones
5. Wind Up Dream
6. Bring the Light
7. For Anyone
8. Kill For A Dream
9. Standing on the Edge of Noise
10. Wigwam
11. Three Ring Circus
12. The Beat Goes On
13. The Morning Son

Frase chiave per questo disco? Aprire gli occhi.
Lo deve fare Liam, lo deve fare Noel, lo dobbiamo fare noi. Gli Oasis sono stati una band fenomenale, i due fratelli amati-odiati pure, ma tutto l’hype e il gossip che si è creato attorno a loro ha solo contribuito a farli superare la data di scadenza prima ancora che si fosse decisa. E infatti ecco Noel andarsene per l’ennesima volta, in una sorta di marziale ammutinamento, lasciando l’egocentrico fratello a creare un progetto che riprende esattamente gli Oasis laddove si erano interrotti (e infatti dalla loro ultima formazione manca solo il consanguineo): c’è chi dice che Noel era tutto, chi dice che non è cambiato niente. La verità è che questo disco è abbastanza vuoto, forse privo di quell’anima assolutamente indie che gli Oasis si sono sempre portati dietro dal fortunato quanto fottutamente buono debutto fino all’eclissi finale, quando ancora continuavano a produrre bei dischi (suvvia, l’ultimo non era brutto!). Il livello di Different Gear, Still Speeding è esattamente lo stesso di Dig Out Your Soul mentre a cambiare sono le pretese dei testi, molto autoreferenziali e autocitazionisti, ignobili quando provano a strappare lacrime che non usciranno mai o quando ancora fanno riferimento alla sua vecchia vocazione lennoniana, che, diciamo la verità, qui e là si sente (“For Anyone”, “Kill For A Dream”).
Alla fine se prendiamo la qualità di questi brani, il massimo che possiamo dire è che non si distaccano dalla qualità degli ultimi due dischi degli Oasis. Non è una critica, non è un elogio, allora cos’è? Un’attestazione di inferiorità rispetto alle reali capacità del buon Liam, anche se ormai piuttosto stagnante, anche nella ricerca delle linee vocali (“Three Ring Circus”, “Millionaire”, “Beatles and Stones”). Pessime le ballads, decenti i brani più rock, anche se quasi mai possiamo parlare di rock all’interno di questo disco che si occupa più di vantarsi, fin dal titolo, più che proporre novità o una prosecuzione logica dell’universo Oasis. Non male, a dire il vero, “The Beat Goes On” e i suoi momenti leggermente psichedelici, e il singolo “The Roller”, scadente negli acquisti ma molto apprezzabile in quanto ad impianto e songwriting.

La vera tristezza è che presto si riuniranno di nuovo, andando in un trionfale reunion tour dove la voce ormai avariata di Liam di nuovo risulterà ridicola, ritornando poi a sciogliersi e, chi lo sa, di nuovo a riunirsi. Un moto perpetuo di solidale mutualismo biologico con l’industria discografica, che su queste cose ci campa. E allora, facciamola campare ancora. Ci vuole proprio quella “four letter word”, Liam, davvero.

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ETICHETTA: Black Nutria Independent Label
GENERE: Indie rock, noise rock, alternative rock

TRACKLIST:
1. Consequences
2. Rust
3. Dismembered
4. Sailing Away
5. U.T.W.
6. The Last Man
7. Ignorance
8. Guilty

Black Nutria. Polar For The Masses. Silence.
E silenzio sia in quel di Vicenza per una delle band più celebri del panorama veneto che arriva, con questo Silence, a dare alle stampe il terzo disco, dopo due ottimi lavori: “Blended” e, retrocedendo, “Let Be Me Here”. Si arriva così ad una piccola perla di indie rock dagli influssi fortemente nineties, che attesta la buona salute della scena da cui provengono, promossi da un’etichetta fortemente devota a quest’ultima, soprattutto per un legame territoriale che è piuttosto evidente nella scelta delle band.

L’equazione [indie + punk (molto blando e melodico) + testi in inglese + sound vagamente garage + noise anni novanta] sembra, non solo matematicamente, funzionare. Sulla carta rende questo disco un gioiellino di vaghissima musica rock come tanti, cioè un buon lavoro all’interno di un percorso che stanno battendo un po’ troppe persone. Ideologicamente parlando, una scelta poco convincente. Ma è sul campo, nei loro live, nei ripetuti ascolti del disco sparato a massimo volume che si capisce la sua vera anima rock, un disco puramente rock dove finalmente vengono soppressi quei synth new wave che sporcano tutta la musica indipendente degli ultimi anni, con un sound che si spoglia di tutte le possibili levigature e si presenta sporco come le migliori band statunitensi del settore. E’ la varietà che dimostra a saturare il nostro udito per bene, appagandolo gradualmente con sensazioni ed emozioni sempre diverse, ad esempio quando parte il groove vagamente electro di “U.T.W.”, o nelle linee vocali del ritornello di “Consequences” che sembrano prima un plagio di “I Was Made For Loving You”, ma poi si rivelano una buona trovata al limite dell’orecchiabilità che regala a questo pezzo il titolo di brano più radiofonico.
L’anima del disco è comunque ruvida, graffiante, se vogliamo tagliente, affidando alle chitarre e al basso quasi sempre distorto il compito di abradere, quasi raschiare, la superficie molto piatta che la batteria contribuisce a creare, con ritmi sempre molto semplici, precisi e diretti. Piano contro forte, oppure, semplicemente, compartecipazione, compenetrazione. E’ evidente anche la matrice noise di alcune sezioni che sembrano “troppo lunghe” (es. il finale della già citata “U.T.W.”), ma che svelano la presenza, nel range delle ispirazioni, dei migliori momenti dei Sonic Youth. Tutto ciò è ampiamente ripulito grazie alla presenza di un sound temperato e mite, di stampo britannico, in brani molto carichi ed aggressivi come “The Last Man”, canzone della quale si ricordano soprattutto la melodia vocale, molto easy-to-remember, i forti inserimenti chitarristici, e la batteria tipicamente rock’n’roll.

I pregi di questo disco sono senz’altro un’esterofilia ridotta ai minimi termini nonostante le influenze vengano tutte da lì e i testi siano in inglese, e l’estrema ed efficace personalizzazione di un genere che sta diventando troppo seguito per meritarsi ancora di essere appannaggio di tutti. Com’è possibile quindi che due possibili difetti diventino motivo di gloria per un disco?
Molto semplice, i Polar for the Masses ci sanno fare e miscelano lo straniero al nostrano inserendo nel frullatore il proprio background musicale insieme ad un personale gusto che notiamo essere tipicamente veneto. No, non parliamo di inflessioni dialettali nella voce, perché l’inglese in alcuni tratti è dannatamente perfetto, ma di quell’attitudine rock’n’roll che la (nostra) scena veneta sta ormai facendo proprio, esattamente come la band.
Un disco essenziale per capire lo status dell’underground in questa regione e, più in generale, in Italia. Procuratevelo (anzi, ascoltatelo nell’anteprima qui sotto, finché c’è!).

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Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: Adrian Recordings
GENERE: Indie Rock

TRACKLIST:
1. 0009
2. 0007
3. 0002
4. 0011
5. 0003
6. 0008
7. 0012
8. 0013

Interessanti fin dal nome, interessanti fin dai titoli delle tracce, interessanti dall’artwork. Per tutto e per tutto, questi svedesi di Malmo, indie rock nel senso più lato (per vocazione), portano giù dalla Scandinavia un modello nuovo di proporre questo genere, che evidentemente furoreggia ancora poco nelle loro chart per non essersi ancora commercializzato a dovere. Chi lo può testimoniare meglio di loro?
Le otto tracce, intitolate con numeri di quattro cifre, così come nel retro del disco sono riportate le durate delle canzoni e l’ordine delle stesse, rappresentano un condensato incredibilmente innovativo ed omogeneo di indie, alternative pop/rock che alcune volte rimanda agli U2 con una specie di variazione sul tema della voce di Thom Yorke che si sente in alcuni momenti di “0011” e generiche sperimentazioni in elettronica minimal cosparsa di micronoise che rimanda quasi alla post-electro scozzese degli Errors, con i dovuti aggiustamenti (vedasi la lunghissima, dieci minuti, “0003”). C’è molto krautrock, che non è l’unica influenza “crucca” di questo ciddì; sostanzialmente la Germania rappresenta la provenienza geografica più ovvia per un disco che può assomigliare a tutto fuorché ai Kraftwerk ma portandone comunque molti segnali e simboli, se non anche le più larghe vedute che i Neu! hanno portato ad esempio dell’elettronica “antidiluviana”, ma ottima, se vogliamo, che negli anni ’70 ci propinavano. E, più tardi, progetti come gli Stereolab.
Ci sta anche space rock, come etichetta, per capirci (“0009”, “0012”).
E chi c’è di abbastanza simile per farvi capire? I Palpitation, nei momenti più elettronici, Ludwig Bell per il resto. Non li conoscete? Basta ascoltare i This Is Head e siete apposto.

E’ evidente la vocazione di ispirazione a Bono Vox nella voce, come già dicevamo, ma sono quanto più difficili da comprendere quali siano gli universi da cui proviene l’originalità paramelodica di questo indie così “poppeggiante”, ma contemporaneamente capace di trascendere i linguaggi basilari del genere. E’ un po’ come le prime volte che ascoltavamo i Radiohead deviare dal rock iperclassico di Pablo Honey, dove ancora non erano diventati LA MUSICA moderna, appellativo che oggi gli si addice tanto. Forse i This is Head vogliono diventare IL pop svedese? Forse, ma non certo nell’ottica della scalata di una classifica. Noi ci auguriamo che continuino a produrre dischi in “codice” come questo senza guardarsi indietro e senza cambiare rotta, perché sono sulla parabola giusta per evolversi in maniera spudoratamente efficace e risoluta. Forse, possono, fare la storia dell’indie nella loro nazione. Ripeto, forse. Per ora, un ottimo disco di debutto.

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ETICHETTA: Mia Cameretta
GENERE: Indie rock

TRACKLIST:
1. Pompiere
2. Come Una Puttana
3. Funerali
4. L’Economia del Saluto
5. Il Comitato
6. Mattino

C’è un’analisi storica che mi piacerebbe fare prima di parlare di questa interessante formazione, proveniente dal Lazio, ed è proprio sulla loro regione: i 100-150 km che gravitano attorno a Roma hanno portato per secoli il peso di un grande impero, di cui portano i segni, monumentali, imperiali, artistici, politici. Ora che la nostra situazione politico-sociale-culturale è al culmine del suo declino, è forse da qui che le manifestazioni di rabbia dovrebbero partire, ed effettivamente a volte lo fanno.
Quello che si sente all’interno di questo self-titled degli Esercizi Base per Le Cinque Dita, dal nome tanto strano quanto singolare, è una voglia di sfogarsi, di vomitare rabbia, di riversare su tutto e tutti un senso di devastazione che un po’ tutti dovremo sentire nostro. Il fatto che il genere non sia per niente nuovo, in casi come questi, tocca molto poco l’apparato critico di questa analisi: l’indie rock molto, forse troppo, influenzato dai Tre Allegri Ragazzi Morti, simile per certi versi a formazioni analoghe come i primi Le Strisce e I Melt, ma con un declinazioni chitarristiche e testuali molto più acide. Sarcasmo, ironia, un po’ di delusione, tanta voglia di rappresentare una propria linea di pensiero tramite testi semplici che arrivino facilmente all’ascoltatore: è quello che si sente in “Come Una Puttana”, “Il Comitato” e soprattutto “L’Economia del Saluto”, dove ogni punto debole della nostra marcescente Italia è messo a nudo con paragoni, metafore e similitudini degni di grandi “critici musicali” come, ripescando dal passato, De André e R. Gaetano, e oggi qualche nome più vago: Dente, Vasco Brondi, DiMartino, interpreti di una forma molto meno profonda di analisi di quello che hanno intorno ma che, come in questa formazione molto curiosa, hanno uno spessore molto meno concreto e rilevante. Sarà che i termini che usiamo oggi sono meno poetici e più rabbiosi, però nonostante l’affermazione che avete appena letto è chiaro che per una persona nata dopo il 1980 un disco come questo rappresenta la verità, noi tutti, un po’ quello che siamo e quello che avremo dovuto essere. L’aspro e crescente senso di vuoto in cui viviamo.
Con i dovuti aggiustamenti, dopo questo breve disco si può presagire un album “rivelazione”, che attendiamo molto contenti e speranzosi.

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ETICHETTA: Mia Cameretta Records
GENERE: Garage, alternative, punk

TRACKLIST:
1. Running Uptown
2. I Need A Psychologist
3. Kettle In The Sun
4. Come With Me
5. Monkey
6. Loser Blues

In puro stile Mia Cameretta, anche i Poptones propongono una devastante ed asimmetrica mistura di punk ed alternative dallo stile molto garage, che alcuni chiamerebbero lo-fi, ma che senz’altro fa riferimento a certi cromatismi grunge che comunque sono più d’attitudine che d’ispirazione. Questa raccolta di sei brani è una interessante combinazione di elementi che condividono solo il termine cazzone, un modo di (auto)interpretarsi che sembra quello delle band da sala prove che però hanno voglia di salire sul palco, suonare tre pezzi e andarsene lasciando l’amplificatore frusciare, fischiare, per poi tornare sul palco fare un bis e spaccare tutta la strumentazione. Magari anche quella degli altri.
Preoccupandosi non poco di disseminare i brani (ad esempio “Monkey”) di piccoli momenti orecchiabili, dove la melodia prende il sopravvento, anche qui, più come attitudine, come portamento, che come modo di rappresentazione. Ciò che rimane è un molotov cocktail di rabbia, aggressività, ira, collera (e voi lo sapete che non sono solo sinonimi, soprattutto in musica), che trova il suo momento massimo nella virulenza inorganica di “I Need A Psychologist”, che potremo senza problemi elevare a gonfalone dell’intero disco (che forse è piu un EP per forma e confezione). Qualche sferzata rock’n’roll si unisce vigorosamente con quel punk rock che citavamo, riportandoci quasi a certe atmosfere dei The Who: i brani corti, la cui brevità senz’altro ha uno scopo “catalitico”: depurazione, purificazione, congiunzione interminabile tra la veemenza e la cultura del catchy tune di vecchia ispirazione seventies.

Questi sei brani dimostrano, nella loro breve durata, la grande capacità di “triturare” un numero di elementi veramente notevole. Lo hanno fatto in molti, è vero, ma non tutti riescono a proporre nel duemiladieci (e nemmeno un anno dopo) un prodotto così ben organizzato nel suo essere puro caos, disordine, entropia. E noi che queste cose le abbiamo sempre apprezzato, non possiamo che parlare di una piccola perla da ascoltare in auto a volume altissimo (ma non se siete milanesi o bolognesi). Noise, noise, noise, ancora noise. La nostra scena si ripopola, alzate i calici.

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