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Archive for the ‘GENERE: Post Rock’ Category

ETICHETTA: Dischi Soviet Studio
GENERE: Psichedelia, blues

TRACKLIST:
As Loud as Hell
Joy
Disillusion
Now I Know
Like Flowers
Intermission
Drop the Bomb, Exterminate Them All
The Flow
Psycho Blues
Small Place
Come Back Blues

Dischi Soviet Studio, collettivo artistico ed etichetta della provincia di Padova, mette a segno un altro ottimo colpo con il disco dei fiorentini Neko At Stella. Per capire di cosa si tratta, basta leggere la sequenza di generi citati nella loro biografia: shoegaze, post-rock, noise, desert rock. Ci sarebbe anche altro, ma lungi da noi proseguire troppo con le definizioni.  Il self-titled dei toscani non è certo il prodotto di menti tranquille e riposate, e l’effetto è più quello di un turbamento continuo, in grado di generare, alla fine di un lungo processo di labor lime, un parto geniale, ma sporco di sabbia, ferale e selvaggio. Massangioli e Boato sanno come giocare sporco, così come sanno insudiciare bene i suoni per renderli più pesanti, vissuti, senza cadere nei cliché del vintage che tanto va di moda quando si parla di fare rock blues moderno (non sono i Black Keys, per intenderci, né i White Stripes, che sono pur sempre validissime band nel background dei Neko at Stella). “As Loud As Hell” e “Like Flowers” sono brani stridenti e veementi, dove è difficile trovare il coraggio di qualche passaggio enfatico che ritroveremo in quei momenti più lisergici e psichedelici come “Disillusion”, ma sono egualmente ardimentosi e ben confezionati. Se si lascia perdere qualche venatura più post-romantica, l’album ha un impatto veramente devastante. E’ per questo che è quasi traumatico sentire quanto acido può suonare quel dispositivo bellico che è “Small Place”, così com’è sensazionale ricevere senza protestare i delicati ma efficaci buffetti di “Come Back Blues”, brano che palesa dall’accumulo di ascolti una sempre maggiore audacia. Le varie componenti sopracitate, sopratutto il noise e il post-rock, si fondono in maniera davvero omogenea, risultando talvolta frutto di un complesso rimescolamento di linguaggi che trascende le categorie.  Il songwriting, in particolare, è ineccepibile, mai banale anche quando tenta soluzioni sconsiderate.

Non è per niente male questo Neko At Stella, frutto di un sottobosco musicale fertilissimo come quello toscano, e che trova concretezza soprattutto nel ripercorrimento di linguaggi triti e ritriti mandando a fanculo i loro luoghi comuni. Dire che ce n’era bisogno forse è troppo esagerato, ma ci permettiamo di osare abbastanza da dire che nel duemilatredici italiano è uscito poco di meglio. Granito.

LISTEN HERE:

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profilo Facebook band: https://www.facebook.com/nekoatstella?ref=ts&fref=ts
sito etichetta (Dischi Soviet Studio): http://www.dischisovietstudio.it/

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Recensione a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Rock Action
GENERE: Post rock, colonne sonore

TRACKLIST:
Hungry Face
Jaguar
The Huts
Kill Jester
This Messiah Needs Watching
Whisky Time
Special N
Relative Hysteria
Fridge Magic
Portugal
Eagle Tax
Modern
What Are They Doing In The Afternoon?
Wizard Motor

Voto: 3.5/5

Dopo il documentario su Zidane, i Mogwai si cimentano nuovamente con la composizione di colonne sonore.
Stavolta servono adattamenti per un telefilm francese dove i morti tornano in vita e il quintetto scozzese è chiamato a comporli: non si poteva delegare band migliore, a mio avviso, per farlo. Nella prima metà del disco i classici muri di distorsioni fanno spazio a synth e pianoforti dando alla luce brani dal sapore spettrale, quasi angoscioso, un p ripetitivi nellʼinsieme ma sicuramente adatti al tipo di scene che il telefilm dovrebbe fornire: il carillon di Hungry Face che riappare anche in Fridge Magic rende a perfezione lʼidea. Poi la composizione si incupisce ancora di più sfiorando temi ossessivi e sonorità più dure come in Portugal, Modern e nella conclusiva Wizard Motor, brani che sembrano tratti da Mr. Beast. Non manca neppure la formula consolidata à la Mogwai in Relative Hysteria e soprattutto nella bellissima Special N con il suo vortice dalle cadenze malinconiche. Rappresenta invece una sorpresa What Are They Doing In The Afternoon? ballata accompagnata da voce.
Eʼ chiaro che questo disco va preso per quello che è, ovvero una raccolta di colonne sonore, fossero usciti con un album così come nuovo lavoro, non sarebbe stata gran cosa, ma anche non avendo mai visto la serie tv, i brani fanno intuire di aver svolto discretamente il compito a loro richiesto, mostrandoci una nuova sfumatura della band di Glasgow.

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ETICHETTA: Garrincha Dischi
GENERE: Post-rock, noise, alt-rock

TRACKLIST
Mario in diretta tv
Dal diario, a mia madre
Scusami
Ed ecco l’alba
Una garzantina
A mio padre
Dimmi se è vero
In Toscana
La strada

Geograficamente siamo a Chioggia. Discograficamente siamo con Garrincha Dischi. Duplice garanzia di qualità, dunque.
Questa formazione da qualche anno si diverte a confezionare prodotti molto originali, con riferimenti al post-rock e al noise di anni ’90 e duemila, preoccupandosi meno della forma e più del contenuto. Una cosa banale da dire, ma che nella sostanza non significa proprio pochissimo. Cucina Povera, come altro materiale datoci in pasto dalla band in passato, è un disco emozionante, che sembra far fluire come un intenso stream of consciousness di memoria letteraria joyciana (o richardsoniana) parte del proprio inconscio, in questo caso su pentagramma piuttosto che su pagina di libro. Luigi Tenca in veste di narratore sempre più dentro il suo personaggio, sempre più a suo agio nel raccontare, nel dipingere, nel delineare personalità e anime dei protagonisti dei suoi testi, veri e propri attori caratteristi di un mondo a parte, crudele e provinciale, rozzo e limitaneo, sincero e sconsolato. Strumentalmente la band non si esalta mai in preziosi virtuosismi né in vezzosi manierismi ma si occupa, con calcoli quasi scientifici, di inserire all’interno della struttura della canzone solo ciò che serve a renderla psicologicamente e musicalmente più efficacemente penetrante. Rari i momenti martellanti tipici del post-rock più ordinario, con le sfuriate finali, che comunque non mancano. Sufficiente per capire il piglio del disco è la scabrosa “Mario in Diretta Tv”, vero manifesto del resto di questa Cucina Povera, cucina bucolica ma realistica, con tutte le insofferenze e le sdegnose verità insinuate tra le pieghe più corrucciate della vita dell’italiano medio, presenti addentro a questi testi e a queste musiche in abbondanza.

Dischi come questi forniscono un’appariscente consolazione nel mondo dell’apparenza tristemente considerata virtù. Il duemiladodici sta per finire portandosi in grembo lo scadente declino di una scena italiana sempre più stanca e incapace di innovare e sperimentare. I ManzOni sono l’eccezione che conferma la regola, la band che si trova al posto giusto al momento giusto. Con un disco giusto.

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ETICHETTA: Seahorse Recordings
GENERE: Dream-pop

TRACKLIST:
Prologo
Per Elisa
Angelo
Distant Places
Sogno Lucido
Candy
Martire
Animanera
Occhi
Epilogo
Animanera (Andelm Caminada remix)
Distant Places (Shuffle & Boost remix)

A volte ci si chiede se nelle retrovie della musica indipendente italiana (in questo caso, svizzera italiana) si celi qualche sorpresa, oltre al mare magnum di prodotti sorprendentemente uguali che una webzine riceve per recensirli. Settore Giada è un progetto che non può che lasciare basiti, in questo senso. Di una potenza comunicativa abnorme, in grado di stimolare a livello sensoriale un livello di interpretazione tutto suo, è come un fulmine a ciel sereno in un duemiladodici particolarmente vuoto, qui. Divagare in maniera così sana e stringente, nel senso buono del termine, tra le urgenze espressive tipiche del post-rock e il dream pop più esausto e meccanico, con i suoi momenti di sapida elettronica, non è cosa facile ma la perfezione anche mentale con cui questa band si avvicina a questa formula di impeccabile mescolanza di generi produce un risultato spettacolare. In una sorta di golosa emancipazione tutta svizzera dagli schemi precostituiti di generi che, comunque, nonostante qualche glorioso momento, si sono ultimamente involuti in qualcosa di  banalmente già sentito (non solo il post-rock, ma anche il trip-hop), Per Elisa diventa il disco perfetto per suggellare il fatto che pubblicare un album, di questi tempi, nonostante la facilità con cui è possibile produrlo, stamparlo e venderlo, rimane un’esperienza valida per pochi. L’importante è saperlo riconoscere.
Spettacolare.

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Recensione a cura di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: EMI
GENERE: Ambient, post-rock

TRACKLIST:
1. Ég Anda
2. Ekki Múkk
3. Varúð
4. Rembihnútur
5. Dauðalogn
6. Varðeldur
7. Valtari
8. Fjögur Píanó

Voto 4.5/5

I campi e i monti
sottratti dalla neve
è il nulla.
Joso Naito

La letteratura giapponese consegna dei particolari componimenti poetici, gli Haiku, che  rappresentano un lato fondamentale dellʼ essenza più profonda della loro cultura,  attraverso una poesia infetta di inadeguatezza, per quanto concerne lʼ uso del linguaggio.
Si tratta di concezione Zen applicata al componimento, dove lo scopo è quello di riportare  il linguaggio alla sua essenza pura.
Lʼ intento è quello di condurre ogni manifestazione della realtà allʼ esaltazione, attraverso  la scarnificazione del razionale per arrivare ad una pienezza dove lʼ essere (uomo) si  fonde con essa (la natura).
Il vuoto è il modo più valido per rappresentare lʼ essere in Giappone, lʼ essere è colui che  sta nel vuoto, che non riempie.
Cʼè molto di tutto ciò nel nuovo lavoro della band di Reykjavik: lʼ esaltazione di ogni  singola sfumatura sonora che riporta ad una concezione di armonia pura.
Levati i passaggi più solari e ritmati dal suono pop degli ultimi due album, i Sigur Ros  ritornano alle sonorità tipiche dei primi lavori, rischio che può condurre lʼ ascoltatore a  pensare alla scelta di una soluzione “comoda”, ma con più attenzione, si nota come lʼ
approccio sia totalmente differente, con soluzioni meno post-rock e più ambientali/orchestrali.
Le tracce di Valtari sono perfette colonne sonore dei più preziosi e precari stati dʼ animo,  marchiati ad hoc dal tipico sound nordico che i Sigur Ros stessi hanno mostrato al mondo.
Fjögur Píanó chiude lʼ album con una nuova prospettiva per la band, brano che strizza lʼ occhio ai componimenti di classica minimale di Sakamoto.
Che sia solo un caso?

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Recensione a cura di MARCO BERGAMI
ETICHETTA: Streamhammer/SPV
GENERE:  Post-rock

TRACKLIST:
1. Intro
2. The Beginning
3. Agenda
4. Transition
5. Isp
6. Insomnia
7. Driving Head
8. Intermission
9. Horizon
10. Audacity
11. M

Ve lo dico in tutta franchezza, raramente mi capita di trovarmi inaspettatamente sorpreso di fronte ad un ascolto, ma questa nuova band di Hannover -Germania- ha avuto subito una forte influenza su di me, ancor prima di iniziare ad assaporare la loro arte di fare musica.
La grafica utilizzata per presentare Mosaik instaura subito un forte legame con la persona che lo sta guardando; la cover dall’eleganza distinguibile, si presenta con un preminente bianco usato come fondo, mentre in primo piano spicca la figura di un rabbino, seduto a gambe incrociate su un prato multi-color dalle combinazioni cromatiche molto distensive ed attraenti.
L’importanza del lato grafico in una cover viene sempre sottovalutato, forse perchè è estremamente difficile riuscire a raffigurare una composizione, ma se si ha la bravura di riuscire a raggiungere un perfetto parallelismo tra arte grafica ed arte musicale il piacere d’ascolto dilata.
Mosaik, full-length di debutto dei Frames, basa la propria chiave di lettura sull’armonia musicale e sulla concatenazione sinusoidale di stili, correndo al limite tra avant-garde, post-rock e symphonic-prog, mantenendo caratteristiche di unicità e distinguendosi per la perfetta concettualità compositiva.
Le undici tracce presenti in questo platter, sono legate da un unico filo conduttore privo di pause ed interruzioni, una lega di strumentazioni ed ambientazioni che plasmano la loro essenza all’interno di una trama univoca e satura di dilaniante malinconia. Non esistono voci. Tastiere, chitarre, synth, batteria, basso, archi e xilofono sono i principali protagonisti di questo platter, assemblati reiteratamente con raffinatezza, eleganza e classe, acclimatati in composizioni pure e proporzionate con la filosofia dell’intera opera. Il “mosaico” si presenta con un intro dall’ambientazione ultraterrena rappacificante, morbida e depurante, biglietto d’ingresso a quella che sarà la vera essenza dell’album. Spinti dall’ascetica introduzione, i Frames proseguono alternando momenti di morbidezza con periodi aggressivi, intercalando calde chitarre clean, arricchite con eleganti ambient effect a forti distorsioni dall’altalenante quantità di delay, modellando il colore delle ambientazioni traslandole da configurazioni surreali ad ossature concretamente prog..
L’apice della qualità artistica si raggiunge con l’ascolto di Insomnia e con le successive Driving Head ed Horizon, strutturate con la maestria che solo i grandi sanno esprimere, alternano e fondendo la liricità del pianoforte alle vibrazioni degli archi alla ricchezza delle distorsioni ariose di uno straordinario Jonas Meyer, dalle doti eccelse. Audacity dallo scheletro decisamente prog e dai fraseggi sincopati, dona energia al platter, arricchendo l’opera già di persè perfetta, scuotendo l’ascoltatore ed imprimendo un’indelebile legame con questa straordinaria band. M ristabilisce l’equilibrio in apertura, riproponendo un tappeto surreale e arioso, accompagnando serenamente l’ascolto verso la bonus track nascosta nella grotta seminterrata dove di custodiscono i vini più buoni.
Veramente un album di grande livello quello che i Frames sono riusciti a creare, un potente deterrente per contrastare l’ossessionante stato di ansia prodotta da questa società malata da frenesia, ossessionata dalla perenne visione di un mondo saturo da delirio fluttuante.

Anche se non estremamente innovativi e dalle strutture compositive abbastanza semplici, consiglio vivamente di non farsi perdere l’occasione di acquistare questo album, vi distenderà e vi farà vedere un mondo più colorato ed alleggerito.

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Recensione a cura di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: Santeria
GENERE: Alternative, rock, post-rock

TRACKLIST:
1. Memories
2. Spurious Love
3. Ride
4. There Is a Place
5. Good Luck
6. Rome
7. Time on Time
8. Flat Heart Society

Voto 2/5

Non fatevi ingannare dai generi scritti un pò più in su che tentano di descrivere il quinto lavoro dei Giardini di Mirò, soprattutto per quel che concerne la parola post-rock, perchè del post rock classico questʼ album ha davvero poco.
Eʼ solo che come fai a far capire che certi brani, seppur con una marcata direzione pop, ricordano comunque quel tipo di sonorità soprattutto nel suono delle chitarre?
Preparatevi a salutare i Giardini di Mirò dei precedenti dischi, eccezion fatta per Dividing  Opinions che già aveva fatto intendere che strada avrebbero percorso in futuro i sei di Cavriago. Addio alle code, alle dilatazioni, solo in Rome e in Flat Heart Society ci sono degli
accenni; addio allo strumentale, perchè sette brani su otto sono cantati da un Corrado Nuccini che in varie occasioni sperimenta la strada del cantautore elegante e decadente, come ad esempio in Rome e nella lacerante There Is a Place dove spicca il duetto con
Sara Lov (Devics).
Come già detto, in Good Luck prende ancora più forma quello che si sentiva in Dividing Opinions, peccato però che si sia persa per strada la componente “irrazionale”, per lasciar spazio ad un eccessivo cinismo rappresentabile nelle vesti di un salone arredato in puro stile minimalista, freddo e rassegnato.
Il disco comunque cʼè, gli episodi di alto livello anche, come ad esempio in Ride, la strumentale Good Luck e lʼ indie pop di Time on Time.
Non bastano però questi a ripagar lʼ attesa di cinque anni dove ci si aspettava qualcosa di più da una band che aveva segnato sempre progressi ad ogni ritorno.
Molti comunque potrebbero recepirlo come il disco della maturità, per me invece è un disco che segna un mezzo passo indietro, che lascia lʼamaro in bocca e suscita inoltre qualche sbadiglio.

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ETICHETTA: DeAmbula Records, DeAmbula/Acid Cobra Digital
GENERE: Post-rock, sperimentale

TRACKLIST:
1. Canto Primo
2. Quale Luce
3. Negli Angoli
4. Xenon
5. Finis Terrae
6. O Cabreiro
7. Gaia
8. Boulier Violette
9. In Cerchio
10. Maree
11. Penombra
12. Montagne

“Xenon” è il nome britannico dello xeno, il gas nobile dal numero atomico cinquantaquattro. La luce azzurra che emana è una manifestazione elettrica che ben rappresenta le scariche chimiche di rabbia, le funeste pulsazioni d’ira che fanno trasalire le chitarre e la loro magia elettrificata nei dodici brani che compongono il nuovo lavoro dei Buenretiro. Shoegaze, post-rock, noise: tre termini che ben si coniugano nel descrivere In Penombra, la sperimentazione obsolescente dei post-generi che molte formazioni, ancora in tempo per farlo, riescono a proporre in maniera personale, avendo scelto inequivocabilmente come numi tutelari Sonic Youth, Mogwai, Slint e My Bloody Valentine. In Italia, nonostante l’eutrofizzazione del sistema che l’eccessiva proliferazione di band analoghe può causare saturandolo, rimane una scelta coraggiosa e per farlo come piace agli abitanti di questo angolo di mondo i pescaresi hanno imboccato la strada tortuosa, ma ultimamente sempre in discesa grazie alla sempre più scarsa richiesta di qualità da parte del pubblico, del cantato nella lingua autoctona. Al cenacolo degli alternativi, frequentatissimo ricettacolo di esperienze musicali italiche che sembrano essere riconducibili tutte quante a tre soli filoni (chi evolve dai CCCP, chi dai Litfiba usciti dalla new wave dei primordi, chi dal rude grunge dell’esordio dei Verdena), l’album arriva come una lettera firmata, il cui destinatario è piuttosto chiaro. I Marlene Kuntz si notano subito come fondamentale ispirazione, tanto per l’ipertesa ruvidità esplosiva di Catartica (deportata pienamente in “Quale Luce”, udibile anche in “Gaia”, “In Cerchio” e “Penombra”), mentre in “Xenon” di Godano e soci viene ricordato lo stupro delle sei corde portato avanti con indelicata ma precisa veemenza nei capitoli successivi della loro discografia (in particolare in Senza Peso), virando verso rumorismi che alternano la potenza degli Slowdive e la rudimentale visceralità pre-grunge dei Jesus and Mary Chain.
I brani non sono mai troppo lunghi, segno della corretta interpretazione dei gusti dei compatrioti: dilatare eccessivamente questo tipo di musica può effettivamente stancare, e dal lato opposto giova all’equilibrio complessivo dell’album che l’unico pezzo mediamente più esteso degli altri (“Negli Angoli”) sia in realtà uno dei meno noiosi.

Pur con un minimo di incertezza, i Buenretiro ci hanno impressionati. Una produzione forbita ma che mantiene decentemente inelegante l’ascolto, per la scabrosità dell’impasto ritmico-armonico, giocato su alti e bassi, crescendo e cambi d’intensità veramente ben fatti, sintomo di un songwriting strutturato con grande attenzione e ingegno, e favorisce l’impatto di una band che avoca il potere decisionale del fruitore, ipnotizzandolo grazie ad una continua estasi elettrico-meccanica.
A noi questa roba piace. Aspettiamo buone nuove.

 

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ETICHETTA: Supernatural Cat
GENERE: Post-rock sperimentale

TRACKLIST:
1. Ultramorth
2. Orkotomb
3. Orbothord
4. Oktrombo
5. MöR
6. Oktomorb
7. Obrom

La schizofrenia è una delle caratteristiche più strane per una band con queste premesse. Dai dischi precedenti li ricordiamo per un’incredibile miscela di post-rock, psichedelia, follia noise e classic metal, furente, violenta, gelida, fonte di continue sperimentazioni che fanno dei due bassi la propria bandiera. Sotto l’ala protettiva di un’etichetta sopra le righe per definizione come la Supernatural Cat, questi pazzoidi arrivano a Morbo dopo un trittico veramente valido (Morkobot, Mostro, Morto), senza retrocedere di un singolo passo. A redivivere in questo album è un po’ di quel funk metal ormai smarritosi dietro le emulazioni degli RHCP più scarichi (“Orkotomb”), che riporta invece l’attenzione su Primus e Oysterhead, ma mescolato con quella vena più psichedelica che, “metallizzata” a dovere (“Oktrombo”, “Obrom”), diventa il marchio di fabbrica dei lodigiani. La bellezza di questo disco sta nel suo approccio continuamente nevrastenico, inarrestabile, sfuggevole; in un’espressione, indefinibile. Rinchiudere in una gabbia le strutture compositive per analizzarle è un’opera impossibile, tanto variegate e sottili sono le tracce del loro maturissimo songwriting. Frequenze basse, rombi, mugolii, rumori di fondo, melodie atonali, tutto è affidato ad una logica superiore difficile da carpire. Quello che rimane evidente è l’incalzante asprezza di alcuni arrangiamenti, capace di scandagliare i territori inesplorati di un neo post-noise che in Italia nessun altro propone con questa qualità.
Morbo è il sigillo definitivo posto ad etichetta di un prodotto veramente DOC. Consigliamo di vederli live, dove sono maggiormente apprezzabili. Un disco fantastico.

http://morkobot.wordpress.com/
PROSSIME DATE:
25.11 Bloom, Mezzago (MB) – con Goran D. Sanchez, Verbal
03.12 Milk, Genova
25.12 Bahnhof, Montagnana (PD) – con Menrovescio, Neither
27.12 Dal Verme, Roma
28.12 Muviments 7, Itri (LT) – con Ovo
29.12 Disfunzioni Sonore, Napoli – con Ovo
20.01.12 Arci Bolognesi, Ferrara

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ETICHETTA: New Model Label
GENERE: Post-rock, strumentale

TRACKLIST:
1. Deep Needles
2. Make Or Break
3. Gamino
4. Pinball
5. Your Strength Is My Weakness

Ascoltare l’EP d’esordio di questi ragazzi avellinesi è stato un pugno nello stomaco, diversamente da quanto auspicato. Si deve specificare, per rispetto verso i lettori, che molto spesso a The Webzine abbiamo un occhio di riguardo per la musica cantata e quindi gradire un disco di questo tipo ha un valore aggiunto. Il pugno nello stomaco di cui si diceva prima ha prodotto quindi effetti positivi: primo perché i Slow Motion Genocide esplorano con grande personalità e originalità un genere tendenzialmente banale, trasformato da vagonate di cloni degli Slint e dei Mogwai in un terreno sterile e desertico; secondo perché nessuno dei cinque brani risulta sbiadito, portando attimo per attimo all’attenzione dell’ascoltatore una sequenza di suoni totalmente innovativa, dove sfuriate energiche e melodia noise tipicamente post-rock si fondono in un susseguirsi mai scontato di “porzioni di pezzo” (l’iniziale “Deep Needles” possiede due sezioni che sembrano due brani completamente diversi accostati malamente, ma centellinando attentamente gli oltre otto minuti di durata si scoprirà il vero senso di questa cavalcata noise rock che fa il verso più ai primi Russian Circles che a Brian McMahan e soci). Ritmiche tendenzialmente più sostenute cozzano con la vocazione post-rock delle chitarre, andando a produrre un bizzarro risultato che richiama anche ai God Is An Astronaut meno canonici (“Gamino”). Un po’ più tradizionale nel genere “Your Strength Is My Weakness”, massimo punto espressivo del disco ma nell’essere il momento più articolato cova anche una certa pesantezza rispetto agli altri brani, più fluidi; per un cambio di rotta si veda la conclusiva “Pinball”, forse la meno elaborata ma forte di un sentore catchy che ribalta completamente le aspettative per il futuro della band, con qualche accenno tribale nel drumming.

Quale anima seguiranno? Quella più scontata dei Mogwai o questo retrogusto industrial-prog che non trova nessuna definizione certa ma lascia uno splendido ricordo di una band che consigliamo di seguire con attenzione almeno fino alla prova del nove con il primo full-length.

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ETICHETTA: Conspiracy Records
GENERE: Post rock, ambient

TRACKLIST:
1. As Freedom Rings
2. We Speak in the Dark
3. Blanket of Ash
4. Eating Our Bodies
5. Iron Water

Aaron Turner degli Isis ha sempre avuto un approccio freddo verso la musica. Freddo, ma tanto produttivo quanto eccessivo nel sperimentare e nell’osare. Questa volta, lontano dalle viscerali sonorità post-metal della defunta formazione di Celestial e successive pubblicazioni, appare come semplice strumentista al servizio della compagna in vita Faith Coloccia, in un disco sospeso tra equilibri post rock, pop da camera tipicamente pianistico confuso da sapori shoegaze e musica classica ribaltata in una scatola piena di rumori ambientali random.
Comprendere cosa contiene Mare Decendrii da questa poco limpida introduzione non è certo cosa facile; si tenterà quindi maggiore precisione nelle prossime righe: i cinque brani tentano di raccontare, a loro modo, storie dall’intensa portata prog, nel senso della dilatazione (alcuni momenti, vedasi “We Speak in the Dark”, non sono solo lunghissimi ma anche chilometrici) e delle progressioni puramente atipiche che in ogni pezzo mutano di forma senza un obiettivo o un intreccio definiti. Nulla di preconfezionato, come una sorta di improvvisazione poi cesellata ineccepibilmente fino a trasformarla in una colonna sonora di strane immagini di stanze spiritate occupate da corpi nudi fluttuanti che, per qualche strano motivo, hanno il dono della parola e si chiedono perché si trovano lì. Le vibrazioni neoromantiche tipicamente risalenti ai primi lavori dei Godspeed You Black Emperor, udibili particolarmente nella prima metà di “Eating Our Bodies” così come nella coda di “Blanket of Ash”, trovano la loro collocazione perfetta grazie ad una scelta ineguagliabile a livello di suoni, tra violini, voci che si rincorrono, e soprattutto il pianoforte.

Ascoltare questo disco è l’unico modo per capire fino in fondo lo sconvolgente universo dei Mamiffer, una coppia di musicisti come pochi, che nonostante il ristagno evidente in tutti questi generi post-qualcosa e sedicenti sperimentali riescono a sollevare un minimo di interesse in un progetto pesante per i più, ma abbastanza visionario e brillante da risultare impeccabile.

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ETICHETTA: Red Birds Records
GENERE: Rock psichedelico

TRACKLIST:
1. Chapter 1: The Death at Twilight of 25 Shattering Pieces of Sharpring Thin Ice
2. Chapter 2: Luna (And The Great Parade of Creatures Tiptoeing Around the Scarecrow)
3. Chapter 3: Gentle Marionette Firflies Lullabying Weavy
4. Chapter 4: The Loony Crowes Hoohaywire In The Shadows Of The Gigantic Moon
5. Chapter 5: At Twilight, Giant Farflies

Unmade Bed. Proprio come può sembrare, al primo ascolto, unmade questo disco. Sfatto, raffazzonato alla bell’e meglio. Ma siete sicuri che non sia solo perché non è di facile ascolto? Già, proprio così. Mornaite Muntide è abbastanza interessante, fin dal nome, per il suo incedere sempre molto difficile da interpretare, un disco funerario, una continua ascesa di toni (e note) di cui si nota soprattutto l’eccessivo stillicidio di rumori e suoni sperimentali, che contribuiscono alla causa del genere proposto. Psichedelia pura, quindi, palese già dal primo “capitolo” (il disco è diviso in chapters, cinque episodi che, si presume, si propongono di raccontare storie), con pochissimo spazio alla voce e il continuo folleggiare di ritmiche soffuse e sincopate, piene di riverberi, che si accompagnano alla melodia di chitarre incentivate dalle scelte nei suoni, ancora una volta concentrate sul delay e l’eco. Effetti che spopolano da sempre nel rock sperimentale, e che senz’altro giocano un ruolo fondamentale nel concretizzarsi di un sound denso e ricco di pervasive delicatezze atmosferiche. Il termine più adatto per queste canzoni così eteree è “spettrali”, un desueto ed intenso modo di definire la capacità evocativa di certi dischi post-rock che Mornaite Muntide tende a ricordare (come avremo fatto nei primi Slint, ma con delle strutture molto più anticonformiste). Certo, si può anche far fatica a dipanare la matassa di questi brani, lunghi, fuorvianti, pieni di confusione, con delle scelte di suono discutibili, ma è altrettanto vero che ogni singolo secondo di questo disco non può far altro che attestare un songwriting maturo che questa band riesce a dimostrare già dal secondo full-length. E non è poco.

Come Unmade Bed è una traccia dei Sonic Youth, questa formazione non si astiene infatti dal tributarli, seppur indirettamente, con manciate di shoegaze e noise rock come quasi nessuno ha saputo fare dopo i newyorkesi. E se in Italia nessuno ha mai provato ad elevarsi a protagonista del nutrito stuolo di adepti del filone, beh, preparatevi alla possibile invasione degli Unmade Bed, che seppur destinati a rimanere sempre di nicchia avranno comunque una lode tendenzialmente post-mortem. Allora, si dia il via all’elogio funebre accompagnato dalla splendida “Luna”.

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ETICHETTA: Ludnica Recordings
GENERE: Rock strumentale, art rock, post-rock

TRACKLIST:
1. Esc
2. F16
3. Sniper Wolf
4. Jacques Cousteau

Fine del primo ascolto: e il naufragar m’è dolce in questo mare. Erogazione di un sobrio e tepore che quasi mi riveste di una sincera voglia di riascoltare il disco. Per questo arriva il secondo ascolto: l’infinito di Leopardi ora è più utile a capire un album che di per sé non è di facile comprensione, forse perché non ha un significato neppure per chi l’ha suonato. Ok, piano, non voglio fare la morale, però davvero questo lavoro possiede i proverbiali capo e coda di cui tanto si vuole parlare? Analizziamolo da dentro: quattro brani, di lunghezza crescente, partendo da cinquantasette secondi per arrivare a oltre tredici minuti. Una scelta quasi coraggiosa nel duemilaundici, in Italia, con una copertina che più new wave di così non si può, tradendo anche l’ascoltatore che pensava di comprarsi l’ennesimo emulo di Curtis e soci.
Un tappeto di suoni che non corrisponde a niente di già sentito in Italia ma che comunque non riesce a lasciare il segno.

Se detto questo vi è passata la voglia di ascoltare il disco non disperate, la recensione ha una seconda parte, quella del terzo e del quarto ascolto.
Portraits è, in realtà, un album dalla costruzione intelligente e probabilmente la sua patina di “album inconcludente”, come qualcuno l’ha definito, può svanire solamente con i ripetuti ascolti. Il post-rock, se così vogliamo chiamarlo, o più in generale la musica strumentale in Italia ha sempre avuto grossi nomi all’opera ma non è mai stato creato un linguaggio che fosse una sorta di tragitto da seguire per eventuali seguaci di quella setta. Ecco che si ritagliano così un loro spazietto i Denied Light, che con quattro brani spiegano il loro senso di noise rock italiano, soprattutto con la splendida “F16”. E’ l’estrema divagazione che rende dolce l’ascolto, e la chiave sta nell’ascoltare il disco nel giusto contesto. Allora ve lo godrete davvero. Mi raccomando, NON ASCOLTATELO IN MACCHINA. Solo a volume altissimo, nel relax della vostra camera, con un impianto adeguato potrete godervi un lavoro di grande pregio fatto da ottimi musicisti che riescono a creare eterei tappeti di abusiva voglia di raccontare una storia senza troppe parole. Di lusso.

Lavoro sproporzionato e fuori contesto, ma, nel suo settore, una piccola perla.

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ETICHETTA: Face Like a Frog Records
GENERE: New Wave

TRACKLIST:
1.  The Solitude of The Ship (Part I)
2. Ahab
3. Ludovico
4. Summer Shade
5. Decay
6. Grasshopper in Your Hands
7. Hang Over
8. Black Dogs
9. The Solitude of the Ship (Part II)

I Mauve rappresentano più o meno quello che la musica degli anni ’90 ha saputo essere, salvo poi essere dimenticata in virtù delle nuove mode, tra revival, indie, new wave, ritorni continui di decenni passati e fashiontronica, neologismo piuttosto comprensibile direi.
Quando il post-rock, il grunge, lo shoegaze, il pulsare isterico di certe perizie trip-hop ma suonate con distorsioni e ritmiche indiavolate, e i Blonde Redhead, si uniscono, tutto quadra. I Mauve riportano in vita quel tipo di suono, lo fanno proprio senza inventare niente ma senza smarrirne gli ideali originari. E’ così che riescono a proporre un disco non tanto fresco ma contemporaneamente capace di distinguersi dalla massa informe delle uscite analoghe per una certa capacità di personalizzazione che si deve soprattutto al combo Tosi-Belfanti, vera anima del progetto, sebbene sul retro del disco compaiano anche altri nomi.
The Night All Crickets Died è, se vogliamo, il punto fermo nella carriera dei due, il disco della conferma, dell’affermazione di una maturità che trafuga con scarsa dignità tutti gli elementi migliori della visceralità e della profondità creativa dei Fugazi, ricreando una versione italica di quella band, senza neppure assomigliargli troppo. Semplicemente uno sforzo che SI DOVEVA FARE, visto che le premesse per portarlo a termine c’erano. E non poteva mancare il violoncello.
Ed eccolo qua, suggestivo, energico, voluttuoso. Sarà anche quel suo rivestimento molto garage, quasi underground, a regalargli una patina capace di elevarlo a simbolo di una generazione perduta che vuole sempre ritornare, tra fasti e passi falsi, ma a noi è piaciuto, così come ci è stato posto, diretto, senza malinconie, sfrontato e sfacciato.

Allora volete capire tutto quello che è stato detto finora? Ascoltatevi “Grasshopper”, “Ludovico” e il double act iniziale/conclusivo “The Solitude of The Ship”, le tre sfumature dell’anima dei Mauve, il perché (e come) loro suonano, il perché dovreste ascoltare questo disco. Vi avevo avvisato.

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