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Archive for the ‘GENERE: Stoner’ Category

Recensione a cura di RENATO RANCAN
ETICHETTA: Entertainment One
GENERE: Stoner metal, sludge

TRACKLIST:
1. Serums Of Liao
2. Bloody Knuckles
3. Fertile Green
4. Madness Of An Architect
5. Samsara
6. Spiritual Rites
7. King Of Days
8. De Vermis Mysteriis
9. Romulus And Remus
10. Warhorn

Ed ecco il nuovo album degli High On Fire, la malsana creatura di Matt Pike, uno dei personaggi più influenti di certo rock degli ultimi vent’anni, basti solo pensare che ha co-fondato gli Sleep, probabilmente la stoner band definitiva, e che ad un suo concerto si sono formati i Mastodon, suoi fan accaniti.
Ma son passati tanti anni, che sia ancora in forma?
A metter su l’album sembra non sia mai stato così bene, il precedente “Snake For The Divine” del 2010, pur piacevole cominciava a scadere nel manierismo e si avvertiva stanchezza, così mi son avvicinato a questo “De Vermis Mysteriis” con un po’ di timore, ma lo dico già: è uno degli album metal dell’anno.
La produzione è stata affida a Kurt Ballou dei Converge che ha fatto un lavoro prezioso: la voce di Pike è la più rancorosa della carriera, ringhia e sbava dall’inizio alla fine, le chitarre sono marce ed allo stesso tempo epiche, suona tutto divinamente, un equilibrio difficilmente preventivabile ma che finalmente riesce a dare totale giustizia ad un gruppo che sta mescolando in una nuova formula decenni di stoner, doom, prog e heavy metal mantenendo l’urgenza di ventenni, in altre parole son riusciti nel miracolo di unire litri di birra e sedute di THC esaltandosi per entrambe, fortuna che il rock era morto con Cobain.

Ci sono essenzialmente due forme canzone in quest’album, che rischia di peccare solo in monotonicità: la cavalcata aggressiva, sporca e veloce e la lenta discesa negli inferi allucinogeni di una desert session, una gioia per le orecchie ma senza mai presentare i difetti di certo metal: autoreferenzialità, suoni fuori fuoco o cattivo gusto, tutto ciò in “De Vermis Mysteriis” è assente, l’incipit del primo brano è forse un omaggio a Painkiller, ma non c’è spazio per esibizione di tecnica o fuochi d’artificio, il treno (o meglio trattore) degli High On Fire deve andare veloce e selvaggio.

Riguardo ai testi invece sospendo il giudizio: l’album è un concept dalla trama piuttosto stralunata, questa la spiegazione di Matt Pike: “La storia parla del gemello di Gesù, di nome Liao, che si sacrifica per dare la vita allo stesso Gesù. Ma nell’istante in cui muore diventa un viaggiatore del tempo…”. Ok, ammetto che è una storia un po’ improbabile, ma è apprezzabile da parte degli High On Fire dimostrare che troppa droga alla fine fa male.
Verso la fine degli anni ’90 il metal sembrava in profonda crisi, incapace di rinnovarsi inquinato dal Nu-metal, solo nomi isolati riuscivano a produrre materiale interessante e nuovo, invece nel 2012 il genere è ancora più che vitale, band al massimo della loro carrieta come Deathspell Omega, Mitochondrion, Esoteric, stanno sfornando nuove gemme di questo genere infinito, e si affiancano a garanzie come gli High On Fire, da considerare ormai come dei mostri sacri.

In parole povere correte a comprare quest’album.

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ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Stoner rock, punk, space-rock

 

TRACKLIST:
1. Impulses 069
2. Universe Ride
3. Raise Hell
4. Star Messenger
5. Tom
6. Sleepless

Per Star Messenger EP basta una recensione piuttosto breve.
Vi ricordate i Kyuss, i primi Queens of The Stone Age e i Fu Manchu? Immaginateli con gli stessi suoni trasferiti a Palermo, quindi con la nostra capacità (ovviamente inferiore a quella degli americani) di fare del gran casino con distorsioni iperruvide, pezzi veloci e furiosi, suoni caldi e devastanti. I Sergeant Hamster in sei pezzi condensano tutta la loro visione di stoner/desert rock, perfettamente coerente con quella delle band storiche: manca semplicemente una certa coesione, giacché nelle originali derive psichedeliche e space che si attestano su un filone vagamente derivante dai Black Sabbath (quindi dalle incidenze pesantemente doom) perde un minimo di comprensibilità. E’ possibile che nel prossimo full-length questi ingredienti vengano esplorati a dovere e si crei un vero capolavoro.
Fino a lì, un gran EP di desert rock all’americana suonato da italiani, con tutti i crismi.
Acid.

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ETICHETTA: Alka, Shinseiki
GENERE: Noise, post-hardcore

TRACKLIST:
1. Do It Or Let Me Go
2. The Head
3. Sorrysmile
4. Revolt Party
5. Dubby Little Thing Called Dub
6. In-Coming Disaster
7. I’m Ok
8. Won’t You Save Yourself?
9. The Hand
10. Think ‘bout Your Health
11. It’s So Easy

Poooooooooooooooowerful.
Rock’n’roll Head è una piccola perla di noise, fuso con le impennate garage e post-hardcore di certe band nordiche, americane e del nostro territorio peninsulare (anche recenti), che arriva come un’accetta d’acciaio sulla nostra testa proprio quando sembrava che il genere stesse morendo. Prolifici come non mai, sfornano dodici fucilate, furiose, devastanti, al fulmicotone: perdersi nelle loro mitragliate di chitarra (“il mio mitra è un contrabbasso”, stavolta, non presenta nessuna figura retorica), nelle lente tirate che si concludono sempre con impennate noise che stridono, scuotono l’udito, si schiantano contro una batteria abbastanza ingenua ma sempre al passo con il livello degli altri del gruppo. Per la cronaca, un livello alto. I Love in Elevator molto più bravi a suonare, molto più resistenti nel tenere brani di uno certo spessore (e anche loro nell’ultimo disco sono stati ottimi, ma qui non si scherza).
“The Head”, “Sorrysmile”, “In-Coming Disaster” e “The Hand”, sostanzialmente, compongono il quartetto essenziale per definire il sound della band: potente, caldo, post-nirvaniano (soprattutto nel primo dei quattro episodi citati), impegnato ad essere strafottente con tutto e tutti. Le strutture dei brani non sono mai particolarmente complesse, se comparate alla media del genere, ma dimostrano una capacità di songwriting che riesce contemporaneamente ad essere efficace e letale. Dinosaur Jr. e Queens of The Stone Age su tutti quelli che apprezzerebbero l’ascolto di Rock’n’roll Head.

Un enorme lassativo che ci permette di cagare fuori la nostra rabbia. Si sa, tutti ne abbiamo tanta. GRAN DISCO.

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Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: Above Ground Records
GENERE: Grunge rock, stoner, alternative

TRACKLIST:
1. All The President’s Girls
2. Dive
3. Fashion Girl
4. Trust No One
5. Shine On Me Tonight
6. Free Disinformation
7. Desert of December
8. The Others
9. Never Break
10. Effet Domino
11. Pornocracy
12. Armadillo

Non servirebbe a niente recensire questo disco se non facessimo un doveroso preambolo relativo all’immensa (per numero e valore) lista di ospiti che hanno preso parte ai lavori al fianco del duo ternano: Michele Pica, Martyn Lenoble, Nick Oliveri, Michelle Madden, Scott McCloud, Jesse “Mcan Dino”, Dicofone, Kevin Shea, Claudio Grigioni, Massimo Pupillo, Xabier Iriondo, Rhy O’Drinnan e Devon Oliver.
Procurare le parole giuste per definire il disco per me è stato difficile. Sintetizzerei la mia opinione dicendo che lo stoner intriso di grunge “sopravvissuto-a-Cobain”, che caratterizza ogni singolo secondo di questo disco, riceve i suoi momenti di contaminazione meno palese da quegli orizzonti quando gli ospiti importano l’anima e il significato che era alla base dello spirito delle loro ex band di punta (Queens Of The Stone Age, Zu, Afterhours – i primi, chiaramente -, Girls Against Boys, tra le altre). Questo non per dire che il disco sia banale ma che si presenta in un pacchetto in cui il “colore” viene dato soprattutto dagli aiuti esterni. Andiamo invece a quello che effettivamente Giovanni Natalini e Angelo Sidori sanno fare: la confezione, che si fregia di un’ottima produzione di stampo, e di provenienza, americani, porta alla luce quanto di meglio la scena post-grunge italiana può, oggi, offrirci. Penso che non sia un caso se leggere etichette come grunge per voi possa sembrare riduttivo, ma è chiaro che gli orizzonti sono quelli (più che altro il background). Sonorità più fredde, quelle che provengono dai Jane’s Addiction degli albori, dagli Stone Temple Pilots (ma perché non i Temple of the Dog?), dai Soundgarden, certi lavori di Mike Patton e poi i Porno for Pyros. Altre più calde a fare da comoda e inevitabile integrazione, che ci ricordano invece di Kyuss, Queens Of The Stone Age e Faith No More, con roboanti e opportunamente “rinsecchite” distorsioni che si appropriano dei migliori orpelli delle Desert Sessions. La personalizzazione di tutto questo forma un prodotto che si può definire solo con il suo vero nome: The Lonely Savalas; “Desert of December” (guarda caso, “desert”), “Dive”, “The Others” e la title-track ci traducono in fatti tutte le parole sinora spese, con le proprietà più facilmente riconoscibili di quei gruppi e di quelle band che citavamo. Dicevamo poco fa, con molta personalizzazione, cioè con quell’energia che è tipica degli alternative rock acts italiani e che anche gli umbri riescono ad incanalare nel loro percorso artistico.
Molta grinta, qualche sezione melodica che funziona però solo da apparato di contorno, un insieme di brani d’impatto che senz’altro può piacere a chi ama tipi di produzione più sporchi, ma con quel lavoro di livellatura e levigatura che molti mix d’oltreoceano (vedasi band italiane come i Linea 77) tendono ad imporre su chi apprezza, magari, sonorità più garage (che effettivamente sarebbero state più appropriate). In ogni caso, un disco ottimo, che segna una parabola evolutiva della band, in netto crescendo rispetto all’EP “Plastic Pills For Happy Passengers”, accattivante, fresco, adatto a declinazioni tra le più svariate, ma senz’altro consigliato per i live.

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LE SCIMMIE
DROMOMANIA

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Noise rock

TRACKLIST:
1. 0000
2. L’Oblio Mistico
3. Dromomania
4. Athazagorafobia I
5. Athazagorafobia II
6. Frustrazione della Psiche
7. Aurantifolia
8. Frekete
9. Il Filo di Lana
10. Nostofobia

RECENSIONE:
Per recensire un disco come questo dovremo sapere che ormai essere in due in band più casiniste possibile è una moda. Dovremo sapere che il noise in Italia non lo sa fare (quasi) nessuno ed è fuori tempo massimo provare a rendere falsa questa frase. E poi dovremo sapere che anche i Sonic Youth sono diventati un riferimento da evitare se si pensa di fare musica imitando i tuoi beniamini.
Le Scimmie lo sanno e infatti evitano tutti i punti fragili di queste tre affermazioni, per trasformare sia la presenza dei Sonic Youth nel loro duo che le caratteristiche del loro genere in punti a loro favore. In generale, fanno tanto casino, tanto per essere in due, tanto per essere noise, tanto per essere italiani. La cattiveria con cui le distorsioni si infilano nei timpani dell’ascoltatore è quasi crudele, cruda e bollente, non ci sono suoni freddi, se non qualche leggero overdrive nei pochi momenti in cui non si tramuta in graffiante pioggia d’acido o direttamente in veleno per topi. Cattiveria, ancora, che sferza come vento gelido tutto ciò che inconta colpendoci con rasoi di ghiaccio. Il disco infatti si apre con “0000”, che subito mette in campo gli ingredienti basilari di questo mix, che non trascurano neppure la lezione troppo-imparata-a-memoria dei Nirvana e i primi esperimenti di Melvins e Mudhoney. E poi dopo un paio di brani decisamente potenti ma incolori, arriva una doppia sorpresa, che reca due volte il nome di “Athazagorafobia”, rispettivamente parte prima e seconda, una specie di suite puramente noise che, questa si, ricorda i primi lavori di Thurston Moore e soci, ma dove i momenti più lenti e distesi assumono una calma quasi temperata, di una mitezza che condivide con i Kyuss gli attimi di attesa tra un distorto e l’altro. E proprio la band di Homme ricorda proprio quei momenti vagamente stoner che impregnano gran parte dei brani, come “Frustrazione della Psiche”, in realtà una mitragliata psicopunk che non lascia traccia di pietà con quei distorti che porteranno alla mente dei meno esperti anche gli Smashing Pumpkins più tetri e tutti i brani più “scordati” delle band stoner degli ultimi 20 anni. Perché si ritorna sempre a Bleach, dopotutto (basta ascoltare “Frekete” per capirlo). E anche “Nostofobia”, a concludere, lo fa. “Il Filo di Lana” unisce tutto quanto abbiamo appena detto con gli episodi più “gravi” dei Motorpsycho dei bei tempi, e sul finire dell’ispirazione evidentemente la band è anche riuscita a trasformare un paio di simil-citazioni in farina del loro sacco, perché è questo che stupisce in questo Dromomania: l’originalità della band sta tutta nel combinare decine di elementi diversi in sequenze sempre nuove, producendo un miscuglio incredibilmente diversificato e difficile da districare, che risulta, pertanto, innovativo e appannaggio di una band che riesce ad avere tanta personalità nonostante l’assenza di elementi altamente caratterizzanti come i testi, gli assoli e l’aspetto della cura dell’immagine.
Secchi, squallidi e scialbi nel sound (andrebbe molto sgrezzato, nonostante il genere si presti molto a sperimentazioni garage e suoni cazzoni da tipica punk band autoprodotta), si potrebbero liquidare in poche parole ma sono invece meritevoli di un approfondimento molto più lungo di questo articolo, che comunque serve a far capire di che pasta sono fatti: una band che deve crescere ancora molto (sono giovanissimi) e che però ha già posto le basi per un cammino che sarà lungo e pieno di soddisfazioni, se la loro personalità sarà utilizzata in maniera positivamente produttiva.
Probabilmente sarà così, probabilmente.

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