Recensione a cura di RENATO RANCAN
ETICHETTA: Ricordi
GENERE: Prog italiano
TRACKLIST:
1. Canto del capro
2. Trittico
3. Euterpe
4. Scinsione (T.R.M.)
5. Melos
6. Galassia
7. Affresco
Ogni tanto, nello strano percorso dell’uomo, un incontrarsi di svariate coincidenze favorevoli dà alla luce un movimento artistico in grado di esprimere in pochissimo tempo una quantità incredibile di capolavori. Solo a posteriori si riesce a stento a capire come sia stato possibile un tale mescolarsi di belle menti, ma forse è meglio sedersi e semplicemente godere delle opere lasciate da questi momenti magici.
Si prenda ad esempio l’Antica Grecia di 2400 anni fa, quando il mitico regno di armonia e perfezione del dio Apollo si scontrò con un’oscena processione danzante proveniente dall’Oriente che cantava il dio Dioniso, fu la nascita della grande Atene che tutti noi conosciamo, quella dei tragici e dei filosofi, tesa tra Euripide e Socrate.
Ma senza andare così distanti pure l’Italia musicale recente ha avuto un suo momento speciale: nei primi anni anni ’70, in bilico tra il boom economico e gli anni di piombo, tra l’epoca d’oro del rock e la disco music, nacque l’unica scena rock italiana veramente originale e capace finalmente di influenzare a sua volta i gruppi d’oltre Manica, sto parlando ovviamente del progressive italiano, o spaghetti prog come amano chiamarlo in America.
Andando a spulciare tra le centinaia di produzioni dell’epoca si rimane a bocca aperta: ogni paese aveva il suo nugolo di musicisti in grado di sfornare una manciata di canzoni di qualità, inevitabile così cercare il piccolo gioiello sconosciuto ai più ma in grado di regalare grandi emozioni, anche solo per il respirare l’aria di un tempo passato dove il mercato discografico non aveva ancora messo mano su tutto, in cui anche le pazzie di quattro ragazzi freschi di conservatorio e vittime di sostanze psicotrope potevano finire su un vinile.
In questa recensione non parlerò però di un piccolo gioiello ma di una gemma molto luminosa, seppur ancora in parte nascosta: Melos dei Cervello.
I Cervello sono stati un gruppo napoletano nato grazie all’aiuto dei concittadini Osanna, in grado di pubblicare un solo disco nel 1973, Melos appunto, e avere una notorietà effimera della durata di poco più di qualche festival, ma la loro musica è rimasta e sta venendo riscoperta. Si parla di puro prog: come vuole il genere la fanno da padrone virtuosismi, strumenti di musica classica, brani oltre i sei minuti e ritmi che raramente si assestano sui 4/4, ma l’originalità la fa da padrona, insolitamente sono totalmente assenti le tastiere, un must del genere, egregiamente sostituite da strumenti acustici, una scelta coraggiosa per l’epoca e alla fine determinante per la riuscita del prodotto; il cantato è di una qualità superiore alla media, il pensiero va subito a John De Leo dei Quintorigo, come fuori dal comune è la produzione, molto più amalgamata e secca rispetto alla concorrenza, tanto da non sembrare di quarant’anni fa, ma è la musica in sé e i temi di cui si parla a fare di questo disco un’opera speciale. L’accenno all’Antica Grecia di inizio recensione non era solo un banale sfoggio di cultura, è in quelle zone e in quell’epoca d’oro di scontri e novità che si muove la musica dei Cervello, forse unico caso italiano a trattarne, musica mediterranea, nervosa e inebriante, sette canzoni che sembrano sette fasi di un rituale dionisiaco, da lontano così confuso e inumano ma da vicino dolce e rassicurante. Sin dalla prima canzone i Cervello mettono le cose in chiaro: il “Canto del Capro” si apre bucolico, satiri e menadi danzano in corteo cantando le lodi del dio del vino, dello svelatore delle verità inconfessabili, dolorose e tremende, ma in grado di dare un ebbro piacere. Non si capisce se la vicenda si svolga con il sole a picco o nella più buia delle notti, la musica riesce ad aprirsi con tempi dispari che turbinano la testa come una sbornia alcolica, ben quattro flauti e la voce a tratti distorta sorretti da chitarre acustiche, un basso pulsante e una frizzante chitarra elettrica alla Robert Fripp. Melos appunto, la melodia greca, il lirismo di semidei che sguazzano nel dolore, nell’alcol, nell’erotismo e nel capovolgimento dei valori per poi farsi leggeri e volare su montagne e ruscelli d’acqua fresca, ma c’è anche tanto Cervello, ogni pezzo è curato nei minimi particolari, non si cade mai nella psichedelìa ma la si supera, tutto è cerebrale e ogni virtuosismo mai fine a se stesso.
Musica densa, piena e trascinante. Inutile descrivere dall’esterno i singoli momenti di un rito sacro e profano, mettete su il disco e lasciatevi rapire da questa opera che sembra partorita in una grotta abitata dai personaggi dei Dialoghi di Leucò di Cesare Pavese quando non erano ancora solo ricordi, scoprirete allora l’estasi dell’ambrosia, cosa può nascere dall’unione di Apollo e Dioniso, di Cervello e Melos, e cosa è riuscita a partorire la controversa Italia dei primi anni ’70, forse più controversa dell’Atene del 400 a.C..
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