Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘GENERE: Elettronica’ Category

ETICHETTA: MyPlace Records

Human Machine dei nostrani NODe viene spiegato dal quintetto come un prodotto “electro-punk” e “electro-pop”, per citare le definizioni presenti nel loro profilo Facebook. Di fatto, sono etichette calzanti, che descrivono, se non la polpa, lo smalto del disco. Si tratta di un viaggio elettronico che trova però nelle sfumature più dark del rock e della new wave anni ’80 la sua strada verso una smaliziata riproposizione di materiale invero non così originale. Novità non sono senz’altro l’uso del vocoder e dei sequencer, che, prendendo a piene mani dai Kraftwerk e dai Daft Punk, fanno rintracciare in una parte dei pezzi l’evidenza di una tendenza esterofila un po’ forzata. Risulta invece estremamente piacevole l’atmosfera da club di alcuni brani – che richiamano anche qualche elemento techno tedesco, come Paul Kalkbrenner, Anthony Rother, ma non solo – dove il ballo e l’accompagnamento fisico sono suggeriti da cantati catchy, cassa dritta e suoni gonfiati al punto giusto grazie da un mastering equilibrato, caldo e tagliente.
La composizione presenta caratteristiche latenti che si scoprono solo con l’ascolto ripetuto, come la progressione dei brani con echi e rimandi anni ’90, sporcata di synth-pop alla Depeche Mode, sebbene sia il più banale dei paragoni che possiamo fare. Il pantheon dei NODe ci mostra anche l’influenza di Autechre, Front 242, l’album Looking for St. Tropez dei Telex e gli esordi dei Nine Inch Nails, rendendo l’album radiofonico e leggero. A suo modo, questa rilettura italiana non stona, facendo proprie tematiche noir e un’estetica industrial che un sound moderno nei synth e nelle ritmiche rende attuali.
I riferimenti psicanalitici, religiosi e filosofici, quali una pretesa di indagine esistenziale attraverso le tracce di questo disco, non risultano così evidenti e lampanti, e scegliamo così di tralasciare questa particolarità di cui comunque la band restituisce già una chiara descrizione in tutti i vari link online.

Come molti dischi “di derivazione” ha perlomeno la qualità di collocarsi in maniera chiara dentro un filone, quello della nuova musica elettronica italiana, che sta scalzando il rock dal podio dei generi più ascoltati, o forse l’ha già fatto. Dai NODe ci possiamo aspettare, in ogni caso, una scalata e un miglioramento che già si possono intravedere considerando come songwriting e produzione siano in linea con le più recenti e criticamente apprezzate uscite nel genere.

Read Full Post »

Recensione a cura di CLAUDIO MILANO

Etichetta: dEN
Genere: Avant/elettronica/ricerca vocale

Tracklist:
Kayros
Hor Kar Vudur
Hacab
Tzerpiusu
Sardonios Ghelos
Strix
Arxia

VOTO: 9

Kayros è una nuova divinità italiana e tale è destinata a rimanere.
Tracce come questa lasciano il segno in maniera permanente.
Pubblicato da pochi mesi, NUHK, si è ricavato uno spazio grande nell’avanguardia italiana che conta.
Dalila è, per chi scrive, la più grande ricercatrice e performer vocale italiana di sempre (e si sa, l’Italia in questo territorio, rimane da sempre, apripista per sviluppi globali) assieme a Giuni Russo di “Energie”/ “A Casa di Ida Rubinstein 2011” / “Signorina Romeo live” e alla prima Katya Sanna (quella di “Il chiarore sorge due volte”, coi Dunwich e le collaborazioni col collettivo romano Epsilon Indi). Un disco come questo, nonostante le poetiche differenti, porta un passo oltre, quanto fin qui prodotto da Romina Daniele e Antonella Ruggiero, Petra Magoni, Cristina Zavalloni e supera, di slancio, Lili Refrain e Stefania Pedretti.
La sua dimensione è dichiaratamente in opposizione ad un sistema “popolare”, inteso come “pop”, ma alla tradizione popolare vera, quella sarda (la lingua usata per il canto), attinge, creando un legame solidissimo e ultra (null’affatto “post”) moderno, tra arcaico e moderno, aprendo a nuovi scenari possibili e auspicabili.
Ciò che di primo acchito sorprende è il gran livello di produzione, cosa null’affatto scontata tra le mura dEN Records, nobilissima etichetta che ha preso in carico l’opera, spesso più avvezza ad un instant composing con mixing ottenuti in tempo reale, a segnare la “crudità” delle poetiche. Qui il suono annichilisce, panpot che rimbalzano da un orecchio all’altro e una cura nell’estremizzazione delle frequenze che rende gloria al contenuto.
Come sempre per dEN, preziosissimo l’artwork a cura di Soldarini.
La voce, trattata elettronicamente o pura, si muove da subarmonici gutturali e aritenoidei, prossimi al growl (“Tzerpiusu” – eccezionale nella sua miriade di rifrazioni, pari a un coro di vespe – , “Hor Kar Vudur”) per raggiungere suoni da soprano leggero di una delicatezza e una purezza immacolata (“Sardonios Ghelos”) ed esplodere in whistle raccapriccianti (“Strix” – per chi scrive, il brano più bello ascoltato da un annetto a questa parte – “Hacab”), talvolta in screaming, in altri casi in modulazione da soprano di coloritura a spostare l’estensione del pianoforte, a destra, di mezza ottava. Spesso corde vere e false sono usate assieme, rendendo la voce della cantatrice come quella della più violenta tempesta punk immaginabile (“Arxia”). Pre-vocale e profonda ricerca sulla phonè si legano a definire la più profonda sintesi tra alcune delle voci femminili estese più importanti e radicali che hanno attraversato il ‘900 nel rock e nella musica di confine (Yma Sumac, Meredith Monk, Nina Hagen, Diamanda Galas, Yoko Ono, Meira Asher, Carla Bozulich, Iva Bittova), ma qui è soprattutto permeata fino all’inverosimile la lezione del Scelsi di “I Canti del Capricorno” e la ricerca delle indimenticate Joan La Barbara e Cathy Berberian (“Stripsody”). Non solo, ogni possibile paragone unilaterale espone al ridicolo chi ha scritto di NUHK, testimoniando la profonda ignoranza della critica (italiana in particolare) appresso all’estetica delle “voci estese”, erroneamente chiamate ancora “voci strumento”, per le quali i metri di paragone Stratos e Galàs, sono ormai superati (certamente nella tecnica) da almeno due decenni, ma rimangono gli unici conosciuti, a discapito delle ricerche di Jaap Blonk, Koichi Makigami, Paul Dutton, Phil Minton, David Moss, Viviane Houle, John De Leo, Stefano Luigi Mangia, Mike Patton, Albert Kuvezin, Tran Quang Hai, Gisela Rohmert, Amelia Cuni, solo per citare pochissimi esempi. Che razza di affermazione è quella della “voce strumento”? Se una voce come quella di Sylvian (o Waits) canta su di un’ottava non è forse uno strumento magnifico? Bisogna ammazzare i propri padri putativi per essere sé stessi e Dalila questo, lo ha fatto, pur essendo questo, appena un (magnifico) disco d’esordio.
In lei c’è la lezione di chi, non solo non ha dimenticato il ‘900, ma dà soffio al proprio tempo e lo proietta avanti definendo nuove strade. Ma ciò che importa è che qui, la tecnica (più registri, più colori, più estensione = più possibilità a disposizione per far muovere apparato fonatorio appresso alla mente senza troppi limiti), è esclusivamente funzionale all’espressione, profondamente viscerale, sciamanica, da chi è in preda a convulsioni da allucinogeno pre rituale. Ancor meglio, tutto qui è “composizione”. Perché Dalila, compositrice rimane, anche nell’improvvisazione più radicale. Le tracce, multi-strutturate e ripartite in tante micro-sezioni (“Hacab” in particolare), sono autentiche composizioni di musica contemporanea che attinge all’elettronica figlia di Karlheinz Stockhausen, quanto dei Nine Inch Nails, Foetus e i Neubaten, dell’estetica glitch che frammenta come a definire miriadi di metamorfosi “ovidiane” e quella dei drones più minimali e tempestosi.
Dalila è schianto e carezza, un fiore che riemerge dalla liberazione di sovrastrutture socio-culturali, a cui pure attinge, per trasformarle in medicina, come nell’immergersi in un catino di ortiche per curare una malattia di Psiche intesa come sensibile cordone olistico tra anima e corporeità e rinascere giglio immacolato, nel mese di Maggio.
Fatelo ascoltare ai vostri bambini, rideranno, giocheranno e canteranno assieme a Dalila, loro, non hanno bisogno delle vostre sovrastrutture, o, se un bambino interiore siete riusciti a conservarlo, senza farlo diventare tiranno e obeso, ascoltatelo, non riuscirete a liberarvene.
A questa forma di dipendenza, al pari di quella di un “The Drift” di Scott Walker, non potrete che esprimere profonda gratitudine.

Read Full Post »

Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Ice Records
GENERE: Electro, hip-hop, miscellanea

TRACKLIST:
Cani Bionici (feat. Dargen d’Amico)
Alla Corte del Pazzo
Manitù
L’Amaca (feat. Seppiah)
Modo Nuovo
Thor e Fatima
Il Secchio e il Mare
Rosa Quantica (feat. Danti)
Dopo Il Patto Rise
Libero Caotico

Per parlare di questo disco una parola chiave è “miscellanea”, termine usato per la prima volta dal celebre umanista di Montepulciano Angelo Poliziano molti secoli fa per raccogliere alcuni suoi scritti filologici di varia natura. Il succo del termine è la raccolta di diversi elementi eterogenei, ma visto che il lemma in sé non racchiude un giudizio qualitativo sulle differenti componenti di questa unione di singole parti individuali che non sembrano legare bene insieme, interverrà l’articolo che si sta leggendo.
Pico Rama è un rapper milanese, ventitreenne, forse già sentito nominare da molti in quanto figlio di Enrico Ruggeri, artista che da qualche tempo ha iniziato a bazzicare anche in scene underground come quella trentina, sia come produttore che come musicista. L’esperienza di Pico forse arriva anche da un clima familiare recentemente più aperto a ciò che sta fuori il mainstream, ma la ricerca sembra essere ostacolata da un’eccessiva urgenza comunicativa, una voglia immensa di dire tutto e subito, che in questo disco si traduce in uno sterile, per quanto riguarda il mero accostamento di diversi linguaggi, pot-pourri di reggae, dub, hip hop, rap, elettronica, condendo tutto con liriche d’autore che, e questa è una fortuna, hanno invece una maggiore coerenza rispetto a ciò che a queste sottostà. Zangirolami garantisce una produzione di qualità, agli stessi livelli dei grandi nomi con cui ha già lavorato in passato (Fabri Fibra in primis), e le diverse atmosfere che popolano questo lavoro fanno il resto. E’ un viaggio iperattivo (“Cani Bionici”, con l’onnipresente D’Amico, che aiuta nel rivestire il brano di una maggiore immediatezza), scientifico-futuristico (“Libero Caotico”, “Rosa Quantica”, altro bel featuring, stavolta con Danti, uno dei rapper brianzoli più accreditati nell’ultimo biennio, ovvero i giovani Two Fingerz), storico-religioso (“Dopo Il Patto Rise”). E’ una trasumanazione continua, un trasporto incessante tra tempi e luoghi, uno spostamento svincolato, in realtà, da ogni ragionamento, tra linguaggi e sistemi di comunicazione diversissimi, come nell’ironia quasi da Bagaglino di alcune frasi della bella title-track o l’alienazione paranoica di alcuni schizzi di frenetica distopia, ovvero la follia, nel senso più alto del termine, di “Alla Corte del Pazzo”.  Bastava cambiare una lettera nel nome del disco per accorgersi la vicinanza con il romanzo di Hemingway, Il Vecchio e il Mare, anche se occorre uno sforzo di pensiero ulteriore per rendersi conto che il tema del “viaggio”, visto sotto luci differenti, è condiviso tra le due opere.

Lo ricapitoliamo: non c’è ricerca in questo disco, perlomeno se ricerca nel duemilatredici significa anche dare collante ideologico ad un prodotto artistico. A tenerlo in vita, però, interviene una bramosia di dire qualcosa, di fare qualcosa, forse di farsi notare, o ancor di più di fare successo, che riesce a potenziare le tracce fino a penetrare nelle pieghe della loro essenza e renderle valide, di certo non coese, ma pur sempre valide. E’ forse questa tendenza che porterà il giovane figlio d’arte alla ribalta, dove molti altri, pur con il supporto di una figura di spicco in famiglia, hanno fallito (Marco Morandi, ad esempio, esiste però gli si accredita ben poco di ciò che ha fatto, ad esempio la celeberrima sigla di Chi Vuol Essere Milionario). La prova di talento raggiunge comunque la sua massima espressione con i testi, strani però non complessi, con lo sguardo rivolto ad alcune tematiche proprie dell’hip-hop il quale, tra i tanti generi toccati nel disco, è quello in cui Pico può emergere con una maggiore rapidità (non solo per il terreno fertile su cui la scena lombarda poggia da tempo nella discografia dei grossi numeri). Uno sforzo più che discreto.

Read Full Post »

Recensione inserita nel circuito Music Opinion Network

Tornano dopo una pausa di quattro anni i lombardi Lolaplay, carismatica formazione di Varese che ha già pubblicato più di qualche bel prodotto. La Città del Niente non fa differenza, stabilendosi proprio come il suo precedessore “Incomprensibili Strategie” su un terreno  molto denso di influenze, vagante tra synth-pop, elettronica sospesa tra dance e new wave, rock e punk. Le dieci tracce sono tutte molto tirate, pensate per essere anche radio-friendly, perfette per lo scopo, quindi, di rimanere in testa. Poco spazio per sperimentazioni e novità di sorta, anche se senz’altro la band dimostra in ogni momento di possedere una discreta maturità nel songwriting e uno schematismo nelle ritmiche che conferisce cattiveria e pesantezza quasi marziale a brani come la title-track e la seconda in tracklist “Non Comprate Questo Disco”. Principale ingrediente di questa ricetta molto rock, pur se vissuta anche coi linguaggi dell’electro più moderna, sono le chitarre gonfie di una rabbia post-adolescenziale che non manca mai di stupire in positivo.

La Città del Niente, nel suo piccolo, significa più del suo semplice esistere. Significa che anche con poco, anche senza essere jazzisti o grandi compositori prog, si riesce a dire qualcosa. Sono cose risapute da sempre, ma nell’universo della pomposità post-moderna sembra un obbligo anche farsi vedere grandi. I Lolaplay non ne hanno bisogno, ottimo sforzo.

Read Full Post »

Recensione a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Mute
GENERE: Elettronica, colonne sonore, ambient

TRACKLIST:
1. 44
2. 44 (Noise Version)
3. Lighton
4. Tod
5. Blank Page
6. PV
7. K & F Thema (Pizzicato)
8. K & F Thema
9. Austerlitz
10. A Violent Sky

Voto: 3.5/5

La pagina italiana di Wikipedia alla voce Apparat, nome dʼ arte del berlinese Sascha Ring dice: “ Si occupa di musica elettronica, sebbene nella sua musica unisca vari generi”. E dice bene. Dopo lʼ ultima fatica, The Devilʼs Walk del 2011, ci consegna questo Krieg Und Frieden, che in tedesco significa guerra e pace, esattamente come il celebre scritto di Tolstoj. Music For Theatre scritto tra parentesi, non è mica messo a caso perchè questo disco altro non è che la raccolta di musiche che Ring ha composto per lʼ ultima opera del direttore teatrale Sebastian Hartmann, unʼ opera che appunto è unʼ interpretazione del romanzo di cui sopra. In questo disco Apparat stupisce e si sposta su lidi a lui sconosciuti, rispetto ai lavori precedenti, mettendo in un cassetto la sua indietronica e approfondendo in gran misura i discorsi appena accennati in The Devilʼs Walk, dove a mio avviso si sentiva già lʼ affievolirsi del beat in favore di sonorità più ambientali ed atmosferiche (guardatevi il trailer del film-documentario Few Words musicato con la sua Black Water e andrete avanti giorni a premere replay). Krieg Und Frieden è un quadro composto da colori inediti: archi, chitarre classiche, pianoforti e percussioni, suonati in chiave classica e posti su tappeti ambient, percorrono atmosfere a tratti inquiete, a volte quasi soffocanti ed altre ancora maestose come in Austerlitz. Chiude lʼ opera A Violent Sky, scelta come singolo, che con le musiche per lʼ opera teatrale credo non cʼ entri assolutamente niente ed in effetti, nellʼ insieme dellʼ album sa proprio di puttanata, ma glielo perdoniamo visto che è un gran brano

Read Full Post »

ETICHETTA: Baffo Music
GENERE: Elettronica

Open Ending è il titolo del nuovo lavoro in studio degli Holiday in Arabia, duo elettronico (all’anagrafe Marco Ghidelli e Sebastiano Confetta) che pubblica per Baffo Music, etichetta francese, questo nuovo lavoro, sperimentazione in salsa post-electro che meriterebbe più di qualche parola per essere descritto: meriterebbe un ascolto. Una dichiarazione, questa, che esprime sinceramente la difficoltà di rendere con delle semplici lettere la bellezza di un disco, un po’ come Dante Alighieri che davanti alla visione celestiale del Paradiso nella Divina Commedia iniziò ad aver paura di non saperne descrivere lo splendore. Non siamo a livelli così trascendentali, ma la diversità di influenze che sono state inserite dentro questa calamita di generi richiede un’attenzione descrittiva che passa per vie difficilmente percorribili.
Ci si prova così, a dire che il disco inizia con uno space rock rivisitato con dell’elettronica vecchio stile, tra Kraftwerk e ambient più moderno, con “1960”, per poi piombare nella malinconica “Around Me”, perla del disco, tetra rappresentazione di un synth-pop aggiornato e riproposto secondo visioni più progressive. “Petrolio” riprende forme ambient, si pesca da linguaggi trip-hop in “Tegel”, che ha anche del post-rock, e gli Aucan degli esordi non sembrano così distanti, pur con una qualità maggiore della composizione. Che sostanzialmente si ruota dentro un contesto dark, new wave, post-punk, però senza le chitarre graffianti e banali della nuova scena revival.
L’ontologia, ovvero la scienza dell’essere in quanto essere, ci porta a speculare su cosa siano gli Holiday in Arabia, oltre ad un duo elettronico italiano. Sono un raffinato collage di ciò che l’elettronica è stata dalla sua invenzione, di cosa si può fare con degli strumenti veri filtrati attraverso l’immaginazione, la tecnologia, le idee più contorte. Sono l’evoluzione di un concetto di musica tecnica che diventa anche un sorprendente percorso artistico, limitato solo dalla difficoltà a comprendere alcune scelte, non per errori di songwriting ma per l’ignoranza dell’ascoltatore medio. Il metodo degli HiA non li farà mai uscire da un angolino, ma la qualità, si sa, non si trova in cima alle classifiche di vendite. Top.

Read Full Post »

ETICHETTA: New Model Label
GENERE: Elettronica

L’imprescindibile traiettoria artistica degli Strip in Midi Side riceve, con Non Ti Amo Più, Amore, il suo punto fermo. Retrocedere non sembra un’azione rientrante nelle corde di questo progetto, rivoluzionario perché riesce a destrutturare e ricostruire un decennio, quello degli anni ottanta, senza farlo sembrare né decontestualizzato né anacronistico. Siamo quasi nel duemilatredici e, ammettiamolo, questo non è cosa facile, nonostante gli inevitabilmente noiosi continui tentativi di revival. Il percorso di questa band è personale, caratterizzato da continue scissioni che, una volta dipinto il quadro del loro percorso artistico, lo distruggono separandolo in innumerevoli schegge. E’ elettronica fatta con il cuore e la testa, due parti del corpo che difficilmente il musicista usa insieme di questi tempi, che riesce nel nobile intento di risultare al contempo maliziosa ed easy-listening, ma anche impegnata e di spessore, facendo anche scivolare l’anca (“Viagra in Tasca”). Non pochi, comunque, i momenti più elaborati e nervosi, quasi nevrotici, che vomitano schizofrenia in grado di deviare il tragitto eighties della band: è il caso del noise di “Resistenza” e della pazzia blandamente sintetica di “Dinosauri”, capace di unire scientemente Garbo, i Depeche Mode (forse, meglio, Hourglass di Gahan solista) e momenti di beat tardo à la Krisma.

E’ un disco colorato ma che attinge a tonalità grigie nei suoi testi, per questo antitetico, fatto di ossimori, di sineddoche, di vuoti e di pieni. Lo ricorderemo meglio tra qualche anno. Non ti amo più, musica italiana, ma lo rifarò.

Read Full Post »

Recensione di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: Musica Vermella
GENERE: Elettronica, indie

TRACKLIST:
1. Radial Glia
2. Arachnoid Trabeculae
3. Desoil 2.0
4. Bohemian Cremation
5. I’m Not Myself
6. Struggle

VOTO: 2.5/5

Ubik non è altro che uno pseudonimo usato da Marco Bonini, chitarrista dei già apprezzabili Mamavegas.
Presenta questo EP, che arriva alle nostre orecchie, grazie allʼ etichetta catalana Musica Vermella.
My Room Is My World è il titolo del disco, titolo che mette in risalto la parola “stanza”, sostantivo eloquente e ricco di significati emblematici, che può essere inteso come barriera tra lʼ autore e il resto del mondo, o come luogo dove il musicista fa entrare i suoni della quotidianità.
Indietronica strumentale, computer music “suonata” dove si sente una certa sonorità alla Dntel, ad esempio nellʼ ottima Struggle, ma in maniera meno ambient/intima, a favore di una ricerca sonora varia, che va a creare sensazioni uditive che tracciano perfetti sfondi urbani/paesaggistici che spesso nella vita di tutti i giorni sono soltanto sfiorati dalla nostra attenzione.
I brani più interessanti sono senza ombra di dubbio, oltre la già citata traccia di chiusura, I’m Not Myself e Arachnoid Trabeculae.
Anche qui lo spettro di Jimmy Tamborello continua ad aleggiare, ma non è affatto un male, anzi viene forse da chiedersi se lʼ aggiunta di una voce, come nei Postal Service potesse elevare il risultato finale già di per sè ad un buon livello.
Si tratta di un ep ricco di spunti: suoni, rumori, calma, energia, che ci porta in un mondo confusionario ma familiare.
Un mondo sonoro che deve uscire dalla stanza? o che vuole entrare in essa?
Poco importa: questo disco è la chiave per aprire o chiudere la porta

Read Full Post »

ETICHETTA: Tannen Records
GENERE: Elettronica, avantgarde

TRACKLIST:
1. Another World
2. C12H17N204P
3. Free Tibet
4. Il Primo Volo Parte I
5. Il Primo Volo Parte II
6. Sinfonia (Preludio)
7. Sinfonia (Elettronica Contemporanea)
8. Hermes
9. Trismegisto
10. Musicogeny

Spettro visibile od udibile? Si direbbe quasi che tutta la cultura degli ultimi trent’anni in fatto di musica elettronica sia contenuta in questo lavoro di un duo (all’anagrafe Beltramini e Zattera), i Cyber Society, che se ne esce con un prodotto di grande qualità, la cui levatura scalfisce involontariamente tutti i dischi italiani più importanti nel genere per accostarsi a loro. Per scoprire tutto questo basta un ascolto, per abbeverare la propria mente di un miscuglio eterogeneo ma perfettamente congeniato di elettronica d’avanguardia, jazz, breakbeat, electrofunk, percussionistica tribaleggiante e schizzi classico-orchestrali. Solo dieci i brani, molti di più gli ingredienti che contengono. Vacillando tra distensioni quasi prog (“Sinfonia”) e rimbombi acid jazz (“Trismegisto”), ci si colloca agilmente negli spazi ancora liberi dell’avanguardia italiana, evitando tutta la fuffa dark resuscitata negli ultimi anni per proporre un vero e proprio manifesto di “elettronica contemporanea”, grazie ad una genialità nella composizione che stupisce da “Another World”, brillante quanto tetra introduzione (ma degna di questo titolo), fino al neo-ambient di “Musicogeny”, elemento che scorrazza lungo tutto il disco rendendolo variopinto anche grazie ad un range di suoni vastissimo che non risparmia i campionamenti al di là degli strumenti suonati, che comunque esistono e fanno un gran lavoro, fiati compresi. Schizofrenia puramente ambient è reperibile in “Free Tibet”, mentre con “Hermes” si emigra nella troposfera dei Portishead.
Poco spazio a qualche comunque scintillante momento danzereccio, mentre Aphex Twin e Four Tet insieme ad Amon Tobin brindano ad una nuova band ben contaminata dalla loro nevrastenia.

Uno dei migliori, se non il migliore, dischi di elettronica dell’ultimo decennio. Immancabile nella collezione di tutti gli elettronicofili.

Read Full Post »

ETICHETTA: Ed Banger Records
GENERE: Pop elettronico, electronic prog

TRACKLIST:
1. Horsepower
2. Civilization
3. Ohio
4. Canon (Primo)
5. Canon
6. On’n’On
7. Brianvision
8. Parade
9. New Lands
10. Helix
11. Audio, Video, Disco

Techno schizofrenica? Touch? Chart electronic pop? Come la volete chiamare la follia di Cross, disco d’esordio di Xavier de Rosnay e Gaspard Aurgè? Beh, dimenticatela, perché l’evoluzione di questo Audio, Video, Disco li porta verso altri lidi. Le anthem melodies fuzzettose (e fumettose) di singoli come “D.A.N.C.E.” e “Genesis” rimangono solo in qualche intro e qualche momento di passaggio, mentre l’impianto delle canzoni punta ad un’atmosfera seventies che attinge dai nomi “grossi” (Eagles, Scorpions, the Who, Queen, forse anche qualcosa di più smarcato verso gli ottanta), rovinando quindi la radiofonicità in favore di un elettronica quasi prog rock. E’ la grande novità e anche il grande merito di Audio, Video, Disco dove gli unici brani potenzialmente radio-friendly rimangono la title-track e il combo iniziale “Horsepower” e “Civilization”, pure queste indicatrici di una virata enormemente visibile in ogni singolo secondo dell’album. “Helix” ricorda molto alcune multinazionali dell’electro-pop come Chemical Brothers e Daft Punk, mentre “Ohio” ha proprio quel feeling eighties che ricopre di sentimentalismi retrò quasi tutto il lavoro. Vintage è la parola giusta (che ne dite di “Canon” in questo senso?). E che dire di “New Lands” e quel suo sguardo all’indietro che ci farà danzare a ritmo di una sorta di Kiss dentro una discoteca?
Sommariamente, la produzione restituisce a questo lavoro un sound abbastanza ruvido, pieno di filtri e filtrini, giusto per ballare o fingere di farlo (perché non sempre è possibile, per alcuni ritmi dispari o cambi strani). Ci si aspettava di più, o qualcosa di diverso, ma le attese non sono tradite. Forse un eccesso di pretenziosità nel tentare l’avanguardia del pop si poteva evitare, ma dopotutto stiamo parlando dei Justice e gli si perdona facilmente anche questo!

Il tutto condito da una manica di ospiti da far paura: Phalen dei Diamond Nights, Ali Love e Vincent Vendetta. Ho detto tutto.
Cross era molto meglio, certo. Ma non ve lo potete lasciar scappare. Nel genere, tra i migliori dell’anno.

Read Full Post »

ETICHETTA: Fosbury Records
GENERE: Pop, elettronica

TRACKLIST:
1. Y (feat. Pacifico)
2. Il Buio (feat. Sara Mazo)
3. Cuoricino
4. Cohen
5. Lo Squalozecca (ft. Federico Fiumani)
6. Io Accuso
7. Brainstormo (ft. Sara Mazo)
8. E.M.I.
9. Il Nuovo Me (feat. Max Collini)
10. Close
11. 54G
12. La Città

Siamo arrivati alla svolta, dopo Mondo/Madre per N.A.N.O., ovvero Emanuele Lapiana, già noto per i C|O|D, che esce nel duemilaundici con un disco incendiario, con un titolo devoto alla nuova leva cantautorale: I Racconti dell’Amore Malvagio. Un lavoro personalissimo, e per questo maturo e assolutamente incandescente, pieno di quegli accenni autoreferenziali molto cupi che sempre abbiamo riconosciuti nei progetti in cui N.A.N.O. (prima e dopo questo nome) è comparso.
Imprescindibile la maniera in cui su dodici tracce di lunghezza piuttosto omogenea vengono fusi un lirismo assolutamente dark, l’elettronica dalle tonalità pop che si alimenta soprattutto degli intensissimi testi e una virulenza emotiva che suscita tremori quasi post-punk. Il contesto di base rimane quella new wave molto cara anche al più illuminato degli ospiti (il disco ne fa una vera infornata, tra Pacifico, Sara Mazo e Max Collini), ovvero Federico Fiumani, che con le sue urla straziate grida tutta la sua rabbia (e quella di Lapiana) in “Lo Squalozecca”, uno dei brani più interessanti ed intriganti del disco. In realtà la quiete iniziale, con l’esplosione centrale e un intorpidimento progressivo verso il finale sembrano quasi indicare una gradualità nei toni e nei modi, con una tracklist quindi particolarmente studiata per avere certi effetti. L’elettronica soffusa, però curatissima, di Franco Battiato e gli Offlaga Disco Pax sembra albergare in molti dei brani meno aggressivi, i quali invece si cimentano in dure filippiche noise. Mancano contenuti politici, i quali sono addirittura scansati (vedasi la critica al ’68), per dimostrare come il “fare musica per una generazione”, nell’epoca dei social network, significhi scomparire poco dopo sotto il peso dei cinguettii o dei “mi piace”, mentre l’arte, quella vera, rimane anche dopo l’autore. E sembra che N.A.N.O. miri a questo.

Tra malinconia e rabbia, uno sfogo che non passerà inosservato in questo scarno duemilaundici musicale. Straconsigliato.

Read Full Post »

ETICHETTA: U.D.U. Records
GENERE: Elettronica, pop

TRACKLIST:
1. Hikikomori
2. Lo Stato In Cui Mi Cerco
3. Ideale
4. In Una Catapulta
5. Sta Accadendo
6. La Cura del Suono
7. Maledizione
8. Boomerang
9. Hai Fai
10. Grancassa
11. La Spiaggia
12. Le Cose Infinite
13. Ecocentrifugo
14. In Feedback

“Grancassa” è la rappresentazione più consona della deriva tecnologica che in Italia quotidianamente conquista decine di artisti. In questo caso Tenedle non ha fatto una scelta di campo negli ultimi anni, ma lo fa da una vita, spostandosi da Firenze all’Olanda, perfezionandosi sempre più. E’ questo il disco della svolta? Forse no, ma rimane un lavoro apprezzabile e che merita senz’altro un approfondimento.

Bisogna obbligatoriamente sottolineare la presenza di numerosi ospiti femminili che contribuiscono alle voci (Marydim, Vanessa Tagliabue Yorke e Silvia Vavolo), sollevando la qualità media del disco per la presenza di linee vocali che si intrecciano con l’ottimo apporto di sintetizzatori e tastiere, nel concretizzare un sound leggero, dalle atmosfere intense ma fredde, dove le linee sono a loro modo ossessive, cercando nella ripetizione il meccanismo per replicare nella mente dell’ascoltatore pulsazioni e melodie principali in maniera da sollecitarne il ricordo: in una parola, un disco radio-friendly, ma più complesso nel songwriting, ricercando lo studio della struttura senza soluzioni troppo banali, ma dipingendo nel complesso potenti sollecitazioni immaginifiche, quasi visionarie. “In Una Catapulta”, “In Feedback” e “Boomerang” potrebbero bastare a specificare in musica tutto quello che abbiamo detto, ma diamo ad “Ideale” la palma d’oro per il pezzo più rappresentativo. La scelta dei suoni più adatti è un obiettivo rincorso lungo tutta la durata del lavoro, neppure troppo breve se vogliamo, e si colpisce sempre nel segno.

Sostanzialmente, lontani dal definirlo un disco miracoloso, ci si deve per forza soffermare a sottolinearne la potenza comunicativa, estrinsecata dal primo all’ultimo secondo del disco da melodie che si sorreggono con ritmi, modi e maniere tipiche di una tradizione orecchiabile risalente all’elettronica del nord Europa, se non addirittura della Scandinavia. In sostanza, una prova di maturità destinata a restare nel tempo.

 

Read Full Post »

Tornano le note a margine. Chissà che non restino.

DIGITALISM – I LOVE YOU DUDE (V2, 2011)
Il pop elettronico e sintetico che negli anni ’90 ha fatto la fortuna di Chemical Brothers e Fatboy Slim è ormai diventato facile da riprodurre. I Digitalism avevano debuttato con un prodotto fresco e saccente, e questa volta sono tornati con la stessa cosa: scarno in quanto ad originalità, è comunque uno degli esempi principali di come agli europei piaccia (far)ballare. Julian Casablancas regala un tocco di classe indispensabile in “Forrest Gump”, ma non è la più bella del disco. Attese novità per non dichiarare bancarotta, ma I Love You Dude resiste molto bene.
VOTO: 3.5 su 5

BRUNORI SAS – VOL. 2 POVERI CRISTI (PICICCA, 2011)
Il nuovo episodio di quella che si appresta a diventare una saga storica nella tradizione cantautorale alternativa italiana è, se possibile, superiore al grande “Vol. 1”. Rino Gaetano e Capossela c’erano anche l’altra volta, ma sono scomparsi Ciampi e il primo Carboni per fare spazio agli eccessi di zelo più tipici della nuova guardia (Dente, Vasco Brondi, Dimartino). Brunori però è meno vivace, e si piega più difficilmente a certe virate populiste degli altri: sogni distrutti, tragedie e banalità quotidiane sono raccontate, di nuovo, con grandi divagazioni verbali che tengono i piedi a terra, fedeli a De André e le sue maniere rozze ma delicate allo stesso tempo. Fantastico.
VOTO: 4.5 su 5

GANG GANG DANCE – EYE CONTACT (4AD, 2011)
Da New York, furoreggiando in chart digitali e orecchie di musicofili poco estremi ma attenti: il loro electro pop dal sapore retrò per una volta non si tinge di toni vintage solo per soldi e figa. Tra oriente, dream/synth pop e scismi dance, distrugge ogni tentativo di insurrezione digitale degli ultimi anni, quasi tutti svaniti in poca cosa (Hot Chip, Knife, Digitalism, Animal Collective, Crystal Castles, i nuovi Gang of Four, tutti bravi ma nelle ultime uscite meno dei GGD). Sbiaditi per scelta, luccicano tra mille nomi per una provocante originalità che affascina nonostante alcune tonalità non brillino certo per l’innovazione dei loro colori: Eye Contact è un disco da non perdere di vista.
VOTO: 4 su 5

Read Full Post »

ETICHETTA: Autoprodotto
GENERE: Elettronica, indietronica

TRACKLIST:
1. Fill Every Corner
2. Nuclear Sand
3. Magnets
4. Law

Non è che individuando un filo conduttore semantico nei titoli delle canzoni si risolva tutto, però devo ammettere che, senza nemmeno rifletterci tanto, ascoltando il disco e poi leggendo il retro del CD, ho avuto, per un momento, questa impressione. E poi un nuovo ascolto, e l’impressione ha iniziato a svanire, mentre divampava il calore new wave da una Verona dove il genere è quasi inedito, soffocato dall’onda metallara che fatica a spegnersi (e dal poco interesse dei locali). Antenna Trash è un progetto molto interessante, che già visivamente, per l’artwork, richiama i bei momenti della carriera dei Joy Division; ma, una volta analizzate le quattro tracce, dischiude un mondo infinito di possibilità interpretative che neanche la Divina Commedia. Nel senso che i riferimenti sono molti e il songwriting della band è senz’altro abbastanza complesso e maturo da non lasciar adito a dubbi circa la preparazione storico-musicale, strumentale e forse anche letteraria della band.
Le atmosfere, dense di anni ottanta e derivati, almeno nell’elettronica moderna (vedi glitch, hop, indietronica), pullulano di costanti “electro” come pochi artisti della scena internazionale hanno saputo fare; motivi fortemente devoti ad una causa dance che ricordano i disturbi dei Justice quando sono più orecchiabili,  i The Glitch Mob nei momenti di incontenibile soffocamento industriale (“Nuclear Sand”), anche un po’ post-punk nel modus operandi, nel comporre un pezzo e nel dargli sostanza e credibilità. La tendenza a rumori e suoni che catapultano il tutto in un universo più noise, e quindi più moderno, come in “Magnets”, svolge la funzione catalizzatrice più importante per l’espressione “di genere” di Ded Comes For Ded, come dire che il ponte tra passato e presente è rappresentato da inserimenti elettronici che desumono dal groove ballabile un contesto più ampio di ricerca del suono. Non è una frase astrusa come può sembrare, il succo è tutto lì, la cura negli arrangiamenti e nella scelta del sound, così come si palesa man mano che si ripete l’ascolto del breve disco una forzata strizzata d’occhio alle tre decadi passate come biglietto d’ingresso per tracciare le regole per il futuro della musica elettronica, perlomeno in ambito europeo: italiani o non italiani, potrebbero anche sfondare all’estero, se solo qualcuno prendesse in mano l’idea di esportarli.

Una band assolutamente geniale, nel modo di presentarsi, nella loro opposizione all’acerbo manierismo di certa elettronica imbizzarrita e priva di stimoli che si frappone tra tutto ciò che di serio ancora esce dalla nostra penisola; l’exploit positivo di questi ragazzi veneti potrà senz’altro fungere da sprone o da leva d’avviamento per altre approfondite esplorazioni dell’universo tutto moderno della indietronica più studiata, tranquilla nelle pose ma intensamente nebulosa nel processo di costruzione che nasconde. Grandissima prova, davvero.

Read Full Post »

Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: Arbutus Records
GENERE: Dream-pop

TRACKLIST:
1. Outer
2. Intor/Flowers
3. Weregild
4. ∆∆∆∆Rasik∆∆∆∆
5. Sagrad Пpekpacный
6. Dragvandil
7. Devon
8. Dream Fortress
9. World Princess
10.  † River †
11. Swan Song
12.  ≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈
13. My Sister Says The Saddest Things
14. Hallways
15. Favriel

Inverosimile accozzaglia di elettronica situata tra gli albori della techno e l’attuale incrociarsi di pop e art music stipulando featuring che non sono altro che ammissioni di colpa. Formulando un giudizio con la tecnica del “rito abbreviato” si potrebbe riassumere questo disco così. Non ci sono featuring, non ci sono veri e propri brani pop, però l’universo da cui attinge è proprio quello: Claire Boucher, in arte Grimes, che tutti pensavano un gruppo fino a qualche tempo fa, si pone così nell’inestricabile bivio che oggi hanno saputo creare tra di loro i termini “dream-pop” e “vintage”, abusatissimi, ma quantomai realistici. Brani come “Hallways” recuperano tradizioni dubstep che Burial e Skream hanno aggiornato in maniera fin troppo imprescindibile, mentre le atmosfere più volutamente eteree di episodi come “Weregild” si confrontano con conterranei come gli Echo Lake, con raffazzonamenti dark che poco temono degli eighties più new wave e dell’ambient melodrammatico d’oggigiorno (di nuovo le stesse formule poco più tardi in “River”). Si balla, ma con un soffocamento garage nelle ritmiche che trasforma una possibile perla techno in un’onirica digressione dubstep, quando si arriva a “Swan Song”, vero momento radiofonico del disco che per il resto si discosta molto dall’orecchiabilità che ci si poteva aspettare vista l’hype creata attorno alla release di Halfaxa.

Che dire, un disco un po’ complesso da descrivere, forse perché lo si è voluto costruire in maniera intricata? Beh, dipanarlo non ha portato ad apprezzarlo di più: in certi momenti sembra che la tecnica vocale e compositiva di Grimes, meritevole di lode perlomeno per la sua innata capacità di sistemare ogni minimo dettaglio (si cura di ogni cosa personalmente, o almeno così dice), sia asservita ad una certa voglia di superare le barriere del già sentito, con risultati che comunque variano dal leggermente scadente al decente, senza mai raggiungere livelli di innovazione tali da spazzare via le pretese.Halfaxa, effettivamente, poteva essere migliore, ma non per questo i techno-fans della musica elettronica più di nicchia devono lasciarlo sullo scaffale: solo per aficionados.

Read Full Post »

ETICHETTA: Emi
GENERE: Pop italiano

TRACKLIST:
1. Eden
2. Serpente
3. Il Diluvio
4. Prodotto Interno Lurido
5. Benzina Ogoshi
6. Sul Sole
7. Quando
8. Istrice
9. Tra Gli Dei
10. La Funzione
11. L’Angelo
12. Subvolley (Inno dei Mondiali di Pallavolo)

Loro e il loro fottutissimo modo di attirare sempre l’attenzione.
Loro e il loro fottutissimo pop che ti prende in maniera irreparabile.
Loro e la loro mania di commercializzarsi sempre più senza perdere mai la loro personalità.

Sarebbe così il modo migliore di recensire Eden ma forse una delle uscite più attese del duemilaundici merita qualche parola di più. Uno spreco che mi posso permettere.
Samuel Romano e soci sfornano, in verità, un disco CRIMINALE. Criminale perché distrugge il concetto di pop che abbiamo creato negli ultimi anni, dove il rock si è affievolito fino a diventare un miscuglio inverosimile di melodia e ipocrisia discografica; criminale perché non inverte nessuna rotta, né cambia niente all’interno di un percorso che i Subsonica non hanno mai smesso di seguire; criminale anche perché, di nuovo, come L’Eclissi e Terrestre, dividerà la critica e il pubblico.
Eden è, sotto sotto, un bel disco. Il problema è che bisogna capirlo e superare la delusione che risiede soprattutto nelle linee vocali di Samuel, spompe e molto meno melodiche del solito, devastate da uno stile che gli appartiene talmente tanto da essere diventato parte di una cultura difficile da mantenere nel tempo. Un po’ come se fosse diventato ovvio quello che canterà nel prossimo disco e, diciamoci la verità, è proprio così. Altro problema è stata la scelta dei primi due singoli: la title-track, uno dei migliori brani dal punto di vista musicale, arrangiata benissimo seguendo la traccia del loro tragitto dance-pop che a noi piace molto, non attacca come estratto radiofonico, così come Istrice, incredibilmente scarica e priva di carica emotiva/emozionale. Belle, però, le liriche.
Nel disco anche ritmi indiavolati che infervoreranno i tanti fans ai concerti che li attendono al varco: vedasi “Il Diluvio”, che ricorda molti episodi già sentiti, “La Funzione”, che però sembra quasi un versione velocizzata dei Baustelle e, per fare un gioco di parole, funziona molto poco. Nel testo parla di “esitazioni” e infatti è proprio un brano-esitazione all’interno della loro carriera, sembrando quasi paradigma di un’insicurezza che si portano dietro da tempo.
Il resto è bello: la sboccata malinconia di alcuni testi, le scelte lessicali che sono sempre state efficaci (“L’Angelo” e “Benzina Ogoshi” tra le più “tipiche”, anche se quest’ultima si fregia di un’autoreferenzialità che mette in gioco troppe vanterie, criticando a sua volta chi ha sempre voluto giudicare una band che comunque non può pretendere di non ricevere giudizi negativi viste le scelte azzardate che ha intrapreso molto spesso), una produzione OTTIMA e pulitissima, che renderà benissimo soprattutto nei live set. Delude sotto certi punti di vista la svolta parapolitica che li contraddistinguerà ancora di più come band comunista che, oggi, è diventata quasi un’offesa da parte delle destre che ci ritroviamo. Non che me ne freghi qualcosa, giacché il sottoscritto ama le band schierate, ma a volte sembra che la freddezza tipica della timbrica di Romano sia repellente alle frasi di stampo politico.

Se diamo una controllatina a quanto abbiamo detto il verdetto è presto fatto. I Subsonica hanno rischiato di deluderci e non l’hanno fatto, per l’ennesima volta. “Non sei riuscito a darci un taglio”, Samuel, e infatti la tua parlantina nei testi delle canzoni ti ha salvato di nuovo il culo, grazie comunque al contributo musicale degli altri che è senz’altro determinante a questo punto della loro carriera.
Chissà dove arriveranno? Forse è questo il punto fermo prima della discesa?

Read Full Post »

ETICHETTA: La Tempesta Dischi
GENERE: Electro-pop, electro-rock

TRACKLIST:
1. Blurred (ft. Angela Kinczly)
2. Heartless
3. Red Minoga
4. Sound Pressure Level
5. Storm
6. Embarque
7. Save Yourself
8. Underwater Music
9. In A Land
10. Away!
11. Black Rainbow

Ecco una band elettronica come si deve. In Italia, nonostante il suo respiro volutamente internazionale (o semplicemente europeo), furoreggiano da un po’ di tempo con estenuanti tournée e alcune importanti aperture a big di grande livello, vedasi Placebo, tra gli altri, attraendo un sempre crescente numero di fans che aspettava questo Black Rainbow al varco per appurare se effettivamente di questi Aucan ci si può davvero fidare.
Ora che anche noi di The Webzine l’abbiamo letto, i dubbi devono, necessariamente, essere scomparsi. Scherzi a parte, questo disco è davvero qualcosa di essenziale per capire fino a che punto la ricerca di un’elettronica che sia contemporaneamente pop e sperimentale (almeno che non sappia di già sentito) in Italia si possa spingere: non troppo in là, senza abbattere nessuna frontiera, però unendo con saggezza e intrepida consapevolezza creativa i mille orizzonti già raggiunti dal genere oltremanica ed oltreoceano (anche al di là dei Balcani e poi degli Urali) in una nuova miscela che da noi è senz’altro inedita.
Ce lo fa capire fin da subito “Heartless”, con quel suo universo un po’ indie che soffoca la batteria per non rendere il brano troppo dance, eppure profondamente legato ad antenati di un synth-pop che ha messo radici negli anni ’90. Ma nel disco c’è molto altro: witch house, synth-pop anni ’80, new wave, soft dance, dubstep; definizioni a ruota libera che non significano niente, se non ascoltate la dolcezza quasi trip-hop di “Storm” o quella puramente witch di “In A Land”, brano bipolare che si fonda su di un noise molto lento nell’evoluzione della struttura della canzone stessa. E una sorta di spirito dark-decadente aleggia in tutto il disco, quasi se ci fosse un motivo per gioire della caduta dell’elettronica popolare, con noi rimasti soli ad ascoltare gli Aucan che vi fanno ballare però senza godere troppo, un po’ gaudenti ma sempre con i dovuti legacci che ci costringono ad evitare il decollo.
I momenti più esplosivi non si fanno attendere, sobbalzando quasi in preda ad attacchi nevrastenici che durano, quasi sempre, troppo poco (“Red Minoga”) per turbare la sensibilità emotivo-onirica che si crea nelle atmosfere sintetizzate di brani come “Away!”, con quel senso quasi di “allarme” che contribuiscono a creare certi sentori di apnea, semplice amnesia o, addirittura, atarassia. Difficile mandare giù il boccone, forse per l’esagerata congestione di diversi punti di fuga sui quali far convergere l’udito e per questo non consigliati ai fan della minimale o dell’electro-pop sporco di indie di troppo successo. Non solo tonalità scure e un senso di buio (la title-track ma anche “Underwater Music”, esperimento di sommersione sonora affidato al protagonismo poco intelligibile del theremin), ma anche di dispersione, forse perché si vuole alzare il target o semplicemente partire per la tangente senza lasciare punti di riferimento.
Una nota alquanto dolente è quella delle voci, leggermente sotto il livello medio del disco, a metà tra hip-hop di scarsa fattura ed elettronica statunitense, che necessiterebbe di un tocco di classe à-la-Massive Attack per far eliminare i dubbi. A questo penserà, parzialmente, il megaospite Angela Kinczly, in “Blurred”, traccia d’apertura, che rende questo gioiellino del trip-hop una dorata e preziosissima perla che si ricorderà, probabilmente, a molti anni da qui. Sempre che questo disco non finisca dimenticato per quella sua attitudine “sfuggevole” di cui sopra.

Riassumiamo con una formula molto veloce? Personali, autoreferenziali, prodotti benissimo, originali ma un pochino “criptici”, tutto fuorché italiani. Questo sono gli Aucan e non potremo chiedere altro nel duemilaundici-digitale.

Read Full Post »

Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES.com
ETICHETTA: Modern Love
GENERE: dark ambient, dub, elettronica, drone

TRACKLIST:
disco 1
1. Forest of Evil (Dusk)
2. Forest of Evil (Dawn)
3. Quiet Sky
disco 2
1. Caged in Stammheim
2. Eurydice
3. Regolith
4. The Stars Are Moving
5. Bardo Thodol
6. Matilda’s Dream
7. Nothing But The Night 2
8. Library of Solomon Book 1
9. Library of Solomok Book 2
disco 3
1. Black Sun
2. Hashshashin Chant
3. Repository of Light
4. Of Decay & Shadows
5. Rain & Shame
6. Desert Ascetic
7. Viento de Levante
8. Leptonic Matter
9. A Tale of Sand
10. Filtered Through Prejudice
11. Past Is Past

RECENSIONE:
Sarebbe un’impresa titanica riuscire a capire in che modo possa essere concepito un disco del genere. A metà strada tra drone, elettronica dark e ambient, questo Tryptich (che è davvero un trittico, di dischi) è un’irregolarità continua: irregolarità nei titoli, visibilmente separati da quello che potrebbe essere il significato (o qualsiasi cosa ad esso connessa) delle canzoni, irregolarità negli arrangiamenti, che difficilmente potremo definire tali viste sia la loro complessità che la loro inestricabile trama delirante, ed irregolarità in tutto l’aspetto contenutistico puramente musicale. E’ chiaro che dietro un lavoro così ostico da tradurre in una descrizione nitida, o quantomeno funzionante, ci dev’essere qualcuno di geniale. E se lo volete sapere, questa cosa è vera: dietro Demdike Stare si nascondono Sean Canty e Miles Whittaker, e le loro stupefacenti dimostrazioni di abilità compositiva e d’innovazione che abbiamo potuto inghiottire avidamente in Symbiosis solo due anni fa, tornano in toto in un progetto quanto mai ambizioso e stravagante.
Campionamenti bio-techno che non portano da nessuna parte, e che solo dopo l’ascolto dei singoli dischi, prima, e del tutto, poi, si lasciano comprendere, per creare una specie di universo dance che non si può ballare, ma solo ascoltare in distanza. La prima impressione è che una discoteca abbia aperto le finestre e il vento porti il suono con un’eco distorto a venti chilometri di distanza (“Regolith”), prima che tutto questo venga campionato e spalmato su ventitré tracce diverse, profondamente diverse, ma tutte con un’anima molto simile, che fa capo a certi esperimenti drone d’impronta smaccatamente dark che, nonostante siano imparagonabili, possiamo citare solo per far contenti i cliché del mondo della critica musicale (il progetto Shackleton, nei momenti meno danzerecci, che non sono poi molti, e, forse, anche il dark ambient post-gotico dei Nox Arcana, vedasi “Repository of Light”). C’è spazio perfino per le influenze orientali, più o meno indianeggianti, di “Hashshashin Chant”, e per le distese di (delirio)pad come in “Forest of Evil” e nei sotterranei da colonna sonora di “Desert Ascetic”. Sono molto frequenti i riferimenti a tematiche naturalistiche, d’ambientazione o atmosferiche, nei titoli, suggestive vampate immaginifiche che l’ascoltatore può (o non può) cogliere, ma che senz’altro lasciano il segno. “Viento de Levante”, il deserto, la pioggia, il cielo, la sabbia, la foresta, e chissà cos’altro vogliono che ci immaginiamo!
In sintesi, tra impennate, rallentamenti, groove segnati da scontri improvvisi con il niente che li rallentano fino ad estinguerli, quasi un’odissea nel mondo di una macromolecola che si sposta all’interno di un raggio laser (“Rain & Shame”, con quel sound spettral-spaziale), prima lentamente poi sparata all’ennesima potenza ma vista comunque con una lente d’ingrandimento talmente potente da fermare anche il tempo. Sensazioni che sono ascoltando il disco ad altissimo volume possono essere comprese appieno. In sostanza un lavoro di ingegneria digitale, l’ambient come è stata concepita e come pochi ancora fanno, tra le giuste atmosfere dark e quelle che sono solamente oniriche e che non vi aiuteranno a risvegliarvi, con una dose letale di tensione che in momenti come la seconda tranche di “Eurydice” possono produrre disturbi visivi ed acustici. Ovviamente, per scherzo.
Per pazzi, e per persone soggetti alla (auto)musicoterapia.

Read Full Post »