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Archive for the ‘ARTISTA: Il Tempio delle Clessidre’ Category

RECENSIONE ad opera di CLAUDIO MILANO
ETICHETTA: Black Widow Records
GENERE: Progressive

TRACKLIST:
1. Verso l’Alba
2. Insolita Parte di Me
3. Boccadasse
4. Le Due Metà della Notte
5. La Stanza Nascosta
6. Danza Esoterica di Datura
7. Faldistorium
8. L’Attesa
9. Il Centro Sottile
10. Antidoto Mentale

Mi piacerebbe riflettere sul significato della definizione rock progressivo, prima di avvicinarmi a questo disco. Tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta la musica ha subito un’improvvisa mutazione, cercando strade nuove nel suono, attraverso un’innovazione radicale di forma e sostanza.
Il risultato è stata la nascita di un’attitudine progressista al suono che ha invaso ogni genere, dal cantautorato (“Blonde on Blonde” di Dylan) al beat (i Beatles da “Revolver” al “White Album”); dai mod (gli Who di “Who’s next”, “Tommy” e “Quadrophenia”) al blues rock (le strutture ramificate ed espanse dell’Hendrix di “Vodoo Chile” e quelle di derivazione jazz dei Bluesbreakers); dalla psichedelia drammatizzata dei Doors di “The End” e quella fanciullesca dei Pink Folyd di Barrett; all’art rock dei Velvet Underground di “Heroin”; all’hard rock dei Led Zeppelin di “Dazed and Confused” e ai Deep Purple di “Child in time”; al folk di Pentangle, Incredible String Band, Jethro Tull, Roy Harper; il dada rock di Zappa e Captain Beefheart, solo per citare pochissimi esempi di un’autentico big bang che inseminava manifestazioni musicali alla ricerca di una musica “totale”. Una musica utopica, capace di funzionare da anello di congiunzione ideale tra suoni, modi armonici e melodici di ogni epoca. Ogni musicista creava inoltre il suo suono, che era distinguibilissimo e diverso da quello di chiunque altro e faceva ricorso ai ritrovati tecnologici più avanzati. Il progressive oltre ad un’attitudine divenne anche genere e visse una stagione d’oro che si concluse con le magnifiche propaggini del Rock In Opposition di fine settanta, per riciclarsi nei decenni a seguire, in sintesi, su quattro strade. La prima nostalgica e “di genere”, definibile di buon grado “regressive rock”, senza alcun valore artistico e socio culturale ma in qualche caso con buoni esiti artigianali, Marillion, Deus Ex Machina, Finisterre, IQ, Anglagard… La seconda, che del progressive manteneva solo l’attitudine alla commistione di formule, alla ricerca sonora, alla sperimentazione di forma e sostanza musicale. A questo genere è possibile ascrivere Tuxedomoon, The Residents, Tool, Godspeed You Black Emperor!, Radiohead, Sigur Ros, Tori Amos, Kate Bush, Scott Walker, Rachel’s, Tortoise, Battles, Sufjan Stevens, Antony, John Zorn, David Sylvian, solo per fare qualche esempio di band e artisti che dallo spirito originario del progressive molto hanno raccolto. La terza è la ben nota corrente del progressive metal. La quarta è quella di chi, pur essendo parte del genere, lo reinventa creando nuove formule in perfetta adiacenza allo spirito del proprio tempo, un esempio su tutti, gli Univers Zero e gli Art Zoyd.

Detto questo, che senso ha nel 2010 produrre un disco che trasuda ad ogni istante formule così derivative dagli anni Settanta da sembrare un’incisione mai pubblicata all’epoca? Un tripudio di tastiere analogiche registrate in analogico, organi Hammond e Mellotron, testi che cercano di fare finta letteratura sembrando il parto di uno studente all’ultimo anno di liceo classico con qualche problema di troppo con le metriche? Mostruosamente tronfio, ridondante, stucchevole, senza un barlume di personalità, questo disco prepara citazioni in ogni sua piega, Genesis, Banco Del Mutuo Soccorso, Il Balletto Di Bronzo e trova nella voce il suo punto di massima debolezza. Una sorta di miscuglio tra Adriano Celentano, Elio e Max Pezzali, senza avere la contestualizzazione di nessuna delle tre. Piatta e monocorde, si lancia persino in lunghi recitativi da teatrino di scuola media.
Inutile dirlo, stampa e pubblico, hanno accolto l’album in questione, all’unanimità come migliore album di progressive dello scorso anno. Perchè?
Facile, il disco è davvero ben suonato e ben prodotto, per chi ama il genere è godibilissimo e perpetua la sensazione che l’age d’or del genere non si sia mai conclusa. Presenta inoltre tutte le caratteristiche classiche del genere, sinfonismo di facile leva, strutture elaboratissime, forzata teatralità, grande tecnica strumentale, appannaggio in particolar modo di tastiere e batteria, dissociazione dalla realtà. Insomma autentico “regressive rock”!
Eppure come negarlo? Questo esordio del Tempio delle Clessidre, voce e testi a parte (non a caso la traccia migliore rimane a mio avviso la strumentale “Danza esoterica di Datura”, con il suo tenerissimo glockenspiel da teatrino degli orrori), è un ottimo disco, davvero ben fatto, pieno di idee magistralmente condotte, un bellissimo vaso in ceramica che nessuno si sognerebbe di paragonare ad un’opera di Damien Hirst o Maurizio Cattelan, ma che a casa ci sta meglio accanto al souvenir della nonna e al regalo di compleanno kitschissimo della zia.
Il voto conclusivo non può che essere una media tra il valore artistico (capacità di innescare linguaggi nuovi, anticipando ciò che sarà e mostrando i lati meno esplorati della realtà del proprio tempo) della proposta e quello artigianale (qualcosa di semplicemente, “bello”).
Fa riflettere che dischi di signori che la mezza età l’hanno superata da un pezzo, come il recente ultimo Van Der Graaf Generator e il lontano ultimo King Crimson, che il prog l’hanno fatto a loro tempo, suonino decenni avanti ai solchi di quest’album. Loro, pur consapevoli del loro passato, sono ancora progressive, Il Tempio delle Clessidre, come gli ultimi acclamati Phideaux e Pendragon, NO.

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