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Archive for the ‘ETICHETTA: Polyvinyl Records’ Category

Recensione a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Polyvinyl Records
GENERE: Pop, rock, indie

TRACKLIST:
I Got High
Blues to Black
Love is Not Enough
Coffin Companions
The Burial
Bad Blood
Who Cares?
A Fever
Where Do I Begin?
Vivid Dreams

Voto: 3/5

LʼAmi Du Peuple oltre ad essere un giornale fondato in Francia durante la rivoluzione francese, è anche lʼottavo album di Mike Kinsella; lʼottavo della sua carriera solista iniziata nel 2001, che ha visto, se pur lentamente ma in maniera incisiva, una continua evoluzione in ogni nuovo lavoro, merito che trapela anche da LʼAmi Du Peuple.
In questo suo ultimo lavoro Kinsella riprende quello che il precedente Ghost Town aveva lasciato, arrivando ad un livello compositvo decisamente più massiccio alternato a momenti più soft come da tradizione Owen: Bad Blood, Blues To Black ma anche la traccia dʼapertura, che contiene un ottima struttura di batteria, si contrappongono a brani come Coffin Companions, The Burial, A Fever più fedeli alla parte centrale della carriera di Owen.
Love Is Not Enough riprende invece i primi lavori ma in questo caso spuntano degli assoli di chitarra, cosa mai sentita prima.

LʼAmi Du Peuple non è un disco che spiazza ma è ancora un disco evolutivo, che traccia i nuovi passi di Kinsella, in maniera quasi lenta, ma senza mai annoiare

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Recensione a cura di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: Polyvinyl Records
GENERE: Pop, psichedelico, sperimentale

1. Gelid Ascent
2. Spiteful Intervention
3. Dour Percentage
4. We Will Commit Wolf Murder
5. Malefic Dowery
6. Ye, Renew the Plaintiff
7. Wintered Debts
8. Exorcism Breeding Knife
9. Authentic Pyrrhic Remission

Voto 4.5/5

Parlare di un disco non è mai cosa facile, chi scrive predilige comunque dei generi rispetto ad altri, ma cerca di essere il più obiettivo possibile.
Capita poi che ti ritrovi a recensire dischi di artisti che non avresti mai ascoltato, perchè dopo il primo ascolto li avresti relegati (o regalati) in un angolo, in un cassetto che non apri mai.
Sei cosciente del fatto però che certe opere devono essere menzionate, quindi metti da parte le tue fisse musicali, e ti fai guidare dallʼoggettività.
Sai che se parli di Kevin Barnes hai due opzioni: amare la sua opera oppure non essere toccato da ciò che egli compone.
Queste due possibilità vengono unite dal fatto che in ogni caso sei costretto per forza ad apprezzare quello che unʼ artista con la a maiuscola è in grado di fare, indipendentemente dal fatto che a te possa piacere oppure no.
In Paralytic Stalks questo bivio è più presente che mai, ed escludendo i fan, chi è per la seconda delle opzioni, deve cambiare registro stavolta, come ho fatto io.
Non dovete assolutamente far divenire questo disco un soprammobile ma dovete ascoltarlo, non sentirlo.
Ascoltarlo.
Lentamente se necessario, perchè i continui cambi di tempo che allʼ inizio vi sembreranno inconcludenti, i più diversi generi che codesto americano riesce a mischiare così abilmente (pop-indie-hip hop-funky-rock-boh) che sembrano essere unʼ esausta ricerca di un fine che sembra non arrivare mai, la troppa ricchezza sonora (chitarre, pianoforti, tastiere, archi, voci, cori, percussioni, flauti, effetti sonori) che allʼ inizio vi farà ubriacare fino a vomitare, poi vi porterà a vedere il lavoro vorticoso di un artista, di un genio che adopera la musica per descrivere in suoni il proprio tempo.
Ci troviamo di fronte ad un musicista che fa arte, perchè la sua musica è arte, e lʼ arte è per tutti, anche se non tutti vogliono capirla o darle attenzione.
Un genio capace di leggere 50 anni di musica, la storia della musica, farla sua e saperla adattare al nostro tempo in modo magistrale, scomodando nientemeno che Beatles e il Brian Wilson di Smile.
Roba da geni si.
Canzoni allucinate, corte e lunghe, che in qualche episodio spingono volentieri oltre i 5 minuti, se non i 10.
Viaggi, che si dividono in percorsi diversi, per essere uniti in un qualche modo che solo un folle può riuscirci.

Questo è un disco pazzesco.

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