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Archive for the ‘TIPO: intervista’ Category

Carissimi Push Button Gently, benvenuti! The Webzine continua la sua serie di “pleasant talks” (piacevoli conversazioni) intervistando anche voi. Raccontateci un po’, come parte la vostra avventura?
Abbiamo cominciato nel 2006; Io (Giulio) e Nicolo’ ci trovavamo nella nostra saletta e giocavamo con qualsiasi strumento ci capitasse sottomano. Da li abbiamo continuato a trovarci e registrare canzoni, idee, rumori, e con il tempo e’ nata l’idea di cominciare a suonare anche dal vivo, di formare una vera e propria band.

Sono diverse le uscite discografiche che risultano dal vostro Bandcamp. Che tipo di evoluzione sonora vi ha portato dall’esordio alla pubblicazione di URU EP?
Fin dall’inizio abbiamo sempre dato molta importanza all’aspetto di improvvisazione, di spontaneita’ della musica, quindi la musica e’ cambiata molto col passare del tempo, col cambiare degli strumenti usati e soprattutto dei membri del gruppo. URU Ep per noi e’ un lavoro di transizione, ci stiamo staccando dalle composizioni del passato ( con A.DePoi alla batteria e L.Monti al basso, da due anni sostituiti da Natale De Leo e Francesco Ruggiero) e ora abbiamo trovato un nuovo equilibrio, che ci permette di sperimentare e osare di piu.

“Kinnonai” è il titolo di un vostro pezzo recente. Un termine che da una ricerca Google non dà altri risultati se non la vostra canzone. Ci volete parlare di questo brano e di cosa significa?
E’ una parola giapponese che significa indifferenza, e la canzone parla di bellezza, di come si possa essere colpiti nel profondo da qualcosa che in realta’ e’ totalmente indifferente a noi.

Anche voi, come moltissime band, state iniziando ad usare sempre più synth ma non per una banale svolta elettronica, direi più psichedelica. Delle varie definizioni musicali che vi sono state affibbiate (indie, alternative, ecc.) qual è quella che vi sta più stretta e che non vorreste sentirvi attribuita?
Finche nessuno si fissa su una etichetta in particolare direi che siamo contenti!

Si evince dalla vostra storia discografica che avete un sacco di materiale vecchio mai pubblicato. Pensate che in futuro queste perle nascoste possano essere sfruttate in qualche modo?
Non si sa mai, ogni tanto e’ bello rispolverare qualcuno di quei vecchi esperimenti, pero’ di sicuro siamo piu interessati ad andare avanti e scoprire cose nuove, non e’ ancora il momento di fare un “best of”

Qual è il rapporto tra i Push Button Gently e i social? Pensate possano aiutare un musicista a dare diffusione alla sua musica oppure che abbiano influenzato negativamente l’andamento della scena?
Non siamo proprio innamorati dei social, ma e’ innegabile che siano un ottimo mezzo per tenersi in contatto e darsi visibilita’

Oggi per suonare ed imporsi bisogna perlopiù pagare. Booking, uffici stampa, etichette, non investono nulla (anche giustamente) e chiedono che le band acquistino dei servizi. Come vedete la scena musicale alla luce dei nuovi meccanismi che stanno regolando il mercato?
Cambiano i modi ed i mezzi, ma il succo e’ sempre quello, e’ difficile farsi vedere, tutto quello che puoi fare e’ darci dentro e divertirti.

Cosa si deve aspettare il pubblico da un concerto dei Push Button Gently? Se volete ricordare prossime date o prossime uscite, avete tutto lo spazio necessario.
Un sacco di rumore e un bel viaggio per chissaddove, il prossimo e’ a Como con i Bud Spencer Blues Explosion il 30 Agosto (NDR: causa ferie questo riferimento è ormai vecchio, ma lo lasciamo comunque a titolo informativo)

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Ciao ai MasCara. Grazie per aver preso parte a questa intervista con The Webzine. Da vecchi contatti risalenti all’EP “L’Amore e la Filosofia”, conosciamo già il progetto, ma vi chiediamo di riassumere un po’ di punti chiave per chi invece vi stesse scoprendo solo ora. Dove, quando e perché nascono i MasCara?
 
Sarò breve , per quanto mi sarà possibile, (parla Lucantonio Fusaro cantante chitarrista dei MasCara) siamo una band della provincia di Varese nata nel 2007 . Da una piccola idea iniziale (poco a fuoco ad essere sinceri) ne è nata un’avventura che ci ha visti crescere passo dopo passo pubblicazione dopo pubblicazione. Partendo da quel “l’amore e la filosofia” del 2009 che ha fatto da apripista, in termini di recensioni, ci siamo ritrovati a scrivere e pubblicare il nostro primo disco, datato 2012, “Tutti Usciamo di Casa” che oltre a numerosi consensi ci ha permesso di portare in giro la nostra musica per la prima volta con un tour vero e proprio e tante belle aperture prestigiose (Giorgio Canali , Federico Fiumani, il Triangolo, Cosmo , Paletti etc…). Dopo tutta questa strada non potevamo di certo fermarci e quindi ci siamo rimessi a lavoro,mentre pubblicavamo Guerra un ep che omaggiava l’omonimo brano dei Litfiba, ed oggi siamo qui per raccontarvi il resto della storia. LVPI è il nostro secondo lavoro e segna un passo netto in avanti ,per noi naturalmente, sia in termini di scrittura sia in termini di collaborazioni. In tutta questa avventura siamo passati dall’essere super indipendenti (e assolutamente ingenui) a filtrare attraverso le maglie di una major come Universal per poi nuovamente tornare ad una totale indipendenza sopratutto in termini di produzione (mantenendo una certa ingenuità di fondo ma corazzata da una maggiore padronanza dei mezzi). Facciamo musica che guarda all’estero con riferimenti alla new wave e alla musica rock alternativa ma con radici profonde nel nostro paese, da sempre infatti abbiamo raccontato le nostre storie in Italiano, una scelta naturale e non di comodo. 
 
Un paio d’anni fa su questo blog abbiamo recensito “Tutti Usciamo di Casa”, disco che all’epoca apprezzammo molto. Da ascoltatori, abbiamo notato una certa crescita nel vostro nuovo sforzo “LVPI”. Come si può sintetizzare il percorso che vi ha portato fino a qui, passando anche per l’EP Guerra?
 
Visto che ho riassunto in maniera cronologica i punti salienti della nostra storia accennando già ad un evoluzione, posso dirvi che il cambio di passo è sopratutto nell’attitudine: la velocità ha preso il posto delle lunghe code strumentali, l’epicità è stata sporcata da inserti elettronici e graffianti, c’è una generale tensione espressa in maniera più robusta che in precedenza. Forse prima molti ci credevano mainstream oriented, questa volta credo che quest’aura sia stata smontata completamente. C’è più verità (fedeltà di esecuzione) e meno riempimento. Non ci siamo naturalmente dimenticati della produzione, dei dettagli e della scrittura. Ci sono costanti nel nostro approccio ma sono come pilastri per un nuovo corso, questo è certo. Quindi da un’iniziale approccio del tipo “ok possiamo fare tutto nel 2012 visto che ci sono i mezzi tecnologici per poter simulare una sezione d’archi di 200 elementi” a “raccontiamo una storia con ciò che abbiamo ma facciamo comunque in grande, senza tentare di ridimensionare le ambizioni”. 
 
“Secondo il sistema della metafisica aristotelica, il caos può essere definito soltanto come assenza di ordine”. Chi apre il vostro sito sente subito questa frase. Pensate che la vostra musica sia in definitiva “assenza di ordine”?
 
Credo che questo lavoro abbia preso spunto dalla paura e dal Caos: i due personaggi Isaac e Laica (i personaggi della copertina del lavoro) sono immersi in questa città sull’orlo del collasso, un ambientazione urbana fatta di scontri e lotte continue. Mi piaceva raccontare due modi di affrontare questo panico e di vedere che tipo di impatto avesse sui protagonisti. Un movimento che prima li avvicina e poi li allontana definitivamente. E’ una sorta di step successivo a Tutti Usciamo Di Casa anche nella scelta di un unico mood che rappresenta il lavoro, le tinte scurissime, i rumori, i suoni metallici dovevano creare questo ambiente apprimente in cui il caos è dettato dal passo marziale e imprevedibile della sezione ritmica.
 
Spulciando tra le recensioni che i vari critici musicali vi hanno dedicato, “LVPI” è ricondotto spesso a etichette iperabusate come “post-punk”, “new wave”, “alternative rock”. Vi riconoscete in qualcuna di queste? Vi siete stancati di essere etichettati così?
 
Mi stancherei se lo dicessero 200.000 persone, per una dozzina di mesi continuativi, ad oggi è la stampa che racconta e che ha bisogno di “etichette” o meglio di categorie per chiarire ai lettori dove si posiziona un lavoro. Chi parla della new wave non prende mica un abbaglio, ma chi ci liquida solo con quel tipo di movimento si sbaglia. Dico così perchè ci sono tantissimi aspetti che ci allontanano da quell’estetica e ci avvicina a cosa molte più contemporanee. Io ci sento certi Prodigy ci sento i TV on the Radio i Mew  i Clock Opera. Gente che affronta le tinte scure con atteggiamenti più particolari ed eclettici rispetto alla più consueta attitudine marziale e ripetitiva della stranota cordata new wave del passato e del presente. Ma comprendo quando si tirano in ballo gli Editors per esempio e non perchè pensi che sia fico dire “gli Editors italiani” ma solo per un certo senso epico e una timbrica vocale che per forza di cose richiama quella band. Per ora non abbiamo ancora un vestito così stretto da cui dover fuggire , non lo abbiamo mai avuto. Facciamo qualcosa che non è fedele al seme originale pur richiamandolo in più occasioni. Chi ha buon orecchio e voglia di soffermarsi sui dischi lo sente il resto giustamente prende il nome che più somiglia a quello che proponi. Ma fino a che questo non diventa un limite per noi o che non diventa vero, non mi pongo alcun tipo di problema.
 
Al primo ascolto si percepisce distintamente una certa raffinatezza nelle scelte lessicali. Quanto contano le parole in un brano dei MasCara? 
 
Pesano parecchio per me , pesano perchè voglio evitare la faciloneria ma allo stesso tempo non voglio complicare il tutto. In questo lavoro ho tentato di avvicinarmi di più ai personaggi, non volare troppo alto, vedere perfettamente la situazione, scegliere i colori giusti  e sentire gli odori di una città che cade a pezzi. Non so se sia raffinato, credo che sia pensante più che altro, cioè che pone dei quesiti più che dare risposte, che usa immagini decise senza buttarsi nel più classico degli elenchi (che vanno di moda così tanto da essere lo stile comunicativo di politici e mestieranti vari) Il mio intento è quello di suscitare emozioni e per questo lavoro parecchio sui dettagli del testo dopo una prima stesura.Ho bisogno di una storia, come se non mi bastasse scrivere una canzone, e c’è quindi una forma che forse può sembrare anacronistica alcune volte. Sono così certosino che chiudo i brani a ridosso della registrazione se non in registrazione stessa, con ovvie bestemmie di tutti. 
 
Cosa bisogna aspettarsi da un live dei MasCara? Quali appuntamenti di questa estate pensate permetteranno al vostro sound di essere recepito meglio? 
 
I festival sono i palchi più adatti per noi (siamo in 5 di cui il solo Simone alle tastiere si “ciuccia” metà dello spazio a disposizione). I palchi più grandi permettono ai nostri suoni di avere respiro. Coprire tutti gli spazi come facciamo noi , all’interno di ambienti piccoli, può risultare molto controporducente in termini di intellegibilità. Un conto è l’atmosfera un contro è l’intasamento. Non facendo Shoegaze certe sfumature diventano più disturbanti che altro, ed una cosa che mi è pesato nello scorso tour è che molto spesso ci dicevano che non si sentiva la voce. Se canti e lo fai in italiano è fondamentale che si sentano le parole e quindi dobbiamo sempre tener conto che l’intasamento ci mette in difficoltà sotto questo aspetto. E’anche vero però che l’esperienza ormai ci ha resi elastici e a seconda della situazione siamo abbastanza sicuri di cosa sacrificare e tenere a bada. Dai live dei MasCara oggi vi dovete aspettare un bell’impatto iniziale e una tensione che rimane costante e viva come nel disco, è una corsa in un tunnel e noi vi diamo la caccia senza mai mollare un solo istante.
 
In questi tempi di crisi nera per la discografia e per la cultura in genere, una crisi forse più profonda di quella economica di cui tanto si parla, cosa pensate debba fare un progetto come il vostro per emergere e distinguersi? 
 
In primis stare in piedi. Nonostante le numerose difficoltà e le mancate occasioni devi rimanere ancorato a terra. Se non ce la fai (mi capita spessissimo) mandi all’aria tutto.Io devo anche ammettere che non sono per un lavoro da formichine che piano piano raccolgono le bricioline e ne fanno tesoro , come spesso si sente dire nel nostro ambiente (manco fosse stato scritto sulla Bibbia), sono per i passi giusti e gli azzardi. Ogni tanto per portarti la mano vincente a casa devi provare a fare un salto inaspettato ed imprevedibile. Non puoi sempre lavorare sugli scarti. Mia mamma mi raccontava sempre la storia della cicala e la formica, di tutto quel cantare e rosicare, ecco a me la formica mia stava sul cazzo da sempre, quindi non ce la faccio sempre a fare quel tipo di ragionamento. Per emergere devi osare, che non significa fare l’asino o fare il colpaccio, ma avere il coraggio di rimanere sulla tua idea e dimostrare di stare in piedi e di credere in quello che stai facendo anche se ti dicono che sbagli. 
 
Secondo voi è un problema più grave la sovrabbondanza di band o la poca cultura e predisposizione all’ascolto del pubblico medio italiano? Non avete l’impressione che la musica sia ascoltata più per abitudine che per passione e che a poche persone interessino i testi e il songwriting nel 2014? 
 
Tutti abbiamo perso il valore dell’arte. la musica è intrattenimento ma è anche arte e non si può sempre oscillare tra i due poli a seconda di come ci fa comodo. Provo a spiegarmi meglio: non  è solo ego o espressione di un esigenza personale è anche un dono verso l’arricchimento culturale che fa bene all’artista stesso ma anche alla società in cui vive. Non è essere utopisti è piuttosto il  cercare equilibrio tra campare (fare i soldi) e donare qualcosa che resti dopo di te nel senso più alto del termine. Poi se decidi che le tue cose sono come farfalle che vivono un giorno, libero di farlo, per me è un discorso più grande invece. Credo che quasi tutti si siano rassegnati a guardare all’oggi perchè il futuro è una merda e cose del genere, ma  io personalmente , mi sono stancato della filastrocca e quindi non mi pongo la questione  Troppe band + ascolto passivo = fine della musica. Credo che manchi il concetto di qualità. Se lo chiedi in giro nessuno ti da una risposta ed è abbastanza un problema a mio modo di vedere. Se non hai idea di cosa nel 2014 sia un prodotto di qualità (con tutte le implicazioni e sfumature che può avere un concetto come questo) è un problema grosso poi valutare un progetto. Oggi in Italia si fa quello che si è sempre fatto: ascolti in media la pancia e vai con Dio. Se gli italiani usassero il cervello non saremmo mica il buco del culo del mondo. “lottare” per mettere i puntini sulle i piuttosto che urlarli è un dovere che mi pongo come persona in primis anche se so che alla fine gli ascoltatori italiani in media ragionano con lo stomaco. 
 
Pensate che il mondo della critica musicale sia utile all’affermazione di un progetto come il vostro? Cosa devono imparare i recensori prima di parlare di un disco, secondo voi?
 
Credo che sia un attore indispensabile perché fa parte del gioco:   è come se mi chiedessi se ha senso nel gioco degli scacchi la figura del cavallo. C’è e ha un suo peso specifico a seconda di quanto tu vali come giocatore. Naturalmente poi si possono fare delle considerazioni in merito alla bravura o alla cura che la critica mette in gioco nel recensire un disco, ma siamo su un piano diverso. Se sei una band emergente senza un suo pubblico diventa indispensabile ricevere i giudizi della critica, forse risulta meno indispensabile se puoi permetterti di far valutare al tuo pubblico il tuo operato. 
Ultima domanda: siete soddisfatti di come il pubblico italiano reagisce alla vostra produzione discografica e ai vostri live? Pensate che altrove potrebbero esserci condizioni più o meno favorevoli di quelle che ci sono qui? 
Scrivendo in italiano non ci siamo mai posti il quesito sinceramente. E’ pur vero che se fai un confronto con l’estero siamo indietro chilometri, ma lo siamo in generale su tutto, perché per la musica dovrebbe essere differente? Quello che non capisco in alcuni casi è quando si parla di progetti italiani derivativi. E’ ovvio che tutti ci si ispiri alla cultura dominante, altrimenti non sarebbe Dominante! Mi fa sorridere quando si dice che certi generi non siano adatti in italiano e che così facendo si scimmiottano magari gli inglesi o gli americani. Io trovo che avere per forza un progetto cantato in inglese (perchè suona meglio etc…) così ti confronti con l’estero è solo un ennesimo ed estremo atto di sudditanza, che è peggio che lo scimmiottare. A mio modo di vedere vuol dire che preferiresti essere nato inglese piuttosto che italiano e personalmente lo rifiuto. Un americano ti porterebbe via le conoscenze culinarie ma mai mai e poi mai cambierebbe la propria origine con quella di un francese o un’inglese o un italiano. In definitiva preferisco fare mio il meglio che viene dall’estero , cioè il massimo che posso ricevere da una cultura differente dalla mia , e capire se ci sono i termini per renderla una ricchezza aggiuntiva a ciò che già posseggo. 
 
Ad oggi sono molto contento di quanto raccolto ma la fatica è tanta e a volte la rabbia o la delusione è dietro l’angolo. Devo anche dire che il più delle volte questa fatica è sana e ne veniamo fuori sempre rigenerati e più forti, ricevere tante recensioni e aver avuto subito una buona dose di live ci ha subito dato la giusta dose di fiducia per fare sicuramente una grande stagione. 
 
Grazie per aver preso parte a questa intervista, per noi è sempre un piacere ascoltare la vostra musica e di conseguenza anche poterne parlare con voi. A presto.
 
Grazie mille 

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Il nuovo video della pluripremiata band islandese Hjaltalin, Crack In A Stone, è uscito qualche giorno fa e noi ve lo mostriamo

La cosa più fica è però che abbiamo avuto modo di intervistarli (in lingua inglese, così fate pratica…) e quindi, ecco il risultato.

Hi, thank you for this interview. Let’s start with a bold question: is there a strong connection between the Icelandic climate and the music that you and other bands from there make?
It is probably easier to link our music to our country, the landscape and the climate. We just make music, and we happen to live in Iceland and this is where we grew up. It must have inspired us in a way but we don’t think about that much and it doesn’t affect our work

Is Reykjavik a great place where to explore your creative instinct or do you feel like you need to export your music everywhere bringing other influences to it?
Reykjavik is a wonderful city for artists and creatively thinking people. The size of the city makes it easy for people to connect with others, everything and everybody is easily accessible. There are lots of interesting things happening in music and in arts in general. But on the other hand we live in this little remote island, and going abroad, seeing different places and people, exploring different kinds of music and influences is very important for us. Getting feedback from others, reaching new audience and ears is very healthy and important and that is of course our goal.

Your new record, Enter 4, is coming out these days. What can you tell us about the conception and the recording of this album?
We worked on that album for quite a long time. After a few working sessions in various places outside of the city we felt like there was enough material for us to work with. We took two weeks in October, looked ourselves in a studio, worked long days and nights finishing those nine songs on Enter 4. We somehow managed to finish the album without hardly anyone knowing we were working on new material. So the album came as a surprise to both the public and the press. This intense work, and the fact that we wanted to keep it to ourselves – to keep it a secret – made the making of Enter 4 quite interesting. The atmosphere was tense and mad, but at the same time full of warmth and excitement. What happened in the studio is just between us and those working with us. There was some inexplicable magic in the air.

Yoonha Park directed your last music video, Crack in a Stone. How was this video conceived and how did you get to know this great director?
Yoonha is Rebekka’s boyfriend. Rebekka is our bassoonist. It is a simple as that. An easy task. Yoonha came up with this brilliant but simple idea – and the result is a brilliant but simple video.

You have played live with some orchestras and ensembles too. After this experience, do you think that those performances could belittle your common shows or was it enhancing for your band?
It is just totally different in all respects. Such a fun doing it, but the last year or so, we’ve been focusing on the 7-piece act, which is really the core and heart of Hjaltalin.  I think we could do some more orchestral shows, because that brings a wonderful set of possibilities, but in no way does it belittle the normal Hjaltalin set. The normal set has a kind of intimate energy that is impossible to replicate in a larger setting.

In an interview with The Quietus, when they asked you if the new album was “electronic music”, you answered that it wasn’t. Any suggestion of how should we call it instead? The “clinking” sounds you cited have quite a “glitch” effect in some songs. Do you identify with this definition in some way?
Well, I guess you need to call these things something, but while we are making them, we are not thinking about that at all. With Enter 4, we just wanted to make a record which combines our influences to a whole. On the other hand, it is a normal tendency to categorize and define things. I guess it is a pop/rock album with electronic influences (trip hop for example), but that doesn’t say anything, does it?

In 2011, you’ve been in Italy for a few dates. How was the audience? Would you like to return here soon? (Some spoilers are suggested!)
The Italian audience was great. We felt very much at home in Italy. We played a very memorable gig in Milan, a concert we often refer to when discussing our best gigs. We would love to come back soon, how could we not? We bring ourselves and our music, you supply good people, good vibes and some of your excellent food and wines. OK?

You recorded a cover version of Beyonce’s song, “Halo”. Why did you choose this song? How was your cover received from fans and critics?
We were asked to do a live performance in the national radio station, Ras 2. They asked for three songs, two of our own and a cover. We picked this Beyonce song simply because we had played it a few times for fun in concerts. We wanted to do a traditional well-known hit-song, strip it down and try to make it fit our soundscape. We put it on YouTube few months later. It was very well received and became a hit in Iceland. Honestly, we had not expected that, but it was a nice and pleasant surprise.

A question for reviewers like me: does a band like Hjaltalin find reviews important? Do you read them? Do you ever feel like some critics don’t actually understand your music?
Reviews are important just as the informal reviews you get from your best friend, your mom, that stranger you meet at the bar or that somebody who writes shit about you somewhere on the internet. A good and well written review will though more likely dig into the subject and try, and put it in context with other stuff and music. Negative reviews can be just as good as the positive ones. That is, if you see and feel that the critic has taken some time to really listen and at least tried to understand. You can’t expect everyone to love and admire your work, and you shouldn’t – but getting some feedback must be important. It shows that what you do means something for somebody – whether it pleases them or upsets them.

Thank you for your time. Let’s hope we see you soon in Italy. Bye! 

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L’ormai storica band texana dei Balmorhea sarà di nuovo in Italia nel tour di presentazione dell’ultimo disco, Stranger. Le date in questione sono le seguenti:

02.10.2013 – Raindogs, Savona
03.10.2013 – Init, Roma
04.10.2013 – Cortile d’Onore, Carpi (MO)
05.10.2013 – Bronson, Madonna dell’Albero (RA)
06.10.2013 – Apartamento Hoffmann, Conegliano Veneto (TV)
07.10.2013 – Blah Blah, Torino

In occasione del tour, siamo riusciti ad intervistarli. Ecco la nostra “piacevole conversazione” con i Balmorhea, in inglese, mentre quella in italiano verrà pubblicata tra qualche giorno!

Hello. Thank you for taking part in this interview. I didn’t want to ask you how and when was your band born so I chose to simply ask you WHY did you choose to form it?

Michael and I chose to start the band because we simply wanted to play music together. We had each been working on some simple and quiet music individually and wanted to see if we could help each other fill our songs out.

You are currently touring to promote your latest record, called “Stranger”. Are you satisfied with the reactions you had from reviews and fans? What are the main differences from Stranger and everything you produced before?

We have been very satisfied with the reactions from fans and the media! Stranger is a bit different from some of the previous music we have made. Most notably, it is quite different from the preceding record, Constellations, which is a quiet and somber affair. We have always made it a point to constantly be moving our music in new directions, not allowing ourselves to get stuck doing the same things over and over.

Is Austin, or Texas in general, an area where you could find great influences for your music? Are there any bands, still active maybe, that have been important for your sound?

While there are many great bands from Texas, and Austin in particular, I don’t think there are any specific artists who I could name as being important for our sound. Because that might be misleading. There is music we love from Texas and from all over the world that somehow gets distilled and filtered and mixed and recombined to become our own.

Your genre have been called in so many ways that it’s now impossible not to ask you…what do you think about that? how do you define your music? Is “chamber music” a good definition or not?

The problem is that we continually are making different types of music. Some of our music could be called “chamber music,” but that would be a relatively small percentage of what we have created. Some could comfortable be called folk, some called rock. Someone called our music “music of dreams” which I thought was cool. In the most basic sense, it is pop music, in so much as it is not academic music, not stridently avant-garde and works with popular music instrumentation and structures.

In the past, Balmorhea did a great work with music videos too. One that particularly impressed me was Mike Anderson’s directed one, “Candor”. Do you recall any interesting detail about the concept of that video? Are music videos important for the music you make as they are for pop music or not?

Thanks, we like that video for Candor as well. We had seen some of Mike Anderson’s other work and liked it a lot. We knew we wanted something a bit strange and other-worldly to visually represent Candor and he seemed like the right fit. We discussed a few basic thematic ideas with him and then he did it from there. He created all the sets and costumes and everything himself. It’s pretty fantastic! I’m not sure how important music videos are, but we do like working with other artists to give a visual representation to our music.

In 2011, you recorded a live concert inside a church, and released it as Live at Sint-Elisabethkerk. How did the idea of recording inside a church come to your mind and do you feel that the environment added something more to your music? Is that why you chose to record a live there?

We were asked to play in that church on a tour a few years ago and we decided on a whim to record the show. It is such a cavernous space and the atmosphere was so strange and unusual (it was so cold that we could see our breath) we new that it would be a special night. At the time we had no plans of doing anything with the recording other than listening to it to see how it sounded, but once we heard it we new that we wanted to share it. That show also came at a liminal moment for Balmorhea and represented pretty well where we had come from and where we were headed at that time.

Members of Balmorhea work outside the band too. Do you feel that the external experiences (like Aisha Burns’ solo project) can mean a further exploration for Balmorhea too?

We are super excited for Aisha and her new record! I think any time individual members grow and try new things its bond to have an effect on the band. What that effect will be remains to be seen. For example, as Aisha has grown more comfortable singing in the past few years we have been able to incorporate her beautiful voice into more Balmorhea music.

I’ve seen you tour Italy more often than I could imagine when I first listened to your music. What are your feeling about playing here? The Italian audience often polarizes comments: you get someone who particularly loves it and other totally hates it because it seems to be noisy and maybe not interested in music. Do Balmorhea have their own opinion about this?

We love playing in Italy. There is something so warm and receptive about the audiences there. Pretty much everyone we have met treats us like family, cooking meals for us, sharing the best grappa.

Do you recall any strange, interesting or simply noteworthy fact about your last dates in Italy? You were here last March, right?

We had an amazing concert in Foligno at Auditorio San Dominico. In the US you would very rarely get to play in such an old and beautiful space. It was special. We also are starting to think of Init in Rome as one of our favorite stops in Italy, as well as Bronson in Ravenna, both of which we are excited to play again on this tour!

What is the best country where to play, according to your touring experience by now? And where would you love to bring your music but you didn’t have the occasion yet?

We love playing everywhere. some of our best audiences are in Italy, Spain, Belgium Istanbul and Russia. We would love to perform in Greece, Australia or anywhere in Asia. But truly, we want to perform everywhere!

Thank you for having taken part in this very pleasant conversation. Let’s see you in one of the future Italian dates!

Thank you!

Ecco l’ultimo disco Stranger su YouTube

si ringrazia Ja.La Media Activities per averci messo in contatto con la band

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Recensione  e intervista a cura di Enrika S.A. Scream

LIVE REPORT

Dopo aver visto MTV Spit 2013, non ce lo fai un giro a vedere Shade live? Ovvio. E quindi io e la mia amica alle 20.30 del 7 settembre siamo a Cologne, in provincia di Brescia a vedere se Shade è veramente così bravo come sembra in TV. E la risposta è sì. Ma andiamo per gradi.

Il locale a quell’ora è già pieno, non chiedetemi il motivo. Noi entriamo convinte, chiediamo dell’artista per l’intervista. Ci chiedono se possiamo aspettare una mezz’oretta, sta ordinando da mangiare. Rispondiamo di sì, tranquille, tanto, mica cambia qualcosa. Poi arriva lui e ci dice che vuole aspettare, che intanto ordina, ma prima di cenare vuole fare l’intervista. Ci chiede chi siamo, di dove siamo, e per che rivista scriviamo. E già qui mi fermo e vi dico che in tre anni da giornalista non mi sono mai, e dico mai, sentita chiedere da qualcuno ‘per che rivista scrivi?’ e tanto meno chiedere cose su di me. Mai. Senza contare che esistono anche persone che mangiano tranquillamente mentre tu gli parli o che non ti dicono niente e spariscono, lasciandoti a metà. Vabbè, lasciamo perdere; diciamo solo che il ragazzo ci piace. Comunque, iniziamo, tra battute e scherzi in poco tempo finiamo e lasciamo che Vito possa cenare, ma solo con la promessa che ci rivedremo dopo.
A questo punto abbiamo tempo di guardarci intorno e di analizzare l’ambiente. Questo è un locale dove, quando ci venivo spesso, tipo uno due anni fa, ci giravano le migliori persone. Ci ho visto band bravissime, rock, metal, pop e anche rap. Adesso che mi guardo intorno vedo solo ragazzi e ragazze con massimo 12 anni, con vestiti decisamente molto discutibili e l’immancabile alcolico in mano. Della musica proveniente dall’interno del locale ci salva dal pronunciare ulteriori pareri non ripetibili: la battle freestyle è iniziata e non vogliamo perdercela.

Entriamo, il locale è pieno e i freestylers si passano il microfono l’uno all’altro. Non so dirvi bene come è andata la sfida, in realtà, per il semplice motivo che ho visto solo la prima selezione e su circa dieci che hanno cantato, me ne è piaciuto uno (e neanche tanto), quindi ho abbandonato l’impresa. Sinceramente mi aspettavo di trovare qualche piccolo talento, o boh non lo so. Invece niente. Peccato. Visto che, oltretutto, c’è anche pieno di gente che ci guarda male (?!), usciamo e aspettiamo che prendano posto Rew e Shade. Dopo un tempo interminabile, rientriamo. Il locale è pieno. Ci mettiamo in prima fila, io sul palco a fare le foto. Il concerto non dura molto, circa un’oretta, ma il duo dimostra di aver grinta fin dall’inizio. Il pubblico, confermando la nostra ipotesi di ‘persone senza gusto’, diminuisce, ma chi rimane è in estasi. Rew e Shade non si lasciano scoraggiare e continuano a richiamarlo all’attenzione e a coinvolgere la gente, ora urlando di cantare, ora di alzare le mani. Sono proprio bravi. Decisamente troppo presto, il concerto finisce, ma prima di scendere dallo stage, i torinesi dedicano un po’ di tempo al freestyle. E in realtà, se fino ad adesso sono piaciuti, beh, è in questo momento che ti innamori, perché è nel freestyle che vedi la vera bravura dell’artista. Che Shade avesse una vena comica lo sapevo, che facesse veramente ridere no; e idem Rew. Che piacevole scoperta! I ragazzi si sfidano, prendono oggetti dal pubblico, ci rimano sopra, poi li restituiscono. Come gran finale Rew prende addirittura un ragazzo dal pubblico. Se dovessi dare un voto da uno a dieci, sarebbe undici. Sarà che io magari avevo delle basse aspettative, ma mi hanno proprio sorpreso.

Alla fine del live, i rapper scendono dal palco per fare foto e autografi ai fans. Io passo molto alla svelta a complimentarmi e a salutarli per l’ultima volta, con la promessa di vederli presto in provincia.

INTERVISTA A SHADE

Bene, iniziamo. Come prima cosa ti dico che non voglio farti un’ intervista noiosa, ma preferisco andare a fondo, scoprire il vero Shade. Quindi, presentati.

Sono un coglione, ho 25 anni, sono di Torino. Studio, o almeno mi piace dire che studio recitazione in una accademia. Siccome sono un ragazzo molto egocentrico, il rap non mi bastava e ho incanalato tutto il mio egocentrismo nella recitazione. Ho anche fatto e faccio tutt’ora il comico. Direi che con ‘sono un coglione’ avevo riassunto bene la risposta.

Sappiamo che i tuoi interessi sono molto ampi. Ho sentito che fai anche il comico. Hai iniziato prima a fare quello o hai iniziato prima a fare rap?

No, ho iniziato prima a fare rap. E’ nato abbastanza per caso: ho sempre avuto un’attitudine molto comica, anche nei live, nei pezzi: racconto sempre cazzate, storielle. E’ successo per caso, due o tre anni fa, allo Zelig, mi ero trovato lì, ad un contest, avevo vinto e fatto amicizia con i comici. Quindi, gli ho fatto leggere un po’ di roba che scrivevo io e abbiamo fatto delle serate insieme. E da lì ho iniziato a fare lo stand-up comedian.

Quindi non hai abbandonato quel mondo?

Al momento sono così preso dalle faccende musicali, che non riesco a dedicarci molto tempo, però sto lavorando anche a quello. Vorrei girare una webseries, insieme ad Alessandro Regaldo, il mio sceneggiatore. Lui mette le cose serie, io le cazzate, così esce una cosa decente.

Da Zelig al freestyle però è un bel salto, soprattutto insolito. Come ti sei avvicinato a quel mondo?

Beh, a 16 anni, andando in skateboard, che cosa ascolti? Ascolti rap. Ero fan di Eminem (e lo sono tutt’ora), e avendo visto 8 Mile, ho visto le battle freestyle e mi sono innamorato di quel mondo lì. Anche perché, oltre a essere egocentrico, io sono anche uno stronzo, e mi diverto un mondo a prendere in giro la gente: fare le battle freestyle è stato il passo successivo. E mischiare comicità e rap è stato così spontaneo che non saprei dirti neanche come, è proprio come sono fatto io.

Ora, vero che la musica viene prima di tutto, ma è anche vero che il come con cui ti presenti lascia la prima impronta nella mente dell’ascoltatore. Come hai scelto il tuo nome d’arte?

Mi sono studiato tipo una ventina di spiegazioni strafighe sul mio nome. La realtà è che mi piaceva come suonava. No, vabbè, c’è questo discorso dietro: volevo chiamarmi Fede, ma c’era già uno che si chiamava così a Torino, nei Lyricalz, un gruppo rap storico degli anni ’90, che è stato il periodo d’oro del rap. E io, che comunque ho iniziato a rappare nel 2005, li ascoltavo e avevo grande rispetto, quindi non mi sarei mai permesso di chiamarmi come uno di loro. Poi c’era Yoshi, che era Tormento dei Sottotono. Allora ho fuso Yoshi e Fede ed è uscito Shade.

Cioè tra Yoshi e Fede ti è uscito ‘Shade’?

Sì! Lo so, è una cazzata clamorosa. Però una volta un tipo viene e mi dice ‘Ti chiami Shade perché significa ‘peccato’ in tedesco?’ e io ho detto ‘Sì, mi hai beccato.’ Mi piaceva molto di più.

Una delle più grandi soddisfazioni che tu abbia mai provato immagino sia stata vincere MTV Spit 2013. Come è stato? Te lo aspettavi?

Ti sembrerà da Miss Italia la risposta, ma non me lo aspettavo veramente. E se devo dirti come è stato, la parola che riassume tutto è ‘emozionante’. E’ stata davvero una bella emozione che non ho ancora metabolizzato. Probabilmente se prima di Spit fosse arrivato uno Shade dal futuro, con la Delorean, a dirmi ‘Oh! Guarda che lo vinci tu Spit!’ mi sarei messo a piangere e gli avrei risposto ‘Ma vaffanculo non è vero.” Invece, dopo aver vinto, non ho mai avuto quella roba da dire ‘Minchia, ho vinto.’ Cioè, non mi è mai balzato in mente, non l’ho ancora metabolizzato. Però è stato bello. È stato diverso dalle altre battle, perché quando hai delle telecamere davanti è tutto diverso, hai una pressione differente.

E come è l’ambiente?

Guarda, ti dirò la verità: ti mette nella condizione peggiore. Sei uno che deve improvvisare. Stai lì dalla mattina fino alla sera, non sai su cosa dovrai rappare, cosa dovrai dire e, insomma, stare lì così per otto ore ti spegne un po’ la fantasia. Fortunatamente è un programma con il pubblico, quindi se sei un rapper, il tuo istinto è di prendere il pubblico, far prendere bene la gente. Quello ti aiuta molto. Se non ci fosse il pubblico sarebbe deleterio, quindi diciamo che il fatto che ci fosse molta gente mi ha stimolato molto.

E cosa fate dalla mattina alla sera?

Eh, ti mandavano lì dalla mattina. In realtà poi preparavano lo studio, facevano le prove con i check, arrivavano i guest. Quindi era necessario essere lì dalla mattina.

A dirla tutta, hai vinto un sacco di soldi, 5 mila euro se non erro. In cosa li hai spesi?

Sono ancora lì, illibati, nel forziere di MTV. Non lì ho ancora spesi.

E non hai idee?

Guarda, mi sono ripromesso di fare un regalo a mia madre, ma ancora non le ho preso niente. Sono un pessimo figlio. Non so neanche cosa regalarle, anche perché mia mamma ha dei gusti di merda, quindi per farla felice dovrei regalarle un cd di Gigi D’Alessio e entrare in un negozio a prendere un cd di Gigi D’Alessio per me è una vergogna. Metti che mi vede qualcuno!

Magari ti riconoscono.

Eh sì! No, comunque, pensavo a un viaggio. Magari a Los Angeles a fare un giro agli Actor Studios.

Se ti serve qualcuno che la accompagni mi offro.

Il posto c’è.

Spit non è l’unico concorso che hai vinto. Ci sveli il tuo segreto? E’ tutta farina del tuo sacco o hai degli oggetti o dei riti porta fortuna?

Non ci sono rituali particolari. In realtà quello che secondo me mi fa vincere è il fatto che mi diverto. Quello è il segreto. Tanti rapper con cui mi incontro sono tesi, concentrati sul far prevalere la loro personalità. Io sono tranquillo, sorrido, mi diverto e mi diverto ancora adesso a fare freestyle alle serate. Avendo vinto Spit, arriva sempre il rapper di turno che ti dice ‘ti voglio sfidare’.

Hai detto che c’è sempre qualcuno teso sparaci qualche nome, dai! Fai un po’ di gossip.

(Walter, in parte a Shade): Emis Killa.

Emis Killa?

Mah, io con Emis ho un bel rapporto. Cioè, adesso non ci vediamo da un po’, forse un annetto. Però con lui mi sono sempre trovato bene. E’ un ragazzo che tanti dicono ‘Se la tira’ eccetera, ma magari lo hanno solo conosciuto in certe situazioni dove c’è la pressione del tour manager, della data e tutto. In realtà è un ragazzo molto tranquillo, con lui ti diverti anche a fare freestyle.

E gli altri di Spit invece? Tipo, non so, Ensi, Nitro..

Io quando sono arrivato a Spit loro li conoscevo già tutti. L’unico che non conoscevo con cui mi sono sfidato era Debbit, e tra l’altro, è stato una piacevole scoperta, perché mi sono trovato bene a fare freestyle con lui, è simpatico, ironico, eccetera. Ti dirò, ovviamente, il miglior freestyler di quelli che sono stati a Spit è Ensi, abbastanza scontato. Un gradino, ma proprio un briciolo sotto Ensi, ci metto Kiave.

Quindi, Ensi sopra tutti?

Ensi sopra tutti. Subito sotto, Kiave.

Stai riscuotendo un successone. Quali sono i prossimi progetti? Qualcosa riguardo il freestyle, undisco da solista, un tour o che altro?

Ci sono tutte e tre queste cose. Ho un disco da solista in lavorazione: l’ho scritto tutto, lo devo solo registrare. Ovviamente non posso svelare quali sono i featuring, quali sono le produzioni.

Ci speravamo.

No (ride). Sono tutti artisti che stimo tantissimo, mi sono tolto i miei sogni di quando ero un ragazzino.

Dai su, dicci qualcosa! Abbiamo tutte e due sedici anni. Vabbè la mia amica un po’ di più.

(ride) Diciamo che uno di questi è il mio rapper preferito. Gli altri sono rapper che stimo tantissimo, che mi hanno sempre emozionato. Invece, per quanto riguarda il freestyle: se va in porto questa web series, in ogni puntata ci sarà il mio momento freestyle. Poi ho in programma anche dei video virali, in cui farò cazzate in giro. Quello che mi riesce meglio.

Per ultimo, ti faccio una domanda diretta al concerto di oggi. Che cosa ti aspetti dai fan bresciani? E dai freestylers?

Mi aspetto un livello abbastanza alto dei freestylers, anche perché quelli del nord sono tutti molto improntati sulle punch-line e difficilmente sono come quelli deil sud, che fanno freestyle più tranquilli, più chillin’, usando un termine tecnico. Mi aspetto una battle in cui ci si scanni abbastanza, mi voglio divertire. Per quanto riguarda la gente, sono sicuro che saranno caldi.

Grazie mille per il tuo tempo! Ci vediamo più tardi.

Figurati, grazie mille a voi.

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Ciao Niksox e grazie per aver accettato di prendere parte a questa intervista. A The Webzine vogliamo realizzare qualche intervista un po’ diversa su artisti emergenti del territorio, lasciando perdere discorsi relativi a singole canzoni o a singoli dischi della band, focalizzandosi magari sulla visione della musica e della scena che la band ha. Per questo le domande saranno un po’ generiche.
Partirei subito chiedendovi questo…perché pensate di essere una band valida?

Intanto grazie a te per l’occasione fornitaci. Pensiamo di meritarci del pubblico fondamentalmente perché ci divertiamo. Credo che chi suona divertendosi e non prendendosi troppo sul serio risulti anche più comunicativo verso chi ascolta. Ogni tanto mi capita di assistere a serate in cui band che venderanno sì e no 100 copie del loro cd e principalmente ad amici si atteggiano come fossero i Tool e magari riescono pure ad essere scortesi nel dopo concerto se gli fai una domanda o un’osservazione. Credo che data l’attuale scena musicale italiana(?) sia giusto considerare tutto nella giusta ottica: divertirsi, offrire un buon spettacolo, metterci il massimo dell’impegno, essere professionali e sentirsi un po’ meno delle rockstar.

Sicuramente la scena italiana pecca in molti aspetti. Poca gente va ai concerti, quando le band iniziano ad essere affermati chiedono cachet esorbitanti e chi sta dietro le quinte per guadagnarci tanto spinge per avere prezzi altissimi ai concerti, la Siae (ricordiamolo, deve un miliardo di euro tondo ai suoi iscritti…) fa di tutto per impedire a locali e band di concorrere a migliorare la situazione, limitandosi a salassarli, e le cover band spopolano. Problemi di natura economica, di natura socio-culturale (poca educazione del pubblico) e molto altro. Secondo voi perché la situazione è questa? Cosa si può fare per cambiarla? Pensate di soffrire in prima persona di questi problemi a livello di band?

Mi ripeto: la situazione è quella che è. Sicuramente è giusto ‘boicottare’ i locali che pretendono di non pagare i gruppi e non riconoscono tutto il lavoro e le spese che ci stanno dietro.
Dall’altra sarebbe ora di svincolarsi dal carrozzone SIAE e da tutti quegli oboli inutili che affliggono il diritto d’autore. Le scelte alternative (creative commons, copyzero…) esistono e danno le stesse garanzie dell’agognato bollino SIAE. La cosa che fa male è vedere come un gruppo che prima lotta per tutto questo, appena trova un’etichetta che lo produce, se ne sbatte di quale siano le condizioni al contorno e si dimentica di tutti gli altri. Ovvio che il problema culturale è forte: quando riusciremo a far capire che chi suona non è solamente uno scapestrato che non ha voglia di lavorare, ma un vero e proprio professionista dell’intrattenimento buona parte degli attuali problemi saranno risolvibili.
Noi facciamo poche date all’anno(circa una ventina), ma cerchiamo di sceglierle con cura. Suoniamo cioè in locali o contesti in cui siamo sicuri di essere a nostro agio e in cui ci venga riconosciuto quello che facciamo.

Sono anni che musicisti e lavoratori del settore un po’ più svegli (o perlomeno un po’ più altruisti) decidono di coalizzarsi in piccole associazioni radicate sul territorio per provare ad aiutarsi. Che ne pensate di questo tipo di associazionismo tra amici? Produttivo o autodistruttivo? E come mai secondo voi molte esperienze finiscono dopo poco tempo senza tanti risultati?

L’idea è ottima. Partecipiamo anche noi con grande entusiasmo ad alcuni gruppi e cerchiamo sempre di dividere la serata con almeno un’altra band. Al di là di differenziare la proposta ed attirare più gente questo aiuta anche a creare delle vere e proprie amicizie che poi durano negli anni e danno vita anche ad altre collaborazioni (nel nostro caso penso a gruppi amici come Treremoto o L’abat-jour piuttosto che The Great Northern X).
Il problema nel dividere le date è che succede che qualcuno voglia sempre fare l’headliner o abbia atteggiamenti poco costruttivi e questo contribuisce ad affossare quanto di buono si cerca di fare assieme.
Ci tengo a dire che da parte dei Niksox c’è sempre massima disponibilità a condividere e portare avanti buone idee.

I Niksox prediligono suonare su un palco o focalizzarsi sulla composizione? Quale dei due lati pensate venga più apprezzato dal pubblico e perché?

Come la maggior parte dei gruppi il live è quello che ci dà la carica e prediligiamo situazioni dal vivo. E’ palese che per fare una buona figura dal punto di vista live c’è molto molto lavoro in sala prove nella parte compositiva. Il pubblico è molto meno ‘pecorone’ di come spesso viene disegnato e se il lavoro dietro è scadente o approssimativo fa molto presto ad accorgersene e, di conseguenza, non ti segue più.
Motivo per cui i due aspetti (live e compositivo) sono indissolubilmente legati.

Cosa c’è nel futuro dei Niksox?

In questo momento siamo ‘fermi’ dal punto di vista live per dedicarci più alla parte compositiva, in quanto entro l’anno vorremmo fare uscire il nostro primo LP. Abbiamo all’attivo due EP, ma pensiamo sia ora di muoverci sulla lunga distanza, per cui stiamo finendo di arrangiare alcune nuove tracce che verranno registrate.
Appena finito tutto ciò torneremo a suonare in giro con maggior entusiasmo per proporre la nostra musica.

Qual è la vostra posizione riguardo l’impegno dei testi? Il punk istigava a un certo tipo di ribellione sociale, la scena cantautorale odierna tenta di raccontare l’attualità dei giovani, artisti reggae e hip hop continuano la battaglia decennale per la legalizzazione della cannabis o altri temi di questo stampo. Vi innestate in qualche modo su questo filone di band oppure date un’altra importanza alle liriche?

Il fatto che tutti e tre scriviamo testi porta ad una certa varietà del tema trattato. Credo che le liriche abbiano un’importanza fondamentale e spesso tocchino la parte più intima di ciascuno. Detto ciò abbiamo delle tracce che sono solamente musicali perché spesso gli strumenti sanno parlare come e più delle parole stesse.

Se avete concerti o progetti in uscita prossimamente vi lascio tutto lo spazio che volete per comunicarli ai nostri lettori. Grazie ancora di aver preso parte all’intervista.

Come ti dicevo stiamo approntando la registrazione del nostro nuovo cd, ma per tutte le news e seguire gli eventi potete trovarci su vari social network:

http://www.facebook.com/Niksox
http://www.utopicmusic.com/main/Main.html#!artist/it/Niksox
http://www.reverbnation.com/niksox
https://twitter.com/niksox

 

Grazie a te per la disponibilità, rock ‘n roll a tutti!!!

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Intervista e foto a cura di Cesare Veronesi (LaMyrtha)

INTERVISTA
1- Songs of a lifetime, il tuo spettacolo, presenta un forte legame con il passato, ed in particolare con il prog-rock degli anni 70?
Sicuramente, è la storia della mia vita in musica, quindi del mio passato con KC e ELP, ma anche delle canzoni che mi hanno fatto crescere, proprio come quelle dei Beatles. Il progressive rock è stato un capitolo fondamentale per la mia vicenda artistica, ma io sono anche un songwriter, la canzone – che il progressive aveva abbattuto – è molto nelle mie corde e i miei album solisti lo testimoniano. Lo show sarà proprio una rassegna di canzoni, e mi sta piacendo molto il raccontarle a voi amici italiani.

2- Che ricordi hai del periodo di King Crimson e di Emerson Lake and Palmer? Sei rimasto in buoni rapporti con i colleghi di quel tempo? E’ possibile ipotizzare delle future collaborazioni?
I ricordi sono straordinari, con i KC c’era qualcosa di magico, eravamo una band straordinariamente democratica ma quel primo line-up del 1969, che ricordo con gioia, finì troppo presto. Giles e McDonald erano stanchi della vita on the road in United States, quella formazione finì rapidamente e nacque per me una nuova occasione con Keith. Con gli ELP ci fu un successo planetario, straordinario, eravamo diventati molto ricchi con una musica originale e innovativa, fu una cosa eccezionale. I rapporti in generale sono molto buoni, le future collaborazioni? Chi può dirlo… Mai dire mai!
3- Negli anni 70 ricordo che c’era una grande rivalità tra Keith Emerson e Rick Wakeman, per te che suonavi il basso chi era, se c’era, un ipotetico rivale? Chris Squire?
Bella domanda! Noi bassisti – anche se io mi considero anche un chitarrista acustico! – abbiamo sempre lavorato nell’ombra e le rivalità erano più nascoste… Chris è stato ed è ancora un favoloso bassista, ma ricordo con grande piacere anche altri colleghi come Mike Rutherford, John Wetton, Hugh Hopper, tutti con la propria personalità, con la propria originalità. Oggi purtroppo si inseguono molto le note più veloci e le scale incredibili ma senza creatività. Rimpiango molto quel modo di suonare il basso, melodico e peculiare, funzionale ai pezzi ma con spazi solisti eccitanti!
4- In Italia c’è sempre molto interesse per il progressive; si assiste anche in Inghilterra ad un ritorno verso questo tipo di musica?
E’ un interesse molto di nicchia, vedo che si muove molto attraverso internet, una versione aggiornata del passaparola che si faceva negli anni ’60 e ’70. In Inghilterra non c’è molto spazio per chi propone questa musica, ma credo anche altrove: si tratta di un rock che parlava un altro linguaggio, che muoveva masse di giovani interessati a queste novità. Oggi la musica è un affare poco importante, che non ha alcun impatto sulla società. Pensa a un concerto come quello di Hyde Park del 69 quando debuttarono i KC: ebbe una risonanza incredibile, oggi ci sono tanti festival ma nessuno ha quell’impatto sulla società.
5- Secondo la tua opinione, a distanza di tempo, il progressive ha avuto molta influenza sulla musica degli anni successivi?
Certo, ne sono convinto. Ha avuto influenza nella scrittura: abbiamo dimostrato che si poteva superare la forma canzone, ma che anche la canzone poteva essere ricca di variazioni, pensa alla mia Lucky Man, scritta in gioventù con i primi accordi che conoscevo, poi arricchita dall’estro di Keith. Un’altra influenza c’è stata nel modo di suonare: si doveva saper suonare bene e questa cosa ancora oggi, se vuoi fare un disco importante, risale al prog-rock.
6- Come sta procedendo questo tour italiano? Ti sta regalando emozioni e soddisfazioni?
Eccezionale. Desideravo da tempo tornare da voi, mi avete sempre riservato grandi applausi e non sono cose che si dimenticano. A Piacenza, la starting gig, il teatro era stracolmo, la serata romana è stata eccellente e caldissima, ieri a Bologna altrettanto piacevole con un pubblico attento, preparato ma anche molto disinvolto nell’apprezzare le mie canzoni. Grazie amici italiani!







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Le nostre interessanti chiacchierate coinvolgono oggi uno degli artisti più importanti della scena veneta: unòrsominòre. Buona lettura.

Ciao Emiliano. Innanzitutto grazie di aver accettato di partecipare a questa breve intervista per The Webzine.
Una domanda subito a bruciapelo: cosa ti ha trasformato in unòrsominòre. (so che ci tieni molto anche a questa grafia del tuo nome d’arte, se vuoi spiegarci perché)?
Ciao, grazie a te. Probabilmente sono sempre stato unòrsominòre., ma è stata la fine dell’esperienza con il mio gruppo, i Lecrevisse, ormai 8 anni fa, a spingermi a mettermi in gioco in solitaria, con gli ovvi pro e contro della cosa. Sul nome, come ripeto sempre: ho scelto questa grafia particolare perché detesto l’approssimazione e amo curare i dettagli, e poi per mettere in difficoltà gli addetti ai lavori spingendoli a mettere la giusta attenzione in quello che fanno; raramente però ottengo qualcherisultato (nel tuo caso è andata bene, bravo! 🙂 )

La tua biografia di musicista ti colloca qualche anno fa nel progetto veronese Lecrevisse. Ora che sei in piena attività come unòrsominòre., trasferito nel padovano, cosa ti resta di quella esperienza? Qualcosa dei Lecrevisse riecheggia ancora nella tua produzione?
Mi restano un sacco di ricordi bellissimi e qualcuno pure abbastanza brutto; mi resta la sensazione di aver dato vita a qualcosa di importante che poteva fruttare ancora molto, se fossimo stati tutti un po’ più intelligenti e determinati. Credo che l’approccio chitarristico e certi richiami psych siano l’eredità più evidente di quel periodo, che comunque ormai avverto come piuttosto lontano.

Il tuo ultimo disco si intitola La Vita Agra. Sappiamo che deriva da un libro di Luciano Bianciardi di ormai cinquant’anni fa, ma come mai hai scelto proprio questo titolo e cosa ti lega all’autore grossetano?
Il titolo l’ho scelto quando buona parte delle canzoni che avrebbero composto il disco esisteva già; ho visto il film di Lizzani del ’64, con Tognazzi, e poi sono andato a leggermi il libro da cui era tratto, e me ne sono innamorato. Soprattutto, però, mi è parso subito che quelle tre parole riassumessero alla perfezione l’atmosfera generale che cercavo di trasmettere con i miei brani. Ringrazio la famiglia Bianciardi che mi ha concesso l’utilizzo del titolo.

La copertina di La Vita Agra è molto interessante, nel suo minimalismo. Pensi che rappresenti una parte importante dell’essenza di quel disco? Com’è nata?
Penso che rappresenti molto bene le parole che contiene, con il suo richiamare certa arte povera italiana degli anni ’60, e con i suoi colori spenti. E’ stata concepita con un lavoro di squadra fra me e Laura De Salvatore, una bravissima grafica di Verona. Volevo una copertina che desse subito l’idea di un lavoro non consolatorio, impegnativo all’ascolto, senza ammiccamenti.

Scorrendo velocemente la tracklist del disco, ancor prima di averlo ascoltato balza all’occhio che il suo contenuto non sarà certo di facile digestione (“Testamento di Giovanni Passannante, anarchico italiano” è un titolo che colpisce molto in questo senso). La domanda è scontata, ma sicuramente avrai qualcosa di specifico da raccontarci a riguardo: quanto è importante il livello testuale per te? Quali sono le influenze, musica a parte, del tuo modo di scrivere oppure, se sono diverse, del contenuto dei tuoi testi? Infine, pensi che i tuoi messaggi vengano recepiti dal pigro pubblico italico?
Naturalmente i testi contano molto, soprattutto in questo ultimo disco, dove ho concesso loro la possibilità di tiranneggiare sulle musiche, piegando queste ultime alle esigenze delle liriche. Appena le lasciavo libere, però, le musiche riprendevano il sopravvento (le code strumentali de La vita agra I e II, e di Celluloide; il lungo rumorismo di Passannante) riequilibrando un po’ la partita.
Penso di essere stato influenzato molto dal modo di cesellare le parole nelle canzoni di Ivano Fossati, nei racconti di Jorge Luis Borges, e nei romanzi di Michail Bulgakov. I contenuti sono tutti miei invece, ci sono riferimenti più o meno espliciti a tanti, ci sono citazioni di altri artisti (Nanni Moretti per dirne uno), ci sono temi presi in prestito dal romanzo di Bianciardi, ma ho cercato di essere il più possibile autonomo e lontano da modelli di riferimento.
Infine: penso che i miei messaggi vengano recepiti? No. No, se non in minima parte, e senza un reale coinvolgimento.

Un tuo nuovo brano, che sta avendo un ottimo successo, “pezzali”, figura tra le diciannove tracce della compilation per il decennale dell’etichetta veneta Fosbury Records. Oltre ad un legame di natura puramente discografica ti lega qualcos’altro a questa realtà? Che porzione, qualitativamente parlando, della scena veneta rappresentano questa uscita e le band che vi hanno preso parte? Se ce n’è uno, hai un pezzo preferito tra quelli inclusi?
I ragazzi della Fosbury sono tutti amici, ma lo sono diventati dopo essere entrati in contatto per motivi musicali e non viceversa, il che mi rasserena molto perché non mi sento complice del solito intrighetto amicale mafiosetto all’italiana, che vige sempre e comunque a tutti i livelli, dagli scranni del parlamento fino alle produzioni discografiche indipendenti. La Fosbury ha vissuto un periodo di gloria qualche anno fa, ora è un po’ meno hype; però mi sembra che abbia raccolto in questa compilation un buon numero di artisti, quali più e quali meno validi.
Alcuni come i Valentina dorme sono rappresentanti storici della musica indipendente veneta e italiana. Mi piacciono molto i brani di Public e Planet Brain.

Rimanendo in argomento con questa tua ultima canzone. Intanto il titolo, “pezzali”, è il cognome di un noto artista pop italiano che però vediamo qui indicato con l’iniziale minuscola. Immagino che sia una scelta. Perché? Il contenuto del testo, piuttosto chiaro nella sua disillusione e brillante amarezza, pensi sia riassumibile semplicemente con questo titolo? Di attuale abbiamo anche Internazionale e Pasolini tra quelle parole…
La minuscola è un espediente minimo per lasciar intendere che non sono interessato in alcun modo all’artista di cui parli dal punto di vista personale, ma solo come un simbolo. Ci sono artisti ben peggiori di lui, in Italia, ma lui sta venendo rivalutato dalla sedicente cultura indipendente. Il che non è un problema che riguardi lui, è un problema che riguarda tale sedicente cultura indipendente. L’incapacità (o il rifiuto) di discernere fra ciò che ha valore e ciò che non ne ha ma che essendo facile fa presa ed è redditizio è, alla fine dei conti, puro berlusconismo applicato, e la controcultura dovrebbe averne ribrezzo, mentre invece ci sguazza.
Naturalmente il brano parla di molto altro, e in buona sostanza prende le mosse dal citato esempio per censurare l’abitudine dei nostri tempi di rivalutare quel che ci dà facile consolazione, anche se misero o senza valore, in nome della “retorica della felicità nelle piccole cose”. Però insieme al produttore (Fabio De Min dei Non voglio che Clara) abbiamo optato per questo “titolo furbetto”, come le “canzoni ammiccanti” di cui canto nel testo stesso. Un meta-riferimento sarcastico, direi.

La scena italiana risulta abbastanza stantia negli ultimi anni, complice non solo la scadenza di certa produzione ma anche della scarsa attenzione di discografia e pubblico. Quanto ritieni vera questa mia affermazione, ovviamente frutto di un’elaborazione puramente personale? Pensi che ci sia qualcosa da cambiare nel modo in cui si produce e, poi, si ascolta musica al giorno d’oggi?
Berlusconi è il responsabile del degrado, o è frutto del clima in cui versava il Paese quando lui è diventato protagonista? E’ la vecchia storia del cane che si morde la coda. Il pubblico è spesso becero (anzi, è “di merda”, come dicevano Nanni e Freak Antoni). Ma chi lo ha reso tale? Chi, avendone i mezzi, non ha insistito sulla qualità e ha scelto la strada più semplice per fare mercato? Alla fin fine ritengo che sia impossibile districare cause ed effetti. E comunque anche la decadenza della scena musicale italiana ha origini lontane e non attinenti strettamente alla musica – cosa che quando provi a dirla agli addetti ai lavori quelli subito ti guardano stortissimo e ti accusano di fare il moralista e di non saperti divertire e di far di tutta l’erba un fascio 🙂 … certo che c’è da cambiare. L’atteggiamento, come ho detto tante volte, è per lo più quello di una confraternita di fraticelli poveri che si esalta delle proprie piccolezze dando in pasto al pubblico facilone esattamente quello che il pubblico facilone desidera. Per prima cosa si dovrebbe recuperare il gusto per la sfida, per l’esplorazione, per l’inconsueto, per quello che richiede attenzione, anche fatica magari, e che poi dà tanta più soddisfazione quando compreso e fatto proprio.

Un concerto di Unòrsominòre com’è?
Piuttosto raro.
Poi dipende dalla situazione. Ho suonato in posti minuscoli con solo la chitarra acustica, in power trio in locali più o meno capienti, in full band con violini e sintetizzatori sui palchi di festival all’aperto. Ci si deve adattare a quel che passa il convento. Credo che in ogni caso comunque resti sempre di fondo un’attitudine rock poco “cantautorale”, che mi porto dietro dai miei anni nei Lecrevisse, come dicevamo sopra.
Ringrazio i musicisti che mi seguono con pazienza per pochi euri alla volta.

Oltre a ringraziarti per aver partecipato a questa intervista hai ovviamente questo ultimo spazio per ricordarci dove possiamo ascoltare ed acquistare il tuo materiale e quali sono i tuoi prossimi appuntamenti dal vivo.
Stiamo chiudendo le date di un mini-tour i primi di novembre: dall’1 al 3 sarò a Napoli, Caserta e Potenza Picena, l’8 aprirò il concerto dei Julie’s Haircut al Magnolia di Milano, e il 9 novembre sarò a Neverlab Polaresco, nel bergamasco. Le date aggiornate sono sulla mia pagina Facebook (cercate unòrsominòre. , non potete sbagliare). “La vita agra” è in vendita nei negozi di dischi oppure può essere ordinato via mail order da Bandcamp o scrivendo un’email alla mia label, Lavorare Stanca; oppure naturalmente acquistandolo ai miei concerti. I contatti sono anche sul mio minisito www.unorsominore.it . Grazie a te, ciao!

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Una piacevole chiacchierata con gli Astolfo sulla Luna, http://www.astolfosullaluna.it, che sono fuori col nuovo disco. A noi piacciono un sacco, a voi? 

– Ciao amici di Astolfo sulla Luna.
E’ un piacere per noi di The Webzine intervistarvi. Una domanda subito a bruciapelo: chi è Astolfo e cosa ci fa sulla Luna?

INCONSCIO – La luna è troppo bella, come si fa a non starci?

CONSCIO – Astolfo è quell’omino che tutti abbiamo da qualche parte, in cameretta, o anche più nascosto, che si sforza, più o meno spesso a seconda dei periodi e delle stagioni, di aiutarci a non perdere il senno. Lo fa consigliandoci di leggere libri, di vedere film, di ammirare opere d’arte, di uscire ad osservare il mondo e le persone. Ogni tanto, però, cose che succedono nelle nostre vite ci portano a perderlo il senno, e così lui è costretto a montare sul suo ippogrifo e a salire fin sulla Luna per recuperarcene un’ampolla. Ma sono viaggi sempre intricati e avventurosi i suoi.

– La vostra concezione di musica sembra tutt’altro che riduttiva. Nomi di dischi e canzoni hanno tutti un significato, sembra, molto intenso e sicuramente caratteristico, vi va di parlarci di come nascono titoli, nomi, toponimi, le realtà testuali e verbali della vostra musica?

INCONSCIO – “…fatemi un giro che somiglia a quell’albero che d’autunno lascia cadere le sue foglie senza difese ma che sia pieno d’ansia e senza uccelli perché sono morti, ecco. Fatemi la morte degli uccelli…”

CONSCIO – A qualcuno potrà sembrare strano, ma la nostra musica raramente parte e si sviluppa da idee musicali. Ci piace elaborare concetti, sensazioni, scenari, azioni, racconti, testi letterari, film e qualunque cosa ci provochi sensazioni forti, e provare a trasformarlo in musica e parole. Quando più cose si sovrappongono, quando la realtà si fonde con l’immaginazione, quando arriviamo a sentirci tutt’uno con il “soggetto” di un nostro brano, è a quel punto che riusciamo a portare a termine un arrangiamento. Testi e titoli di solito arrivano dopo, ma non è una regola, e provano a fondersi con il resto, in modo da non essere un corpo estraneo, ma una parte del tutto.

– Sul piano musicale colpisce molto la maniera in cui parole e musica creano dei vuoti o dei pieni, dei piano o dei forte, dei contrasti che vanno a sottolineare senz’altro il significato. Come lavorate a livello compositivo per dare un senso alle vostre canzoni? Minosse inquisitore scuote l’urna dei fati è un nome troppo complesso per essere generato dal caso.

INCONSCIO – Endecasillabi con la decima accentata, terzine incatenate, selve oscure, fiumi, contrappassi… chissà se un giorno qualcuno capirà. Io ancora non ho capito.

CONSCIO – In parte crediamo di aver già risposto nella domanda precedente… Le dinamiche e i vuoti e i pieni vengono, in un certo senso, naturali seguendo il filo delle nostre sensazioni e dei nostri pensieri.
Quanto a quel titolo, no, non è generato dal caso, e nemmeno da un generatore automatico di testi di Astolfo Sulla Luna, ma è stato generato nientemeno che dal cervello di Dante. Ebbene si, ci siamo forse presi una licenza di troppo, ma abbiamo composto una canzone ispirata alla Divina Commedia. Nella struttura, nell’arrangiamento, nelle dinamiche, nei testi, ci sono diversi riferimenti che lo lasciano intendere. Il tutto con il dovuto rispetto.

– Salta subito all’occhio, nella tracklist, Come Sta Annie?, la celebre frase finale di Twin Peaks (titolo anche di un DVD dei Nichelodeon, band di Como, che ha sonorizzato l’ultima puntata della serie di Frost e Lynch, conoscete?). Qualcosa di quella serie ha ispirato la vostra musica? In che modo?

INCONSCIO – Ma Audrey, quanto è bella Audrey? Dovrebbero farci un concept album.

CONSCIO – Lynch chi? Nichel-che? Si scherza ovviamente, stiamo parlando di maestri nel fondere la dimensione reale con quella onirica… Certamente, e non solo in questo senso, sono tra i nostri punti di riferimento. Ma ne abbiamo tanti e, se vi va, vi invitiamo a fare il gioco di scovarne quanti più è possibile.

– Venite da un’etichetta, MiaCameretta Records, che a noi di The Webzine ha mandato tanti bei dischi. Cosa vi piace degli artisti di quel roster? Avete mai collaborato con qualcuno di loro?

INCONSCIO – Gli Esercizi Base per le Cinque Dita sono il mio gruppo preferito e quel cazzo di disco ce l’ho nel cuore proprio. I Poptones e i Bandwidth fanno un dio di bordello proprio come piace a me e a dio. Si quel dio. Quello là.

CONSCIO – E’ una collaborazione nata relativamente da poco e quasi per caso. A noi piace condividere e proporre e ci piacciono le persone che vogliono farlo insieme a noi. Così sono nate delle serate, dei concerti, delle chiacchierate, un EP… E sicuramente altre cose più in là. Di loro ci piace soprattutto l’immediatezza, la spontaneità, il fatto che non cerchino di confezionare dei prodotti da vendere in tutti i modi possibili, come troppo spesso accade altrove.

– Fuori dallo studio, come sono gli Astolfo sulla Luna, perlomeno a livello di live? Cosa bisogna aspettarsi da un vostro concerto?

INCONSCIO – A volte ci scambiamo i pantaloni e le maglie, i reggiseni no, solo perché Timoteo ha le tette più grandi.

CONSCIO – Nei live, tutto quello che ci siamo detti prima viene amplificato. Il rapporto con lo spettatore è diretto, senza filtri. Non c’è tempo di ragionare, sezionare, analizzare. Tutte le sensazioni ti vengono vomitate addosso direttamente dagli strumenti e dagli amplificatori, prendere o lasciare.

– Che ne pensate della situazione discografica italiana? Pensate che i social network stiano contribuendo positivamente alla scena?

INCONSCIO – In realtà abbiamo mandato Timoteo a girar nudo in tutte le città d’Italia con la scritta Astolfo sulla Luna non dico dove. Ebbene si, c’entrava tutta. TIMES NEW ROMAN 96

CONSCIO – La situazione discografica italiana è troppo varia per essere semplificata in due righe. C’è sicuramente tanta roba valida, immersa in tanta altra roba, e che prova ad emergere, a volte riuscendoci, a volte no. In questo i social network e più in generale tutti gli strumenti di condivisione che l’era della comunicazione ci ha portato, sono un’arma a doppio taglio: da un lato è diventato più facile dare in pasto ad un vasto pubblico la propria proposta; dall’altro è così facile che la proposta è aumentata a dismisura, superando di gran lunga la voglia di ascoltare roba nuova. E quindi alla fine non si sfugge, bisogna sempre “farsi il mazzo”, proporsi, cercare di suonare e farsi conoscere il più possibile in tutti i modi, e sperare di piacere.
Usando tutti questi strumenti, in poco più di un anno, alcune centinaia di persone si sono accorte di noi e di questo non possiamo che essere contenti.

– Se volete ricordare qualche vostro recapito, dove trovare il disco e le prossime date, avete tutto lo spazio che desiderate. Grazie di aver partecipato a questa intervista.

Chiunque volesse approfondire trova tutto il necessario su http://www.astolfosullaluna.it

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Li abbiamo recensiti, qui, qualche settimana fa. Fabio si è prestato a qualche domandina per noi, ecco la conversazione.

1. Ciao amici di The Disappearing One. A The Webzine abbiamo apprezzato molto la vostra musica e abbiamo deciso di intervistarvi. Una domanda banale per iniziare e per introdurre i lettori al vostro progetto: potete spiegare la genesi della band?
 
F: Ciao a tutti, sono Fabio e sono voce e chitarra del gruppo. Inizialmente scrivevo ed arrangiavo le mie canzoni da solo, per puro piacere e “studio”, nella mia cameretta. Marco Normando (basso) ascoltò le canzoni dalla mia pagina MySpace (bei tempi) e mi contattò proponendo di mettere su un gruppo per suonare quelle canzoni e registrarle come si deve, in uno studio. Così è iniziato tutto, fino ad arrivare all’attuale line-up con Andrea Freschi (chitarra elettrica) e Andrea Gallicola (batteria).

2. Pensate che il vostro nome abbia un legame con la vostra musica?
 
F: L’ho adottato sin dai tempi delle demo fatte in cameretta. Era per me uno pseudonimo che descriveva una dinamica che spesso capita nei rapporti con le persone: All’improvviso, quando cambiano gli interessi o quando non si ottiene il risultato che ci si era prefissati da un rapporto, le persone semplicemente scompaiono. Alla fine, formata la band, decidemmo di tenere il nome. Ma non ha un vero e proprio legame con la musica che facciamo. Eppure, resta attuale per moltissime ragioni. Ce lo sentiamo cucito addosso ormai.

3. “Several Efforts for Passionate People” è davvero un manifesto di ciò che sono i The Disappearing One o pensate che ci sia ancora molto da scoprire di voi, magari con futuro materiale di cui, se volete, potete darci qualche anticipazione?
 
F: Quel disco ci rappresenta molto, sebbene le canzoni fossero ancora quelle che ho scritto da solo negli ultimi anni. Eppure tutto il “concetto” del disco, il suo filo conduttore, rappresenta in qualche modo un nostro manifesto. Rappresenta la nostra storia come musicisti che si nutrono di passione e che non fanno musica per soldi. Rappresenta tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora per rimanere in piedi e non farci buttare giù da tutto quello che, in questo campo, ci circonda e ci rema anche contro. 
Per quanto riguarda la musica, in realtà la band è in continua evoluzione dal punto di vista compositivo. Abbiamo già pronto il prossimo disco, che sarebbe per noi il terzo “ufficiale”, diciamo così. Tra un disco e l’altro, infatti, abbiamo registrato degli Ep che ci sono serviti ad amalgamarci come gruppo che scrive le canzoni insieme. E il terzo disco sarà composto da 10 canzoni che, partendo da un’idea di base iniziale molto scarna (principalmente mie e di Andrea Freschi) sono poi passate attraverso la scrittura corale in sala prove. Possiamo dire, in definitiva, che il prossimo disco sarà davvero un disco “collettivo” dei The Disappearing One.

4. Cosa deve aspettarsi un vostro fan o un semplice curioso da una vostra esibizione dal vivo? 
 
F: Tante “canzoni”. Da questo punto di vista siamo abbastanza “basic”, nel senso che non prepariamo cose prima di suonare, oltre alla scaletta, quando ce ne ricordiamo!!! Quello che intendo è che i nostri concerti non sono pensati a tavolino, seppure restino il frutto di tante ore di prova in sala. Ma nulla di preparato, nulla di studiato a tavolino. Certo, quando possiamo, cerchiamo di curare il set. Portiamo in giro delle immagini di artisti che le concedono in free sharing, e ci piace proiettarle dietro di noi mentre suoniamo. In alcuni periodi abbiamo portato in giro delle luci nostre, ma sempre tutto molto artigianale e per il gusto di “vestire” al meglio le nostre canzoni. Proviamo ad interagire con il pubblico, ma quella è una cosa molto complessa da realizzare, soprattutto in alcuni luoghi in cui il “pubblico” in realtà si trova lì per caso e solo per mangiare un panino con gli amici. In quel caso il gruppo può essere addirittura un fastidio. In quei casi proviamo a chiudere gli occhi e ad estraniarci un minimo, per provare a non perdere concentrazione e quel minimo di magia che si crea suonando. Quella magia che mal si lega con i discorsi del gruppo al primo tavolo, che organizza la prossima vacanza al mare oppure conversa amabilmente sull’ultimo rigore inesistente dato alla Juve! 🙂
 
5. Come nasce una canzone marchiata The Disappearing One?
 
F: Fino a qualche mese fa le canzoni nascevano principalmente in camera mia, chitarra acustica e voce. Poi, come accennavo, per pure divertimento le arrangiavo completamente suonandole da solo. Adesso però abbiamo avuto un approccio diverso, partendo da un’idea iniziale molto basilare, per poi lavorare tutti insieme alle strutture, agli arrangiamenti e a tutto quello serve per trasformare l’idea iniziale in una canzone finita.

6. Quanto sono fondamentali i social network per un musicista, secondo voi? Che esperienza ne avete avuto in questi ultimi tempi? Pensate che si possa cambiare qualcosa per renderli migliori a livello di promozione musicale?
 
F: Usiamo tanto internet per veicolare la nostra musica in maniera veloce e anche economica. I siti che preferiamo, però, alla fine non sono dei veri e propri social. I nostri preferiti restano BANDCAMP e VIMEO. Da poco abbiamo rinnovato il nostro sito internet, e ne siamo molto contenti (www.thedisappearingone.com). Certo usiamo molto anche facebook, soprattutto per la parte “promozionale” degli eventi. Ma è un momento transitorio per noi, e sebbene l’immediatezza che offre questo mezzo sia evidente, ultimamente ci sembra un pò saturo e quindi anche meno efficace. Il rischio che si corre è quello di essere “invasivi” o risultare addirittura antipatici nel momento in cui si posta troppo spesso la roba nostra o qualche nostro evento. Il punto fondamentale, credo, è che il 95% degli utenti di Facebook non sono lì per la musica o per avere suggerimenti culturali/informativi, ma per ben altro. Si tratta di scelte personali ovviamente. Abbiamo conosciuto ed interagito con persone molto curiose ed attente, e questo è un bene per cui siamo grati. Ma può risultare anche frustrante avere meno attenzione di qualsiasi gatto che scorreggia o di un qualsiasi pulcino idiota. Dopo un pò ci si stanca di sentirsi come chi urla nel deserto.
 
7. Qual è il vostro rapporto con la stampa musicale? Inutile o essenziale? Acculturata o ignorante? Vi ha capito o no?
 
F: Con questo secondo disco autoprodotto “several efforts for passionate people”, siamo entrati nella scuderia “seahorse recordings”che ci ha offerto un ufficio stampa, ad un certo prezzo ovviamente. Prezzo che rientra nella parola “autoproduzione” (leggi: abbiamo pagato noi) e che abbiamo affrontato, come sempre, usando il nostro fondo cassa accumulato con i “rimborsi spesa” dei nostri concerti. Bene, questo ufficio stampa ha prodotto un comunicato dell’uscita del disco e delle recensioni (oltre a dei passaggi e delle interviste in radio locali). Non siamo giovanissimi, e quindi siamo cresciuti con la cultura della recensione. Eravamo curiosi di leggere le opinioni di chi fa critica musicale per mestiere. Crediamo sia ancora utile come confronto e, ovviamente, come mezzo promozionale. Alcune recensioni, secondo noi ovviamente, hanno completamente colpito nel segno, capendo quello che intendevamo trasmettere con questo disco. In altri casi invece non siamo stati capiti, o semplicemente non siamo piaciuti. Ma quello rientra nel discorso dei gusti personali, e quindi non si discute!

8. Se volete pubblicizzare qualche vostra data vi lasciamo questo ultimo spazio, magari ricordate anche i vostri link dove ascoltare qualcosa o leggere qualcosa di voi. A presto e grazie. 
 
F: Nota dolente. Purtroppo l’agenzia di booking che la nostra etichetta ci aveva procurato ha chiuso. E’ un periodo difficile, forse il più difficile degli ultimi decenni, per la musica dal vivo nei locali. Certo ce n’è tanta ancora di musica dal vivo, ma la proposta ormai si riduce alle Tribute Band, al Karaoke o ai soliti noti che suonano ovunque. Se non entri in certi “circoli” non suoni, se non sei amico di chi decide non suoni, se non sei abbastanza alternativo non suoni, ecc.ecc.ecc. 
In ogni modo, speriamo che la nostra etichetta risolva il problema, trovando un’altra agenzia di booking. Noi intanto siamo stufi di inseguire proprietari di locali poco umani, e direttori artistici improbabili. L’unica soddisfazione è vederli scomparire piano piano tutti. Gli unici “disappearing” che ci fa piacere si tolgano dai paraggi. Pertanto abbiamo deciso di fermarci con i live, a meno che non ci invitino persone per bene e a condizioni non disumane ed indegne. Ci piace suonare dal vivo più di ogni altra cosa, ma ancora di più ci piacciono il rispetto per le persone, l’educazione, la serietà e la lealtà.
E’ comunque possibile aggiornarsi sulle nostre date, nel caso ce ne sia la voglia, sul nostro sitowww.thedisappearingone.come oppure sul nostro profilo facebook.
Per ascoltare e scaricare (gratuitamente) la nostra musica, invece si può andare sul nostro profilo Bandcamp www.thedisappearingone.bandcamp.com
GRAZIE a voi e a presto

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[introduzione e intervista a cura di RENATO RANCAN; rispondono alle domande Lele, Mauro, Fiore e Nicolò degli Uncledog]

Con questo numero si vuole inaugurare una serie di interviste legate al progetto 3 Rivers Underground, una nascente associazione di band racchiuse geograficamente dai tre principali fiumi veneti: Po, Adige e Brenta.

Iniziamo con gli Uncledog, un giovane gruppo rock della bassa padovana che tra un EP registrato in un prestigioso studio negli USA e varie date in Europa sta facendo di tutto per far parlare di sé. Ma, oltre a questo approccio internazionale, a stupire è l’impegno costante che di settimana in settimana si rinnova nella loro sala prove a Solesino (PD) dove siamo andati a trovarli.

La cosa più bella sarebbe stata riportare integralmente i tre quarti d’ora di chiacchierata, per farvi respirare il clima allegro e scanzonato che anima sempre le loro serate, condite pure da qualche litigata, ma per doveri editoriali ahimè si farà una sintesi.

Quando si intervista una band che non ha ancora “sfondato”, anche se con gli Uncledog ci son tutte le avvisaglie, si finisce sempre per parlare di scena emergente, delle difficoltà che ha un gruppo nel proporsi al grande pubblico, ed il guaio è che alla fine non si parla più del gruppo in sé; in questo caso invece cercherò invece di parlare in poche parole principalmente della musica e della storia della band.

Renato:  Buonasera bella gente! So che vi trovate in questa saletta anche quattro o cinque sere ogni settimana, prove su prove, colpisce questa costanza, cos’è che vi spinge? Cosa vi ha portati qua stasera?
Lele“Ciao, sono il bassista! Beh stasera ci ha portati la macchina…no dai, siamo spinti da tanta semplice passione, ci siam trovati con un sogno comune e poi si è creata tutta la questione gruppo, rapporti umani. Questa è la nostra terza saletta, in origine eravamo a Este ma il prete proprietario della sala prove ci ha buttati fuori, lì eravamo i Retroverse, tutti noi tranne il cantante, Nicolò, che tra l’altro non è stato affatto semplice trovare in quanto non tutti i cantanti sanno cantare bene (risate), ma a volte basta fidarsi, capire la persona, il giovincello al tempo aveva 16 anni, non parlava e si adattava a tutto ma lo abbiamo fatto crescere bene più o meno. Da quando è arrivato lui siamo gli Uncledog.” 

Renato: Si può dare un nome alla vostra musica? Identificarla con un genere?
Lele: “Hardrocche un po’ lounge con delle sembianze metal…”
Fiore: “Lele fa un hardroco perché Lele è roco.”
Nicolò: “La nostra musica è influenzata da mille cose, il bassista legato agli anni ’70, il batterista al prog, il tastierista più epico, il chitarrista anni ’80 e il cantante anni ’90. Senza poi contare tutto ciò che non è musicale ma che influenza la nostra musica.”

Renato:  Molto precisi! Mi date almeno qualche gruppo di riferimento? Pensate ai poveri lettori dell’intervista…
Nicolò: “Non saprei proprio, non è che vogliamo dare l’idea di esser totalmente innovativi. Tante persone ci hanno paragonato ai Toto o ai Rush e non ce lo aspettavamo.” 
Mauro: “Noi ci sentiamo vicini invece a Wolfmother e Velvet Revolver. Guarda, abbiamo iniziato da poco proprio un processo per iniziare a capirci, siamo sempre in difficoltà ad identificarci in un genere.”

Renato: Sì infatti, non sembrate neanche appartenere ad una scena precisa, penso a quello che succede invece con i gruppi metal-core delle nostre zone.
Mauro: “Lo notiamo anche noi, tanti gruppi con i quali suoniamo son molto incentrati su un genere, che da un lato è pure positivo perché si riesce ad identificarli subito mentre magari nel nostro caso una canzone è hard- rock, una più pop, una alternative. Tante mescolanze, figlie di tante diverse influenze appunto.”
Lele: “Una nostra particolarità sta nel fare, spontaneamente, arrangiamenti complessi che vanno oltre il semplice riff ripetuto.”

Renato: Avete quindi un processo compositivo particolare?
Mauro: “Da quando siamo nati fino a due mesi fa si suonava tutti insieme in sala prove, una jam attorno ad un giro proposto. Si partiva molto dall’estetica musicale, così ci han detto, e solo alla fine si aggiungeva la voce. Basso batteria chitarra tastiere, improvvisazioni, tante registrazioni facilitate dal suonare in cuffia. Noi adesso abbiamo 12 canzoni ufficiali in 4 anni che suoniamo, senza ovviamente contare quelle scartate, col le quali però arriveremmo ad una ventina, quindi poco comunque. E’ che siamo molto pignoli, prima che una cosa vada in scaletta ce ne vuole.”

Renato: Hai detto fino a due mesi fa, è cambiato qualcosa ultimamente?
Mauro: “In previsione del prossimo disco stiamo lavorando con una persona per rivoluzionare il metodo compositivo cercando di dare un ruolo più centrale alle liriche e alla voce. Ci stiamo impegnando in una cosa che non era per nulla nostra, stiamo cercando di trovare messaggi più definiti, per una questione di identità di gruppo, anche solo dalle melodie di voce per poi solo successivamente costruire estetiche musicali così da non creare difficoltà al nostro cantante. La principale critica che ci veniva posta era una mancanza di identità che a noi all’inizio sembrava addirittura un pregio.”

Renato: So che siete andati a registrare il vostro primo EP in California da Sylvia Massy (Tool, System Of A Down, Red Hot Chili Peppers, Johnny Cash ecc), come vi eravate preparati?
Lele: “Noi di esperienza in studi del genere non ne avevamo, era un’esperienza imprevedibile, incredibilmente bella ma anche stressante, ora invece sappiamo come funziona. Ci eravamo preparati sia dal punto di vista psicologico sia da quello musicale, lavorando sulla tecnica individuale e sugli arrangiamenti per paura che lei giudicasse le nostre canzoni troppo blande e semplici.”
Mauro: “Mi ricordo proprio che abbiamo fatto un demo, il terzo, con i brani scritti dopo il primo contatto con lei, eravamo imparanoiatissimi per mandare brani registrati bene, speso pure bei soldi per il demo, e impiegato 3-4 mesi a canzone, lavoro morboso, canzoni che sprofondavano distanti dal nostro solito. Lei ha ascoltato le canzoni e ha detto: “ma potevate mandare anche canzoni registrate col cellulare. 4 canzoni in sette mesi? Malissimo, dovete scrivere scrivere.” Così in due mesi son saltate le due nuove canzoni dell’EP tra cui proprio Face On The Floor, che ha dato il titolo all’EP e da cui abbiamo anche ricavato il nostro primo video..”

Renato: Una volta oltreoceano com’è andata?
Lele: “E’ stato difficilissimo prendersi, là sono abituati a lavorare dalla mattina a sera in studio con professionisti e, nel caso di Sylvia, mostri sacri della musica… ma tu vedi tutto per la prima volta e l’impatto è forte.”
Mauro: “Di lì era passata gente che sapeva lavorare in studio da trent’anni, si davano per assodate delle cose che per noi erano “what the fuck?!”. Un nostro rimpianto, o meglio presa di coscienza, è che L’EP, come suoni, è venuto fuori principalmente da un lavoro loro, c’erano decine di macchine che non sapevamo neanche cosa fossero, ed in più era tutta roba vintage. Quindi a livello di produzione dei suoni, a parte scegliere gli amplificatori ed effetti, ci siamo affidati alle loro mani. Se dovessimo ripetere l’esperienza oggi lo faremmo con un piglio diverso, più sciolti e meno passivi, magari ci prepareremmo di più proprio su questi aspetti di produzione…non che non sia venuto bene sia chiaro. Ma c’era un mixer dei Led Zeppelin, un compressore dei System Of A Down… difficile non lasciarsi andare”.
Lele: “Diciamo che c’ha servito a molto, si può dire chasservitoamolto?” (risate)

Renato: Ultima domanda: mi parlate un po’ del progetto 3 Rivers Underground?
Mauro: “E’ un’associazione di gruppi delle nostre zone, si parte dall’esperienza positiva del Delta Underground, basterebbero anche solo due tre locali, una data a gruppo al mese con una cinquantina di persone e sarebbe già tanto. Noi non abbiamo difficoltà a trovare date però ci son tanti gruppi che magari son validi come o più di noi ma non hanno l’intraprendenza, la capacità o la fortuna di trovare locali. Il progetto di Marco (l’organizzatore n.d.r.) è agli alborissimi, e i musicisti son gente strana ma sono fiducioso, su Facebook si è già scelto simbolo, ci son già ruoli assegnati, così si darà possibilità a chi non ne ha e qualche certezza in più a chi ne ha.”

Renato: Se volete lasciate un messaggio di saluto
Lele: “Ti ringraziamo per il tuo tempo”.

Renato: Bene grazie a voi ragazzi
Lele: “Bona, vao fare la pipì.”


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Hanno Ucciso un Robot ci è piaciuto. Qui vi si spiega perché. Personalmente ho trovato il disco molto interessante, forse il migliore uscito nei primi due mesi del duemiladodici. Ecco perché ci siamo seduti per una delle nostre pleasant talks con Giorgio Mannucci dei The Walrus. Buona lettura.

BRIZZ: The Walrus benvenuti su The Webzine, grazie per aver accettato questa intervista. Volevamo iniziare con una domanda banale, per evitare di doverci ricapitare: raccontateci un po’, com’è nato il vostro progetto?
GIORGIO: Il tricheco nasce nel 2007.
Il tricheco nasce quando incidiamo il nostro primo disco “Never Leave Behind Feeling Always Like A Child”.
Il tricheco nasce quando all’orda di maschi pelosi, si affianca pure una donzella di nome Marta Bardi (voce) e aggiunge quel tocco femminile che per tanti anni io (Giorgio – voce, chitarre), Francesco (chitarre), Alessio (batteria) e Dario (basso) abbiamo cercato.
Sì, perchè prima degli Walrus, noi 4 ci destreggiavamo già sui palchi toscani e non, e ci chiamavamo Unità 3. Con questo nome abbiam registrato vari demo in lingua italiana. Eravamo piccoli e fumavamo molto. Prediligevamo erba.

B: Il vostro nuovo disco per noi di The Webzine è stata una vera e propria perla, nel pop. Quanto vi ritrovate in questa definizione? Secondo voi quali sono gli ingredienti giusti per del pop che non sia da classifica ma che non sia neppure spazzatura?
G: Pop è una definizione che mi piace, e che credo calzi a pennello con il nostro disco.
Il pop tende ad essere da classifica. Non è esattamente un genere di nicchia. Quindi tende a diffondersi il più possibile ed entrare nei cuori di tutte le persone, di tutte le età. Credo e desidero che il nostro disco possa fare questo effetto.

B: Chi è la “Signorina Delirio” della quinta traccia?
G: Signorina Delirio è colei che si presenta quando ci si trova in compagnia dei nostri amici e quando con gli stessi si sta passando una piacevolissima quanto goliardica serata. Si avvicina a te, ti prende a schiaffi e ti fa godere della compagnia che hai. Il trucco poi è che certi eventi, nascano dal caso e non siano voluti.
Questa canzone l’ho scritta dopo una nottata passata con gli amici dove ne sono successe di tutte. Non me lo scorderò mai. Può essere vista come un omaggio all’amicizia che può quindi essere una cosa molto condivisibile (il che mi piace).
Fatevi schiaffeggiare dalla Signorina, ne trarrete solo profitto. Garantito.

B: Nei vostri testi si avverte spesso la necessità di raccontare qualcosa che sia profondamente legato all’immaginario quotidiano di chi vi andrà ad ascoltare. Avete avuto qualche urgenza, dal punto di vista comunicativo, nel comporre questi testi o sono nati in maniera meno meditata?
G:  C’è necessità di raccontare qualcosa ma, come avrete ascoltato, salvo alcuni casi (Così Diverso, Macchina Volante) non tocchiamo temi politici o di attualità (come altri nella musica italiana han fatto e stanno facendo) ma argomenti diretti, veri, sinceri e allo stesso tempo molto profondi. Quelle famose piccole cose a cui spesso non diamo molta importanza. Signorina Delirio, per quel che mi riguarda, ne è un esempio calzante.

B: Sono tante le influenze che le vostre musiche lasciano intuire, ma spesso le recensioni non aiutano nell’intuirle. Chi più affidabile della band stessa, dunque…quali sono gli ascolti che hanno formato l’esperienza The Walrus?
G: Nelle recensioni che vado a leggere spesso ci confrontano con band che, salvo alcuni casi, non conosco minimamente. Ma ciò è normale. Vi potrei dire una lista infinita di band che io e gli altri trichechi ascoltiamo e sicuramente voi vi chiederete: “Ma cosa c’entrano con voi?!!??”.
Quindi passo alla prossima. 😀
Pagine
B: Una domanda più personale: che ne pensate della produzione della vostra etichetta Garrincha Dischi, anche al di fuori del vostro disco? Ci sono molti buoni artisti. Avete rapporti personali con qualcuno di loro?
G: Lo Stato Sociale ha realizzato un disco di cui ne sentiremo parlare molto. “Mi sono rotto il cazzo” è un gran bel pezzo: complimentoni ai ragazzi.
Nel mondo Garrincha Dischi poi personalmente conosco Le-Li di cui apprezzo i lavori e lo stesso vale per Marcello Petruzzi, in arte 33 ore.

B: Com’è un concerto dei The Walrus? Ci piacerebbe partecipare presto a un vostro live, se avete qualche data in programma non esitate nel parlarne qui.
G: Molto intenso. Sentito. Sudato. Sempre di più rock n roll. Scatenato.
Cerchiamo di alternare momenti molto forti con altri più soft. “Lento Erotico” e “Shirley Temple” servono per dare un momento di pausa al concerto. Con tutti gli altri brani cerchiamo di danzare, muoverci, cantare, ululare e chiudere gli occhi.

B: Grazie ancora per aver partecipato all’intervista, un saluto
G: Grazie infinite a voi!!

The Webzine dopo questa piacevole delirio vi lascia con la signorina delirio

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1. Salve Dubby Dub, grazie per aver accettato la nostra intervista. Domanda banale per incominciare: come si sono formati i Dubby Dub e perché la scelta di questo nome?
Ciao sono Andrea chitarrista e cantante dei Dubby Dub, volevo ringraziarvi per lo spazio concesso e raccontarvi un po’ la nostra storia.
Il progetto Dubby Dub nasce nel 2001 nella provincia di Ferrara dalla mia mente e di mio fratello Mauro, allora basso e voce degli H-strychnine, band della scena hard-core italiana con all’attivo due dischi usciti per AmmoniaRecords-V2/SonyMusic, ed Enrico Negri, noto musicista della zona, nonché cantante dei Noise e batterista dei Charlest One.
Decidiamo così di registrare un disco di undici brani al Fear Studio di Ravenna.
Nel 2005 Enrico e Mauro fondano una nuova band, Sportclub (album “Catchy” uscito per La Baraonda/Self), che li terrà molto impegnati, mentre io continuo la mia esperienza negli H-strychnine.
I Dubby Dub sono così messi nel cassetto per qualche anno finché Flavio Romei, nel tardo 2009, ci convince a ricominciare. Nel 2010 ritorniamo in piena attività live, con l’aggiunta della nuova chitarra e pubblichiamo così con ALKA record label il nostro album “Rock’n’roll head”.

Il nostro nome Dubby Dub è un po’ insolito ma la storia è molto semplice.
Eravamo all’inizio della nostra carriera musicale (inizio 2001), a quei tempi registravamo le prove su cassette e feci ascoltare una canzone (credo che fosse una prima versione di ‘I’M OK’ forse l’unico pezzo da noi scritto un po’ lento) a un mio conoscente dal nome Yak (un personaggio un po’ insolito e della vecchia guardia) e gli chiesi se gli piaceva il pezzo da noi registrato.
Lui disse che era molto bello e che un gruppo così doveva avere un nome molto importante.
Io gli chiesi:
-Che nome daresti al mio nuovo gruppo?
Lui rispose:
-Dubby Dub.

Quello fu il momento della nascita dei Dubby Dub, per quel che ne so di Yak non ebbi più notizie ma qualcuno lo vide su una Mercedes decapottabile scappare da un inseguimento della polizia.

2. Ogni band, si dice (a volte esagerando) abbia un messaggio o un motivo per suonare quello che suona. I Dubby Dub perché suonano e, secondo voi, “cosa suonano”?
I motivi per cui si suona possono essere veramente tanti ma il nostro motivo principale è perché ne sentiamo la necessità.
Sai la musica è un mix di arte e cultura, è un modo per sentirsi vicini alle persone e perché no, un modo di fare del bene. Ogni concerto lo portiamo dentro di noi e ogni situazione è unica.
Penso che quello che abbiamo voluto trasmettere nel disco e soprattutto quello che vogliamo trasmettere ai nostri concerti sia la naturalezza stessa della musica, la voglia di divertirsi e di sorridere alla vita.
Non saprei definire il nostro genere e generalizzare è una cosa che non ci è mai piaciuta, anche se a un gran numero di ‘recensionisti’ del settore piace farlo.
Ascoltiamo tanta musica e penso che sia il nostro punto di forza e d’ispirazione.

3. Ci sono state molte recensioni positive del vostro ultimo disco, Rock’n’Roll Head. Oltre a chiedervi cosa ne pensate del modo in cui la critica ha recepito la vostra musica, volete raccontarci com’è nato l’album e qual è stata la reazione del pubblico alle esibizioni live?
Sicuramente è stata una bellissima soddisfazione, siamo molto contenti che la ‘critica’ abbia recensito positivamente il nostro lavoro.
Spero che condividano altrettanto positivamente il videoclip del singolo “Do it or let me go”, da poche settimane uscito sul web. Noi ne siamo molto orgogliosi e colgo l’occasione per ringraziare il regista Alex Mantovani e tutti i suoi collaboratori della Pseudo Fabbrica.
Come ho detto in precedenza i Dubby Dub sono nati nel 2001 e nel 2005 abbiamo registrato il nostro disco, poi per motivi vari abbiamo avuto un periodo di standby. Nel 2010, grazie al nostro nuovo chitarrista si è avuta una rèunion e grazie alla collaborazione con Alka Records abbiamo potuto stampare il nostro disco. A luglio abbiamo finito di registrare il nostro secondo album ed entro la fine dell’anno è attesa l’uscita.
Per quanto riguarda la scena live, è stata una grandissima soddisfazione vedere sempre più persone avvicinarsi ai nostri concerti e partecipare in maniera davvero entusiasmante.

4. Anche la copertina è senz’altro singolare. Di chi è stata l’idea e che significato le attribuite?
L’artwork possiamo dire che è abbastanza provocatorio, vedere la sigaretta in bocca a un bambino potrebbe demonizzare maggiormente la dura lotta contro il fumo, ma non è così, la foto è del 1968 ed il bambino rappresentato in copertina è mio zio Marco, questa foto arriva direttamente dall’album di famiglia e rappresenta il giusto compromesso tra ribellione e gioia di vivere.

5. Cosa aspettarsi da un concerto dei Dubby Dub? (Se volete pubblicizzare le vostre prossime date, fate pure.
Sicuramente un nostro concerto è molto vario, partendo da una solida struttura ricca di energia e carica positiva trasmettiamo varie emozioni con l’utilizzo anche d’insoliti strumenti musicali come ukulele e glockenspiel.
Tutti gli aggiornamenti sulle nostre date le potrete trovare al sito: www.dubbydub.com , sulla pagina facebook al nome dubby dub o su www.myspace.com/dubbydubmusic.

6. Quali sono i vostri programmi per l’autunno e l’inverno, i mesi in cui i locali scoppiano di date e tutte le band sono all’affannosa ricerca di un qualche spazio dove mettersi in mostra?
A dire il vero a parte i concerti, abbiamo in programma due eventi live un po’ insoliti, il primo festeggiare i nostri dieci anni di attività, organizzando un concerto con vari musicisti che suonino i nostri brani insieme con noi e per l’occasione stampare un vinile quarantacinque giri con due pezzi inediti.
La seconda cosa in programma è una tournée negli U.S.A. in California.
Cinque date lungo la west-coast da definire a breve, sarà sicuramente un’esperienza indimenticabile.

7. Infine una domanda estranea alla vostra attività: che ne pensate della scena della vostra zona? Ci sono altre band interessanti magari nel vostro genere? Se poteste scegliere dove traslocare per avere più possibilità di emergere dove andreste? (Bologna e Milano non vale :D)
Pensiamo che la provincia di Ferrara sia una delle zone con la più alta percentuale di band eterogenee, ci troviamo in Emilia Romagna da sempre una delle maggiori sedi della cultura musicale italiana. Conosco tante band che se per loro disgrazia non fossero nate in Italia potrebbero essere conosciute in tutto il mondo.
Se dovessi trasferirmi per avere più visibilità, andrei sicuramente in un paese nordico tipo Svezia.Negli anni ho suonato con tanti gruppi di quel paese, in quei luoghi fare il musicista è visto come una professione vera e propria, a volte per fino stipendiati dallo stato per esportare la musica del proprio paese in giro per il mondo, cosa possibile in Italia?
Non credo….
Oppure mi trasferirei del tutto in California, spero che il nostro tour ci apra le strade verso il nuovo continente.
Vi ringrazio e dai Dubby Dub un super abbraccio.

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Clara Engel è un’eclettica artista canadese che vi invitiamo a scoprire a questo link ma sopratutto con la conversazione che abbiamo avuto la fortuna di fare con lei.

Ciao Clara, grazie per aver accettato l’intervista di The Webzine! Inizierò questa intervista con una domanda scontata: perché hai scelto di diventare una musicista?
Quando avevo tredici anni ho iniziato a scrivere canzoni. Ho scoperto che scrivere canzoni e cantare mi piaceva più di ogni altra cosa avessi mai provato al mondo, ma non c’era nessuna razionalità nella scelta, inseguivo solo un mio desiderio.

Dando un’occhiata al tuo Bandcamp, la prima cosa che attira l’attenzione di chi legge (e ascolta, si spera!) è la grande quantità di materiale che hai scritto. Faresti un piccolo riassunto della tua carriera per i nostri lettori? Quali elementi della tua discografia reputi più rappresentativi?
Non mi importa da dove la gente inizia, l’importante è che ascoltino. Visto che le canzoni fuoriescono direttamente dal mio corpo, cervello e polmoni non sarò mai capace di ascoltarle o apprezzarle in maniera obiettiva. Non posso essere una buona guida in questo senso. Il mio lavoro è inscindibilmente connesso con la mia vita intima e il mio passato, una sorta di enorme enciclopedia di me.

Alcuni titoli di tue canzoni presentano riferimenti geografici (Bethlehem, Madagascar, ecc.). E’ una scelta ponderata e motivata o una semplice coincidenza? Quali sono gli argomenti di cui preferisci parlare nelle canzoni? Sembrerebbe che la tematica del “viaggio”  sia in qualche modo collegata a molti tuoi lavori.
Non sono mai entrata in un aereo in vita mia. Mi ritengo una sorta di viaggiatrice dell’interiorità. Mi piacciono le parole e mi innamoro dei nomi delle cose e dei luoghi. Esiste una canzone che non ho ancora registrato che si chiama “Venezuela” e le prime frasi sono: “Non sono mai stato in Venezuela, ma è una bella parola da cantare”.

Una canzone in particolare ha attratto la mia attenzione: Heaven of Leaves. La tua splendida voce è perfetta per questa performance, poetica a suo modo (e come dici nel tuo Bandcamp l’ispirazione viene proprio da una poesia). Com’è nato questo pezzo?
Ho scritto le parole per Heaven of Leaves molto prima della musica. Il titolo proviene da una fotografia di Jim Shirey (padre del grande musicista Sxip Shirey). Sono stata molto presa da quella foto e quel titolo, così l’ho scritto e le altre parole sono uscite da sole. Ascoltare quella canzone mi fa pensare a quanto strano sia esistere: avere coscienza del mondo che ci circonda, avere un corpo e sapere che occupa uno spazio. Mi fa pensare all’esperienza di essere un osservatore, uno scrutatore…improvvisamente senti il rumore del tuo respiro, la sensazione e il peso del materiale appoggiato sulla tua pelle, il peso e la pressione causati dalle relazioni con altre persone ed esseri viventi. Il concetto di unione e separazione mi ha sempre interessato. Ci sono tante sfumature nel modo di vivere: si può essere osservatori attivi o partecipanti passivi, ad esempio. Per me tutto questo è nel tessuto narrativo della canzone. Mi fa anche pensare a quelle favole in cui una persona si trasforma in un albero, o in qualsiasi altro essere inanimato o privo di mente. Se avesse avuto un video, avreste visto sicuramente una colonia di funghi che crescevano.

Spostandosi su altri temi, com’è la vita di un’artista indipendente in Canada?
Per me, in questo momento, molto dura. Non mi piace lamentarmi, ma mi piacerebbe che andare in tour e registrare fosse più semplice. Non ho comunque nessun motivo per pensare che essere un artista emergente sia meglio altrove.

Qual è la tua esperienza personale nei confronti del tour e dei concerti? Hai suonato recentemente o hai piani in questa direzione?
Mi piace suonare dal vivo. Più suono dal vivo, più mi sento viva, utile e felice. Provo a suonare più spesso possibile, per portare la mia musica alla gente in sempre più occasioni. Trovate la lista dei miei show su Bandcamp!

Hai qualche progetto futuro in quanto ad album o altri progetti?
Sto cercando di raccogliere soldi per il mio prossimo disco “Ashes and Tangerines”. Sento che il nuovo materiale andrà oltre a quanto finora ho fatto, con più sfumature rispetto all’ultimo album. Sono molto entusiasta di poter registrare queste nuove canzoni. Ho un sito dove la gente può informarsi su questo progetto e acquistare il disco in pre-order: http://www.kapipal.com/claraengel

Grazie per aver accettato questa intervista
Grazie a te per le splendide domande

Emanuele Brizzante e Clara Engel

LINK:
http://claraengel.bandcamp.com
http://www.myspace.com/claraengel
http://www.facebook.com/claraengelmusic


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Erano mesi che non facevamo una “pleasant talk” con qualcuno che ci piaceva. In Italia non ce ne sono poi molti e il titolo, inutile, di disco dell’anno se lo stanno cuccando con 6 mesi di anticipo (almeno qui su The Webzine) i LEGNAiuoli di Correggio, ovvero i Gazebo Penguins.
Sollo e Capra in questo fiume di caratteri rigorosamente in font Georgia ci spiegano tante cose, l’origine del disco, l’origine del loro nome, l’origine dei lividi sulla schiena durante i concerti d’estate. E tanto altro.
Buona lettura.

Salve.
Grazie per aver accettato l’intervista di The Webzine.
Una domanda subito: nell’ultimo disco salta subito all’occhio il duplice cambiamento di genere e di lingua. Come si spiegano? Il nome “legna” è già abbastanza indicativo, c’è dell’altro?

Capra: Se dici che abbiamo cambiato genere, è stato un processo di cui non ci siamo coscientemente resi conto. Le canzoni vengon fuori man mano, e alcune canzoni di LEGNA erano  ancora invischiate nell’album prima, le suonavamo assieme alle altre, sono sorelle. Quando proviamo a fare le nostre canzonette, lo facciamo in sala prove. Quel che viene fuori, viene fuori dalla sala prove. E la nostra sala prove è qualcosa di continuativo, di estremamente consequenziale:  non ci sono cambiamenti di genere in sala, solo canzoni una dopo l’altra; e che tante volte non c’entrano nulla l’una con l’altra. L’unico vero cambiamento è stato cantare in italiano, e alla fine l’abbiamo fatto per diversi motivi: per provare, per vedere che risposta avremmo avuto ai concerti, e perché i pezzi ci sembravano più belli cantati così.

Sollo: per quanto riguarda LEGNA (che va sempre scritto in maiuscolo per enfatizzare appunto il senso già implicito nella parola in sé) volevamo un titolo semplice, veloce, che la gente ricordasse ancora prima di Gazebo Penguins, qualcosa a cui poi associ il gruppo magari. Direi infatti che LEGNA ora è il nostro genere musicale.

E’ evidente che un disco del genere trova la dimensione a lui più congeniale nei live. Cosa aspettarsi da un live dei Gazebo Penguins?

Capra: Dall’ultimo concerto che abbiamo fatto (a Varazze il 14 agosto, all’Osteria dell’Amor Cieco di Alessio e compagnia bellissima) io son tornato a casa con una caviglia slogata, i quadricipiti indolenziti e un livido grande come una mano sulla schiena.

Sollo: per quanto mi riguarda ho riportato diverse abrasioni, una totale perdita della voce e qualche segno in più sul basso.

Un disco veloce e diretto, corto ma d’impatto: come mai la scelta di un album con così pochi brani?

Capra: Avevamo quei brani lì già pronti, e ci sembrava che stessero bene assieme, che formassero una simpatica famigliola. Poi i concerti troppo lunghi ci hanno sempre annoiato. Poi 23 minuti è il tempo standard che impiego da casa mia al negozio di Reinzoo a Vignola. Quindi era perfetto.

Sollo: 23 minuti è il tempo che impiego in bagno alla mattina. Sono un fighetto. Sai che bello ascoltarsi un disco che dura giusto il tempo che fai qualcosa? Tipo tagliare il prato, andare da Correggio al Lido Po, ecc.

Interessante anche la scelta di pubblicare sul vostro sito tutti i costi di registrazione dell’album. Pensate che tutte le band dovrebbero farlo?

Capra: Abbiamo voluto dare un’idea di quanto costi fare un album (e un video poi) perché sono storie che spesso la maggior parte delle persone che ascoltano dischi non sospettano nemmeno. La questione dei soldi è quasi sempre un tabù. Per noi ha un significato preciso far sapere quanto si spende in soldi, tempo e impegno per fare quello che ci piace. Perché anche i soldi fanno parte del fare musica. E il discorso nostro era che LEGNA l’avevamo fatto avendo ben presente un disco non ci avrebbe arricchito, e nemmeno impoverito. Ma era qualcosa di così importante per noi, di così invischiato nelle nostre vite, che regalarlo, a dispetto di quanto si era speso per farlo, era la cosa più sensata. Per dire quanto ci tenevamo a questo disco, e quanto ci tenevamo al fatto che chi avesse voluto ascoltarlo avrebbe potuto farlo con un clic. Gli altri facciano quel che più li aggrada. A noi ci aggradava parecchio fare così.

Nel disco compare anche Jacopo dei Fine Before You Came. Come mai la scelta di includerlo nel progetto? Adatto alla musica, o semplicemente amicizia/stima professionale?

Capra: Mi sa tutte e due. Era un pezzo in cui la voce di Jacopo secondo noi calzava a fagiuolo, ed è stato l’inizio di un bellissimo rapporto di amicizia e di lavoro di squadra. Jacopo ha seguito tutta la storia di LEGNA, nonché la sua veste grafica e la stampa in serigrafia assieme al suo socio Stefano di Legno, e per tanti versi è stato un incredibile facilitatore e instancabile team supporter. Non credo immagini neanche quanto gli siamo grati. Carrello circolare. Lacrime. Stacco.

Sollo: poi adesso ci indicano come i Fine Bifore You Came 2.0. Vuoi mettere che onore?

Ultima domanda su LEGNA: il “fri daunlò” è ormai un metodo di distribuzione sempre più in voga. Sarà perché la gente non compra i dischi, sarà perché bisogna tenersi al passo coi tempi, voi come la vedete?

Capra: Sarà perché il valore di un lavoro oramai inerisce molto al quanto questo venga condiviso. Il tasto di facebook, a riguardo, è piuttosto pertinente: CONDIVIDI, ti dice. E se qualcosa che per te ha un valore grande, importante, che ha molto a che fare con la tua vita e con ciò che ritieni sia bello, viene condiviso da tantissime altre persone, allora si crea qualcosa di nuovo. Sei più convinto, e più tranquillo, e più contento. Hai la sensazione che quello che hai fatto non abbia più un valore solo per te, ma sia – per l’appunto – un valore condiviso. Prima non c’era niente. E dopo c’è questa roba qua. Ma non è tutto qui. Perché puoi anche fare qualcosa che pensi sia valido, e poi viene condiviso da migliaia di persone con cui non passeresti neanche quindici minuti alla fermata del tram. La cosa più bella è che tante delle persone che abbiamo incontrato da quando è uscito il disco sono persone belle, persone con cui siamo andati a cena, che sono venute ai concerti, con cui abbiamo bevuto e sparato cazzate. E che vorremmo rivedere. Carrello circolare. Lacrime. Dissolvenza al nero.

Sollo: io piango.

Facendo un passo indietro, come sono nati e perché si chiamano così i Gazebo Penguins?

Capra: I Gazebo Penguins sono nati a Correggio, e abbiamo iniziato a suonare perché volevamo diventare gli endorsment della Fender. Del perché ci chiamiamo così piacerebbe saperlo anche a noi…

Sollo: io poi mi sono venduto all’Ampeg ed è tutto finito. Sì, stento anche io a ricordare la nascita del nome, ma credo fosse una sera in cazzeggio a sparar cazzate che mai avremmo preso seriamente…e infatti non ce lo ricordiamo.

Le recensioni online vi hanno paragonato a decine di nomi diversi, come accade per chiunque. Qual è la vostra opinione sulle webzine e sulle recensioni che vi hanno fatto finora? (Tutte molto entusiastiche peraltro)

Capra: Le webzine, e i ragazzi e le ragazze che hanno il blog, e quelli che ne parlano su facebook, e  quelli che caricano i pezzi su youtube, e quelli che ci scrivono e compagnia bella: ecco la critica musicale importante. Tutta va nella loro direzione. Ed è quella che ci piace.

Sollo: postiamo anche sempre le cattive critiche su face book, magari sfottendole o prendendo un po’ per il culo chi le ha scritte, ma ci sta. Internet è una piazza aperta e ognuno può dire la sua su ogni argomento, così facciamo anche noi. Creiamo discussioni, io personalmente spesso provoco anche, ma per far nascere discussioni. Yo.

Ringraziandovi nuovamente per l’attenzione, vi chiedo se volete indicare quali sono i prossimi eventi a cui i fan possono venirsi a prendere della legna. 

Capra: Ti diciamo dove saremo in settembre, che ci son delle serata veramente a palla di fuoco: il 2 con gli Smart Cops a Vicenza, il 16 a Varese con Verme e Cosmetic, il 17 all’AntiMtvDay10 a Bologna che sarà una cosa da screpolarsi le ascelle, e il 23 a Belluno. Tié. Serenità.

Sollo: in ogni caso sul sito ( HYPERLINK “http://www.gazebopenguins.com” http://www.gazebopenguins.com) ci sono sempre tutte le date in real time. E qui tutto il resto:  HYPERLINK “http://www.facebook.com/gazebopenguins” http://www.facebook.com/gazebopenguins.  Pace.

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Ciao ragazzi. Un’intervista un po’ particolare per voi. Il vostro disco mi è piaciuto molto, nonostante, bisogna ammetterlo, la new wave sia un genere talmente (ab)usato e (ri)utilizzato da aver raggiunto probabilmente la soglia di sopportazione di molti. Volevo chiedervi di fare un’analisi di questa scena dal punto di vista della band. Perché ha fatto successo negli anni ’80, quali linguaggi funzionano ancora oggi, e perché questo revivalismo è molto di moda al giorno d’oggi?
Non so perché la new wave ha avuto successo, So che mi piacevano questi suoni cupi, queste voci spezzate, questi giri di basso potenti ma avvolgenti… Eravamo nel pieno della guerra fredda, contrapposizioni forti, e questo era ciò che usciva e che, senza accorgercene è entrato in noi. Il bello è che abbiamo assimilato tutto, lentamente, nel profondo e adesso a 25 anni di distanza esce “masticato”, digerito, vissuto, arricchito e con un pizzico di ironia in più.

Voi vi riconoscete nelle etichette che i recensori spesso utilizzano per definire questo genere? Mi riferisco a indie rock, new wave, dark wave, post-punk. Da recensore ho spesso a che fare con questi termini, ma mi rendo conto di come a molti vadano stretti…
Per riallacciarsi alla prima domanda, non parlerei di revival della new wave, ma di un nuovo genere, la nostra “Old wave”, fatta da chi ha vissuto e interiorizzato suoni, temi, mondi ed emozioni della new wave. Non credo sia una new wave riproposta.

A cosa si deve la scelta del vostro nome? E quello del disco?
Da un lato gli anni 80 sono il periodo della guerra fredda, gli anni dell’atomica, di Chernobyl e del Giappone come mondo lontano che interpreta l’occidente. Dall’altro una lettura scanzonata, ironica e di sberleffo nei confronti di tutta questa tristezza. Da qui il doppio senso del nome. Noi siamo anche i fondatori del “Nichilismo light”: un movimento il cui motto “I want to die, but not today”, la dice lunga su quanto siamo apocalittici e distruttivi rispetto al nostro mondo, ma… con calma.Old wave prophets? I profeti di un vecchio nuovo genere, ma anche di un nuovo vecchio genere, dipende dai punti di vista di chi ascolta. A noi vanno bene entrambe le definizioni.

Raccontateci la nascita del vostro ultimo lavoro.
Avevamo la voglia di fissare parte del lavoro ma con la certezza di ottenere determinati suoni. Poi l’incontro con Luca Pernici (Marla Singer, Il Nucleo, Ligabue….) che ci ha fatto il suono che volevamo e contestualmente l’idea/pazzia dell’etichetta “Lo Scafandro” fondata da Fiorello e Namo (rispettivamente il nostro bassista e il chitarrista) hanno trasformato l’idea di un demo in un CD vero e proprio.

Cosa si deve aspettare il pubblico da un live set degli Atomika Kakato? Se avete qualche data in programma che volete pubblicizzare utilizzate pure questo spazio! Pubblicità gratuita, non si butta mai via 🙂
Ci presentiamo come potete vedere nel booklet del CD. E poi tanta energia, velocità, forza sonora. Stiamo al momento proponendo concerti di “etichetta” ovvero la presentazione in toto dello Scafandro. Prossimamente suoneremo a Carpi (MO) al Kalinka Venerdì 18 febbraio. . Oltre a noi suonerà Fabrizio Tavernelli (AFA, Dischi del Mulo, Groove Safari, Ajello, ecc.). Sicuramente sarà una bella serata.Dalla primavera, una volta selezionata l’agenzia di booking, cercheremo di fare date ovunque da soli.

Cosa ne pensate voi che siete una band (e quindi siete nel lato opposto rispetto a me, recensore) della stampa musicale? Al momento le webzine spopolano, la stampa cartacea è in crisi ma mette ancora l’ultima parola nel definire quanto un disco funzioni.
Adesso è tutto molto veloce, immediato, diretto, facilmente fruibile e le webzine sono assolutamente in linea con questo. Le webzine si raggiungono facilmente, sono incisive nel loro essere spesso “espresse”, hanno il pregio della velocità e spesso sono targettizzate, quindi è facile per gli appassionati di un determinato genere capire che cosa sta illustrando il recensore. Il diffetto per paradosso è l’eccessiva ” interattività “, quindi è facile disperdersi durante la lettura di articolo. La rivista consente una lettura informale, spesso più comoda e rilassata.

Il futuro degli Atomika Kakato?Siamo in giro a presentare il CD, stiamo già lavorando a nuovi pezzi e…. speriamo di vederci in giro.
Grazie per aver preso parte a questa intervista, per voi le porte di The Webzine saranno sempre aperte. Un saluto!Grazie a te, vi terremo allora informati delle prossime date e altro. Ciao!

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La serie delle nostre piacevoli conversazioni continua. Stavolta tocca ai Blugrana. Buona lettura. 

Salve ragazzi! Blugrana è un disco nato in molto tempo, in due sessioni diverse. Com’è stato il processo di registrazione? Come lo avete vissuto?
Intanto grazie per averci dato la possibilità di fare questa intervista e un saluto a tutti i lettori. Il disco inizialmente era nato per essere un cd demo da proporre successivamente agli addetti ai lavori per cercare di trovare una possibile produzione, proposte che però non sono arrivate o perlomeno sono arrivate ma non le abbiamo ritenute adeguate. Allora un anno dopo siamo ritornati in studio di registrazione per aggiungere 6 tracce alle 5 che avevamo già registrato, per poi uscire con il nostro primo album legandoci all’agenzia di promozione Lunatik. Questa decisione di uscire con un’autoproduzione è una scelta dettata dal momento di crisi discografico italiano, una situazione che non aiuta i gruppi emergenti come noi, una situazione dove le etichette discografiche non investono più su band giovani o comunque non in maniera adeguata.

Il singolo “Desmael” è un brano molto orecchiabile, ma non per questo poco interessante. La scelta di utilizzarlo tra i primi estratti è condizionata dal suo aspetto melodico, o semplicemente dal vostro gusto personale? Raccontateci come nasce e cosa significa questo brano per i Blugrana!
La decisione è stata presa seguendo entrambi gli aspetti. Infatti secondo noi è si una bella canzone ma anche di impatto musicale e melodico.La canzone ha una storia veramente particolare. Infatti Marcello (autore del testo), l’ha scritta grazie al suo lavoro. Lui fa il postino e per un determinato periodo ha portato la posta al carcere di massima sicurezza delle Novate a Piacenza. In questo periodo lui notò che c’era una persona che scriveva in media dalle 4 alle 5 lettere al giorno ad un carcerato, questa persona si chiamava Dhehesmhael (poi italianizzato in Desmael). Marcello non sapeva se, questa persona che scriveva, fosse la mamma, la figlia o la moglie del carcerato, quindi decise di inventarsi una storia tutta sua e nacque il testo del brano. Successivamente bisognava mettere a queste parole una musica adeguata, quindi entrò in scena Bruno che già da tempo aveva un arrangiamento molto interessante, che diventò subito dopo la musica di “Desmael”.Per noi questa canzone è molto importante, perché abbiamo deciso di puntarci molto e di farla diventare il nostro singolo di esordio.

Blugrana. Perchè questo nome?
Non ha un senso preciso. A Marcello sembrava musicale e lo ha proposto ai suoi compagni, a cui è piaciuto molto ed hanno deciso di usarlo.

Se dovessimo chiedervi di analizzare la scena italiana con riferimento alla vostra regione,come rispondereste?
Crediamo che la scena musicale Emiliana sia molto standardizzata. Il genere pop rock è molto presente anche se è assolutamente il liscio a farla da padrone, infatti ci sono band che guadagnano come artisti internazionali e fanno fino a 20 date al mese. Per quanto riguarda la scena emergente invece possiamo dire che, avendolo vissuto in prima persona, c’è una situazione molto diversa: infatti il livello è molto alto e i generi si diversificano molto di più diventando, a nostro parere, una delle scene leader in Italia.

Avete realizzato anche un video di recente. Com’è stato girarlo,e quale idea sta alla base di questa clip?
È stata un’esperienza incredibile e nuova. Ci ha arricchiti molto,soprattutto perché abbiamo lavorato con dei professionisti veri capitanati dalla regia della talentuosa Laura Gallese. L’idea era di fare un video di impatto, che potesse incuriosire chi lo sta guardando. Ma non c’è  solo una spiegazione tecnica, abbiamo cercato di dargli un senso anche in base alla canzone. Il brano, infatti, racconta di un carcerato che scrive alla sua compagna dalla sua cella, quindi si trova in una situazione di disagio con cui è costretto a convivere. Pertanto nella clip abbiamo raccontato di una ragazza che vive la quotidianità di una casa, costretta a convivere con una serie di personaggi che percorrono l’abitazione non curandosi di lei, questi personaggi rappresentano il disagio. In sostanza sono 2 storie completamente diverse legate però dallo stesso significato morale.

Cosa si deve aspettare il pubblico da un concerto dei Blugrana?
Da sempre i live sono stati la nostra forza. È il momento che ci piace di più in assoluto, ma soprattutto il momento in cui diamo sempre il meglio di noi stessi. Anche il lavoro che facciamo in studio viene fatto in prospettiva del concerto che poi andremo a fare, perché secondo noi è importante che una persona che ascolta il disco possa ascoltare le stesse cose in un live o perlomeno non completamente stravolte. Grazie tanto per averci intervistato e per esservi interessati a noi.

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Il nostro pessimo inglese non poteva che infrangersi contro lo spessore del suo personaggio. Ma noi abbiamo preferito intervistarlo lo stesso, non si sa mai!
A voi la lettura

Hi. Nils Frahm, in Italy, is a project only known to a little selection of
music aficionados. Can you scrap a little biography, just to understand how
the project was born?
First of all I think the whole project “nils frahm” cant be called a project since it is me and I stand for all the music with my real name. I am in love with music since I can think and I always have worked as an active musician.
I played in several bands, school orchestras, collabortated with people like, Peter Broderick,  Dustin O´Halloran, F.S.Blumm, Anne Müller and many others.
I mainly work in my own studio on my music but also help other musicians with their productions. I work as a mastering engineer and mixing engineer numberless projects. So I work on a lot of projects these days, but I don’t like to think of “nils frahm” as a project; I will always work on my music
and in the moment this music is based around my first instrument, the piano.

Your biographies all over the web talk about your first steps in music being made along with the great Nahum Brodski. What does it means, for a musician living and working in a modern context, to carry out a kind of
music that is actually rooted in the classical music, in the past?
I just can consider myself very lucky. It was great luck to study with this ingenious teacher. He was a successful concert pianist in Moscow until he had to leave the country because of political reasons. He ended up in my small hometown near Hamburg and my father heard of him by accident.
I don’t know if he would honor the music I am playing now much, but he would  likely appreciate the passion I put into it. He always tried to explain to me that “ass” (skills and exercises) is nothing without “heart”. He heard that I have some “heart” but maybe I never had enough “ass” to make it in
the classical world. I think I am alright with that though.

Thom Yorke has made big appreciations of your music several times in the past. Have you ever met and known him? What did he say about Nils Frahm’s music?
Well, I have never met him and I also don’t think that he thinks about my music too much. He put one of my tracks on his office charts, which was exciting since I am a big fan of his work.

What does the audience have to expect from The Bells?
A really intimate series of improvised piano recordings. I like to think of the record more as a wonderful sounding scratch book. You listen to song ideas in progress and I think you shouldn’t expect too much from anything, but you ll find some beauty in it once you feel ready to listen to the whole thing in silence and with patience.

How was it to record your new work inside a church? Was it a new experience or had you done it before?

I just was really thrilled about the acoustics in this place. Other than that I never had a strong relation to these buildings. But I listen a lot to arvo parts music and I love the epic reverbs in his productions. I couldn’t think of piano albums being ever recorded in a such an environment, so I found the idea tempting. It turned out to be a a very special recording session. Peter and me spent two nights in this wonderful space. We lit some
candles and just got carried away.

How do you think your career is going to evolve in the future? Have you got some plans, with new records, projects, experimentations, a tour, or something?
I actually will have a pretty busy year. First of all I will finish the recordings for my next full length album in spring before I go to Japan with Peter Broderick to play a tour over there. After that I will spend some time in the US and play more shows there. In autumn my record will come out and I plan to do some more touring in Europe then. But before I will join Peter Broderick´s live band to help him perform his upcoming album release which I produced for him over the last two years. I think by the end of all this it will be christmas again.

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Ciao Vuoto Apparente e grazie per aver accettato la nostra intervista. Partiamo dal vostro nome, com’è nato e perchè? La sensazione di vuoto che dovremo provare per il nostro clima politico c’entra qualcosa?
Ciao e grazie a  te per la possibilità.Nonostante concordi circa il nostro clima politico sociale, la questione del nome è legata ad un’altra vicenda.Sostanzialmente è l’unione semplice di due concetti più complessi.Il “Vuoto” deriva dalla semplicità testuale e di contesti che uso riportare nei miei brani, anche se, effettivamente, ad un ascolto attento mi piace complicare la situazione con “rimandi” e “metafore”.Gioco con le parole cercando un senso e mi piace vedere come reagisce l’ascoltatore. Una semplicità che è legata a qualcosa che non pretendo sia solo mio, ma che possa essere “sentito” fisiologicamente ed empaticamente, anche da qualcun altro.Ecco quindi nascere il binomio, Vuoto Apparente, mi piacque, lo misi.

Pan di Zenzero. Un disco che contiene molti elementi, dall’indie, al pop, al folk, al rock. Quali sono state le influenze principali per comporlo, e come mai questo nome?Alla ricerca di quella famosa semplicità direzionale di cui ti parlavo prima volevo trovare per tutto l’insieme di canzoni un nesso che riuscisse a comunicare tra e con tutte.Il pan di zenzero è un cibo dolce, sostanzialmente costituito dal pane, un cibo che afferriamo e con cui abbiamo a che fare quasi tutti i giorni e dallo zenzero che aggiunge un attimo di “dolce” malinconia senza esagerare. Tutti ed 8 i brani presenti nel disco sono un percorso che mi ha visto protagonista, sconfitto, vincitore, spettatore, o soltanto mente immaginativa.Il nome è appunto la sintesi dell’istinto autobiografico che penso pervada l’album. Le influenze sonore sono quelle di un pop ascoltabile, un cantautorato classico, un tocco di folk dato dalla presenza di chitarre, sonagli e piani.

Ci sono band che snobbano i testi, altre che li mettono in primo piano rispetto alla musica. Vuoto Apparente come si regola in questo senso, e ci sono state magari anche delle influenze dal mondo della letteratura?
Penso che i testi siano una parte fondamentale della dicotomia Musicalità/Parole, soprattutto all’interno della leva “Cantautoriale”. Una canzone che ha un testo “significante” acquisisce quello scatto di senso in più che lascia qualcosa in chi ha ascoltato.Sia la musica che il testo sono due mezzi di portata enorme, lasciarne per strada uno significherebbe snaturare l’altro.Non credo che riuscirei mai a terminare qualcosa, anche  armonicamente interessante, che testualmente però, non assume un connotato preciso.

La scena siciliana ha prodotto tanti grandi nomi ma non si è mai veramente formata. Negli ultimi tempi mi vengono in mente solo Il Pan Del Diavolo e per il resto tanti, tantissimi, artisti emergenti che fanno fatica ad uscire dai confini segnati dal mare della vostra terra. Sapreste spiegarci che clima si respira per i musicisti e, più in generale, per gli artisti e gli addetti ai lavori della cultura nella regione Sicilia?
Tocchi un tasto dolente.Sulla scia di grandi artisti quali Battiato, Carmen Consoli ed altre apprezzabilissime proposte non si può comunque negare che al giorno d’oggi per il sostrato musicale emergente siciliano si trova veramente poco spazio, poche opportunità, poco respiro.I mezzi di fruizione artistica, quindi i locali per esibirsi, le piattaforme promozionali e lavorative in questo ambito sono scarse e/o insufficienti.Se anche qualche buona etichetta oppure ente-associativo made in Palermo riesce a proporre qualcosa di utile, è comunque sommerso di richieste ed impossibilitato nell’accontentare tutti.Il fatto è che è tutto lasciato molto sulle tue spalle.Devi “inventarti” giorno dopo giorno, arrampicarti suonando in qualche “localetto” di periferia per farti vedere, cercare di farti ascoltare. Molto difficilmente quindi un progetto varca i confini della nostra regione, con questi presupposti, nonostante sia comunque ben lanciato.Ti parlo assolutamente per esperienza personale, il fatto che sia riuscito in due anni di “Vuoto Apparente” a trovare prima una etichetta distribuente e poi una seconda con un aiuto di booking, rappresenta una conquista colossale. Il pan del diavolo che tu citi è una conferma in quanto credo abbiano da subito preso il treno giusto sia per meriti loro indubbi, sia per gli sforzi di una buona etichetta nostrana, una delle poche. Non capita a tutti di prender quel treno.

Com’è un live set di Vuoto Apparente? C’è chi si focalizza sull’intensità, chi sul comunicare qualcosa, chi sulla precisione, chi sul sound.
Noi siamo una formazione trittico; Una chitarra/voce, una batteria ed un basso.Il live è un momento importante che credo sia la sintesi di tutto quello che abbiamo provato/inventato insieme.Da quando ho trovato queste due strumentiste, due ragazze a cui devo molto per la registrazione di “Pan di Zenzero”, siamo anche l’unione di più “sensazioni” all’interno del nostro live set.Personalmente ho sempre contato molto nel rapporto con il pubblico, Per me il concerto non è e non può essere soltanto un “Io suono – tu ascolti”. Spesso mi capita di spiegare il senso di una mia canzone, di rispondere a domande del pubblico o semplicemente di fare una battuta per far ridere le persone presenti. Tutto questo mi è reso più facile dalle mie due compagne di viaggio, Simona Alletto (Basso) e Cristina Di Maio (Batteria) che assecondano (e a volte contrastano) abilmente tutti i miei colpi di testa durante il live, che diventa così una cosa veramente divertente oltre che, naturalmente, concertante.

Cosa c’è nel futuro di questo progetto? Altri dischi, un tour, collaborazioni varie, video?
Per adesso stiamo portando avanti un mini-tour di promozione per l’album. Iniziato a settembre del 2010 (mese di uscita del cd) ci ha visto toccare diverse mete da Palermo alla provincia, da Trapani a Messina fino a Venezia ed Assago. Grazie alla nostra etichetta attuale, la Movimento Flaneur, con sede in Milano, lavoriamo su due fronti, nord e sud. Il cd è in vendita su tutti i migliori store di internet compreso il famoso ITUNES.Per il futuro abbiamo ancora delle date da affrontare, la prossima il 24 marzo  @ “Al solito posto” di Vimercate (MB) per la rassegna “L’ora di Londra”. Inoltre abbiamo pianificato una nuova produzione soltanto in fase embrionale. Posso dirti che sarà un EP e che verrà registrato in studio a Palermo nei prossimi mesi. Poi forse c’è una questione per un mio video, ma qui stiamo proprio in fase “ideale”.

Vi lascio lo spazio finale per parlare di tutto quello che volete. Secondo me sarebbe bello dare ai lettori un’indicazione di quello che il progetto Vuoto Apparente vuole davvero comunicare, perché dovrebbero ascoltarlo, cosa c’è di nuovo, cosa lo muove, cosa c’è alla base?
Possiamo solo ringraziarvi nuovamente per averci dato la possibilità di poter parlare un po’ di noi, di questo progetto senza troppe pretese teso a raccontare in modo semplice aspetti della vita che accomunano un po’ tutti senza però scadere nella banalità. Speriamo con le nostre parole di aver almeno incuriosito parte del pubblico che non ci conosce ancora e di averlo invogliato all’ascolto di un lavoro costruito con passione, dedizione a anche molti sacrifici.

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Dopo aver recensito Dromomania, è arrivata l’ora di intervistare Le Scimmie, un duo che sta facendo faville in Italia. Questa è la piacevole conversazione che abbiamo avuto con loro, noi, per voi.

INTERVIEW
Salve. Il vostro disco è piaciuto molto alla redazione di The Webzine. Come sta andando la promozione?

Innanzitutto grazie. La promozione devo dire che sta andando molto bene, abbiamo avuti ottimi riscontri e questo non può che farci molto piacere dato che “Dromomania” è un disco in cui abbiamo messo noi stessi, è un lavoro alquanto sentito.

Doom, noise, grunge, c’è molto dentro Dromomania. Quali sono le vostre influenze più manifeste e quelle più “sotterranee”?
Mi piace questa tua domanda per le due differenziazioni. Come hai detto anche te c’è molto in questo disco, noi stessi non sappiamo definirlo (questo anche perchè non ci piacciono poi molto etichettare i generi musicali) in ogni caso tra le influenze più manifeste c’è sicuramente una buona dose di stoner derivata in principal modo dai Kyuss poi da citare ci sono anche gli Electric Wizard ed i Lightning Bolt su tutti; per il resto ascoltiamo davvero di tutto, io soprattutto oltre ad ascoltare robe stoner, doom e noise apprezzo molto il rap underground italiano e soprattutto la scena romana ed anche il vasto mondo del cantautorato.

Come mai i titoli, sia del disco che delle canzoni, sono spesso così criptici, quasi da codificare? Spiegateci in che modo li scegliete e, se per voi, hanno un senso oppure no.
Hanno assolutamente senso. Facendo musica strumentale il titolo diventa ancora più importante, credo che per lanciare il messaggio ci sia un buon 50/50 tra brano e titolo.

Un live delle Scimmie sarà senz’altro devastante. In Italia band analoghe possono essere anche i Lento e gli Ufomammut. Cosa ne pensate? Com’è un vostro set?
Stimiamo un sacco le band da te citate e molte altre del genere, tanto per fare altri due nomi Zu e Morkobot. La nostra vera identità è quella live, ci sentiamo molto più una live band che una band da studio; nei live cerchiamo di condensare al massimo le nostre forze e dar vita ad uno spettacolo che possa lasciare qualcosa nel pubblico.

Se dovessero chiedervi di fare un’analisi della scena italiana, come rispondereste?
Ci sono molte cose belle ed interessanti che però fanno fatica ad uscire non solo per una questione di produzione ma anche e soprattutto di pubblico.

Il futuro delle Scimmie? A voi la parola! Se avete qualche concerto in programma che volete pubblicizzare, utilizzate pure questo spazio!
Il tour di Dromomania partirà il 29 gennaio al Mono Spazio Bar di Pescara poi passeremo per Torino il 26 febbraio, a Fano l’11 marzo ed altre date in via di definizione, trovate tutte le news aggiornate sul nostro MySpace.

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Le nostre piacevoli chiacchierate ci portano oggi nella nostra sala da té virtuale con i BAROQUE. Buona (pleasant)lettura.

Ciao Baroque. Il vostro disco, Rocq, è un buon miscuglio di diversi ingredienti. Genuino, luminoso, ben fatto: voi come lo descrivereste, con riferimento al numero di diversi generi e il modo in cui è stato composto?
Apprezziamo molto che tu abbia colto l’elemento “luminoso”. A prescindere dai generi influenti, che sono fondamentalmente gli stessi che hanno toccato il nostro primo disco, in questo secondo lavoro abbiamo cercato di lavorarli di modo che il risultato fosse un’energia di tipo “bianco”. Crediamo che sia qualcosa di cui il nostro paese e la sua scena creativa abbiano un vitale bisogno… e non solo da parte nostra. Per quanto riguarda il songwriting lavoriamo molto singolarmente, per poi adattare il pensiero originale alle peculiarità sonore e stilistiche di ognuno all’interno della band. Ci sono poi invece pezzi come “La Festa dell’Alloro” che sono nati in sala e la cui live-icità salta facilmente all’orecchio.

Avete creato una vostra etichetta, Hertz Brigade Records. Come mai? Avrà un futuro aperto anche ad altre realtà o riguarda solo voi?
Hertz Brigade non é nostra. E’ un’etichetta che é nata da meno di un anno per dare un inquadramento a gruppi come il nostro, i Nymphea Mate, Med In Itali e L’Inferno di Orfeo. Parliamo comunque di gruppi torinesi. E’ nata da buonissime premesse e soprattutto da uno spirito di condivisione totale del lavoro e delle aspettative. Con i dovuti distinguo, ci auguriamo possa acquisire il titolo di “Rough Trade” nostrana molto presto.

I titoli delle canzoni sono piuttosto particolari (“Cardiopasto”, “Karatechismo”, ecc.). Quanta attenzione fate a questo aspetto? Hanno un significato contestuale al pezzo, oppure insieme, all’interno del disco.
Ah….. i titoli dei pezzi. Questione sempre dolente!.. Spesso sarebbe meglio fossero gli ascoltatori a suggerirli! Scherzi a parte, ci badiamo relativamente poco: in genere non sono che aggiustamenti dei working title dei provini che facciamo. Il caso più eclatante é sicuramente “Soup de la Maison”: Mat l’ha intitolata così perché musicalmente era, parole sue, “una pietanza di carne, pesce, verdure e formaggi”. Insomma un pastone difficile da digerire!

Qual è il messaggio che la vostra musica vuole comunicare all’ascoltatore? Insomma, non tutti si aspettano dei contenuti, però di solito l’artista ha un piano quando compone una canzone.
Hai detto bene… la musica. Ci preoccupiamo poco di attribuire contenuti ideologici ai nostri pezzi. Quello in fondo é il lavoro della prosa e un po’ della poesia. Abbiamo tuttavia un nostro senso dello sdegno di fronte a certi aspetti della realtà e della mediaticità italiana… ma preferiamo di gran lunga esorcizzarle, combatterle sul loro stesso terreno, l’illusione: creando immaginari diversi da quelli aridi che “poppiamo” tutto il giorno alla tettarella di alcune trasmissioni tv. E’ puramente una questione di far prendere le persone bene, di galvanizzarle, qualsiasi cosa stiano facendo… fosse anche solo per tre minuti e mezzo.

L’attività live dei Baroque come si snoda? Un semplice concerto, o c’è di più? Qual è l’aspetto dei vostri live che arriva più direttamente al pubblico?
In occasione di questa seconda uscita abbiamo fatto un restyling completo, che tocca necessariamente anche l’aspetto live. In passato eravamo molto “scuri” ed infuocati, dei veri diavolacci. Ora… beh, direi siamo decisamente più spumeggianti. Abbiamo voglia di dare alla gente un’esperienza vivificante, farla uscire dal concerto con idee in testa e voglia di fare. Genere e livello diverso, per carità… ma non ci dispiacerebbe sviluppare l’energia di uno Springsteen. Ad ogni modo é qualcosa di cui riusciremo a parlarti meglio nei prossimi mesi, quando saremo in tour e volta per volta affineremo i tempi dello show. A prescindere da tutto, il centro focale dei nostri live rimane e rimarrà sempre l’audience.

In passato avete aperto a tanti grandi nomi della musica internazionale. Ricordateci chi sono, e come sono state queste esperienze.
Abbiamo suonato di spalla a Nick Cave, Primal Scream, Blonde Redhead e ai non minori Africa Unite, Ministri, Marta Sui Tubi. Non c’é esperienza live migliore di trovarsi a suonare di fronte un’ audience che non c’entra un cazzo con te: é in quelle situazioni che impari i veri trucchi del mestiere… e comunque noi abbiamo appena cominciato. Tra tutti… gli Africa Unite una spanna sopra gli altri: hanno un rispetto, una cordialità ed una passione dal vivo (anche se a noi il reggae non fa impazzire) che ti lascia un profondo senso di orgoglio.

Grazie per aver partecipato all’intervista, un saluto da The Webzine
Grazie a te caro.

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Per voi oggi una piacevole conversazione con i CARNEIGRA

Carneìgra è tante cose, ma soprattutto un progetto di ampio respiro che affonda le sue radici nella musica popolare acustica. Che ne pensate, come vi definireste come progetto? Siamo scrittori di canzoni, fondamentalmente.Abbiamo formazioni ed esperienze molto diverse, ma tutti una gran passione per la canzone e per la musica popolare. ci piace molto rimetterci in discussione ogni volta, questo disco ne è un esempio, è molto diverso dagli altri. E’ una ricerca continua, che parte appunto dalla canzone, dal testo ,da atmosfere popolari, dalla tradizione.
Nell’ultimo disco ci sono anche strumenti particolari (mandolino, mandola, ukulele, clavinet, ecc.). Come mai questa scelta? In che modo ridefinisce e complica il vostro sound? “Fumatori della sera” è un disco particolare, a volte spigoloso, a volte dolce e romantico. La formazione, il trio, riduce tutto all’osso. Abbiamo scelto strumenti popolari “veri” raramente usati per questo genere di musica se non in contesti di musica tradizionale. Le sonorità che ci portano sono altamente caratterizzate, ma il loro utilizzo ci apre stilisticamente un mondo poco esplorato.
Pensate che il progetto Carneigra aggiunga qualcosa alla scena della vostra regione? Lo speriamo vivamente. Attualmente in Toscana ci sono numerose realtà molto interessanti, noi cerchiamo di portare il nostro piccolo contributo.
Qual è l’opinione di voi, come musicisti, della stampa musicale che si occupa di promuovere o bocciare gli artisti? Credo che la stampa sia sempre molto importante in quanto comunicazione. Spesso però si leggono e si scrivono opinioni personali che sono abbastanza distanti dall’obiettività. La critica penso sia sempre molto utile se costruttiva, altrimenti può essere molto dannosa, almeno per l’autostima personale.
Una sola parola per definire il vostro ultimo lavoro, Fumatori della Sera? Gradevole?
Come mai avete scelto questo titolo per il vostro disco? Spiegateci com’è nato, com’è stato registrato, cosa volevate comunicare con esso fumatori della sera ci sembrava un titolo accattivante, non banale e che lascia adito a varie interpretazioni. In realtà quando ho scritto questo brano sono partito semplicente da una cosa che ci accomuna tutti e tre: siamo realmente fumatori della sera, nel senso che fumiamo veramente solo la sera. Mi sembrava una cosa curiosa. Nel brano ho cercato di descriverci un pò, di raccontare delle caratteristiche che ci accomunano, uno stile di vita. Poi ,ovviamente, penso che tutti i musicisti siano un pò “fumatori della sera” dato che è appunto in questo momento della giornata che di solito lavoriamo, ci esprimiamo. Il disco è stato registrato nello studio dell’associazione musicale Spaziozero della quale io sono il presidente da Antonio Castiello, un amico e un grandissimo professionista. Abbiamo fatto una lunghissima preproduzione per cui tutto il disco è stato registrato in una settimana.
Il futuro dei Carneigra? Questo è veramente un domandone. Questo è il nostro terzo disco, la nostra terza autoproduzione. Spero che il futuro sia un pò meno faticoso. Abbiamo una grande passione, ma iniziamo anche ad avere una certa età….. Credo che ci meritiamo un futuro appena un pò più roseo, magari con un pò più di riconoscimento. Niente di particolare, solo riuscire a lavorare con un pò più di serenità. Grazie per aver preso parte a questa intervista. Un saluto! Grazie a te.

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Con questo numero inauguriamo la nuova rubrica di interviste A PLEASANT TALK WITH.
Apertura affidata ai Deadpeach. Buona lettura.

Ciao Deadpeach. Il vostro progetto è molto interessante e, se mi permettete, arriva in un periodo in cui stoner e generi analoghi stanno ritrovando un certo pubblico, soprattutto per i concerti. Come vedete la cosa? Immagino che questo non abbia avuto un ruolo determinante nel definire il vostro genere, ma chi lo sa! A voi la parola
Ciao il nostro genere si è definito da solo nel tempo tanto è che oggi suoniamo sempre piu’ come i Deadpeach :), il pubblico rimane sempre un pubblico ‘di genere’, inoltre quello che viene definito stoner comprende generi abbastanza differenti che vanno dalla psichedelia piu’ o meno pesante al doom passando anche per cose piu melodiche. Noi preferiamo definirci ‘psychedelic fuzz rock’ .

Il disco si chiama semplicemente 2. Come i Led Zeppelin, come Le Vibrazioni. Band che non hanno molto a che fare con voi. Come mai questa scelta? La mia analisi probabilmente sarebbe riduttiva senza il vostro apporto
2 perchè è  il nostro secondo ‘full length’ e volevamo dare un titolo che non fosse né in lingua inglese né in italiano. Quindi abbiamo pensato a 2.

Nebula, Kyuss e progressive italiano. Di questo parlate quando vi chiedono a chi assomigliate. Se dovessimo approfondire ulteriormente la rosa delle vostre influenze, dove dovremo andare a parare?
In realta siamo stati paragonati ai gruppi da te citati, non l’abbiamo detto noi. Come gruppi che possono averci influenzato potresti partire da gruppi come Blue Cheer, passando per i Loop e gli Spaceman Tree, arrivare ai The Heads, poi tornare a I Teoremi; prendere Beatles’ e The Who, mischiarli ai Diaframma, ascoltare i May Blitz ed andare a comprare un disco dei Meat Puppets più o meno.

Gurdjieff e Ouspesky. Nomi grossi! Come li avete scoperti e perché avete deciso di utilizzarli per la vostra musica?
Sono letture che se riesci ad approfondire ti fanno guardare alle cose in modo differente, oppure sono letture che puoi liquidare dopo poche pagine in: ‘queste cose non mi interessano’ o  ‘ma che cosa stanno dicendo”. Su di noi hanno fatto presa come il cemento rapido.

2 è stato registrato con strumenti analogici e vintage, anche questa una scelta coraggiosa, ma vincente. Alla fine c’è ancora gente che, come me, pensa che le registrazioni digitali non valgono niente rispetto a questo tipo di registrazione!
Per la strumentazione la cosa e stata abbastanza normale in quanto anche dal vivo usiamo strumenti abbastanza datati ed effetti del passato. Per lo studio dov’era possibile abbiamo scelto la via analogica. Dove non era possibile c’era sembre un bel Mac ad aspettarci. Il digitale non ha preso il posto dell’analogico perchè migliore di esso, ma solo perchè piu’ pratico e meno costoso nelle manutenzioni.

Il live dei Deadpeach: io me lo immagino potente, graffiante, fuzzettone. Voi come lo descrivereste?
Si gli aggettivi da te usati vanno bene,ma in poche parole potrei dirti ‘volume over talent’

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