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Archive for the ‘ETICHETTA: Memphis Industries’ Category

Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: Memphis Industries
GENERE: Indie Pop

TRACKLIST:
1. Cadenza
2. Fragrant
3. Sting
4. Dressage
5. Ocduc
6. Dolli
7. X-O
8. Orvil
9. The Rub
10. The Ink
11. Zalo

Manchester si conferma da qualche anno una città molto prolifica in quanto a band di questo tipo: definirle indie è diventata una moda abbastanza difficile da combattere, ma dopotutto se un genere s’ha da citare, è quello. Aggiungiamo, per l’occasione, l’accezione “pop” che perlomeno racchiude dentro di sé un’essenza di orecchiabilità e facilità d’ascolto che è propria di band come quella di cui si sta per parlare.
I Dutch Uncles vengono, appunto, da Manchester. Nel 2009 apparivano per una comparsata momentanea, scomparendo poco dopo. Nel 2011 ritornano in grande stile, con un disco pubblicato da Memphis Industries (che non è poco, visto che lavorano con Banjo or Freakout, The Go! Team e Cymbals Eat Guitars, per citarne alcuni da un nutritissimo roster), che prende il nome di Cadenza: termine che difficilmente può essere accostato alla musica dei DU ma che, a dire il vero, può descrivere in maniera decisa il groove medio dell’album giacché le canzoni, nonostante alcuni innalzamenti di tono che puntano principalmente a ballabilità e radiofonicità, tendono ad incespicare in ritmi piuttosto rallentati e poco “salterini”. Come dire la tendenza a ritmiche quadrate. Un privilegio di quei pochi che lo sanno fare, e poi chi si lamenta? Perché se il disco è bello è anche grazie a questo.
Le undici tracce raccolgono più o meno tutti gli elementi basilari di una band inglese di successo dell’ultimo decennio: qualche traccia melenso-pop (“Dolli”, con qualche coro beatlesiano che non guasta), le impennate più rock tipiche di band più animate (ma anche i Franz Ferdinand, volendo, però voliamo basso che è meglio), come in “Sting” e “Orvil”, che un po’ si connette con esperienze new wave/post-punk di stampo più eighties a ricordare Talking Heads, Devo, Joy Division e Gang of Four (“Dressage” e “The Ink”), in rapida successione, con una mescolanza in realtà molto subdola che si intreccia con un lavoro notevole alle chitarre nascondendone gli aspetti più evidenti e palesi. Niente scopiazzatura, ma un lavoro intenso di riscrittura di stilemi già sentiti che dona alla band una certa personalità, seppur il sound sia una specie di compendio tra Banjo or Freakout, Scouting for Girls e Everything Everything. Una nota positiva per la conclusiva “Zalo”, dove un mood vagamente dark d’anni ottanta si unisce con un cantato che ricorda MOLTO da vicino Thom Yorke, costringendoci a pensare che i Radiohead sono proprio l’influenza principale di quasi tutti i buoni musicisti d’oggi. Ma poi si ascoltano gli arrangiamenti quasi antagonisti rispetto a quelli della band dell’Oxfordshire e ci si accorge che non è vero niente.

La band sa il fatto suo e i ragazzi ci mettono poco a dimostrarlo (le migliori sono effettivamente le tracce d’apertura, “Cadenza” e “Fragrant”, almeno in quanto ad originalità), utilizzando, come dicevamo, linguaggi già collaudati da tempo, limitando al minimo innovazione e sperimentazione, esprimendo solamente uno stato d’essere che ormai si tende a chiamare “indie”. Sarà un termine adatto? Dopotutto non sta a noi giudicare, ma Cadenza non è un brutto disco e la sua freschezza prettamente pop lo classifica in quel limbo di decine di bei dischi che la gente dimenticherà, proprio quelli che pescando casualmente da uno scaffale ci piacerà riascoltare anche tra una decina d’anni. E tra venti, come sarà?

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ETICHETTA: Memphis Industries
GENERE: Funk, dance, indie rock

TRACKLIST:
1. T.O.R.N.A.D.O.
2. Secretary Song
3. Apollo Throwdown
4. Ready To Go Steady
5. Bust-Out Brigade
6. Buy Nothing Day
7. Super Triangle
8. Voice Yr. Choice
9. Yosemite Theme
10. The Running Range
11. Lazy Poltergeist
12. Rolling Blackouts
13. Back Like 8 Track

RECENSIONE:
Stupirsi che abbia il nome diverso dal disco precedente. Il linguaggio dei The Go! Team non cambierà mai e noi sappiamo che questo è un bene. Basta ascoltare “Buy Nothing Day”, “Secretary Song” e, perché no, anche i deliri al piano di “Lazy Poltergeist” per capire di cosa stiamo parlando. E se gli inserti più rock dell’indie più chitarristico della title-track non bastano a far capire cosa andavamo blaterando, allora ascoltatevi prima il precedente Proof of Youth e poi “Apollo Throwdown” e quei synth quasi da prog italiano di “Super Triangle”, che sanno ricreare un’atmosfera onirica tale da rendere il brano perfetto da ascoltare con le cuffie a massimo volume durante una serata di pioggia. Sono quelle esperienze che lette in una recensione possono far dire al lettore “ma questo l’ha ascoltato il disco?”, ma che solo andando effettivamente a provare con le proprie orecchie si possono comprendere appieno.
Se anche la stampa avesse iniziato a snobbarli, a noi che importa? Il sestetto di Brighton è eccezionalmente saldo ad una serie di simbolici elementi espressivi che non possono far altro che stupire ogni volta che vengono riproposti, seppure con sbalorditiva somiglianza con tutto quello che già ci avevano abituato ad ascoltare: si sente Witching Hour dei Ladytron risuonato dalle migliori indie band britanniche, si sentono i Primal Scream resi incredibilmente spensierati dagli echi femminili e quel tipo di combo synth-chitarra che sarà piaciuto tanto anche ai Franz Ferdinand per averli presi nel loro tour.
E diciamo la verità, non è facile far convivere nello stesso disco gli inserimenti hip-hop di “T.O.R.N.A.D.O.” e le sferzate da soundtrack pop di “Voice Yr. Choice”, un pop sempre molto incentrato su di un uso smodato ma contenuto della sei corde in acustico, da groove di batteria che frullano la disco e l’indie modaiola di adesso, per restituirla come venisse fuori da qualche club anni ’80; e “Yosemite Theme”, in questo senso, più che uno dei tanti brani è un anthem. Un vintage anthem che incastrato ad hoc nella programmazione di qualche radio alternative indipendente spaccherebbe veramente. E “The Running Range” sembra una cover di alcuni celebri brani di Fatboy Slim, risuonati, trent’anni prima, dai The Go! Team con la stessa maturità artistica e strumentale di ora.

Quindi? Il giudizio critico dov’è? E’ un po il discorso che si faceva all’inizio, andare a capire perché si dovrebbe osannare così tanto un disco che è palesemente identico a tutti quelli prima. Beh, la verità è che questa formula potrà essere ripetuta altre 50 volte e il risultato non cambierà mai. Forse potrà stancare, ma se ci sono dei fans che apprezzano questo genere e questa costruzione dei brani, i The Go! Team potranno fare gli Ac/Dc della situazione all’infinito, ricopiandosi sempre uguali per tutta la vita. Ciò che li continuerà a salvare, se manterranno inalterato lo spirito che si rende evidente dentro Rolling Blackouts, è quella loro freschezza nel sound che sembra sempre molto strana se pensiamo alle loro influenze ben radicate nel passato, in un range di tempo che parte dagli anni ’60 e non si ferma fino ad oggi. La ballabilità di buona parte dei brani non può far altro che portare la giusta spensieratezza all’ascoltatore, convogliata in vagonate di good mood che, sagomate ed inserite a forza nella giusta confezione, arrivano proprio come la formula vincente a cui facevamo riferimento. I The Go! Team sono essenzialmente questo, una delle rivelazioni degli anni zero che anche nel 2011 continua a stupire.

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