ETICHETTA: Rock Action Records, Sub Pop
GENERE: Art rock
TRACKLIST:
1. White Noise
2. Mexican Grand Prix
3. Rano Pano
4. Death Rays
5. San Pedro
6. Letters To The Metro
7. George Square Thatcher Death Party
8. How To Be A Werewolf
9. Too Raging To Cheers
10. You’re Lionel Richie
Il disco è appena finito. Prima impressione: non sono i Mogwai.
Il disco è stato riascoltato, una, due, tre volte. La nuova impressione è: l’originalità dei Mogwai non ha fine. Così come non ha fine la loro parabola evolutiva, che li porta sempre più in alto anche se, come ogni artista, con qualsiasi cambio di rotta si trovano di fronte allo spaccamento della critica e dei fans. Questa volta la formazione scozzese, elementare per tutti gli aficionados del post-rock più puro, iniziato dalle trasformazioni occorse naturalmente dopo la lezione degli Slint che (e questo va detto a tutti quelli che hanno preso il genere come un fenomeno di moda da ascoltare solo per i video con le immagini da emo depressi che girano su YouTube), comunque, non facevano post-rock. E infatti neppure i Mogwai, negli ultimi tempi, lo fanno più. Lasciato sbiadire nel passato il mondo di Young Team che dopo Mr. Beast si è ripresentato solo in qualche pezzo di The Hawk Is Howling, album acido e violento ma che lasciava intravedere gli spiragli di un’evoluzione in senso anti-tradizionale, tornano con la voglia di dimostrare che si può fare musica senza imitarsi come il novanta percento degli artisti dell’universo a cui appartengono tende a fare. Almeno nell’universo a cui appartengono.
E così una band brillante e in costante crescita si trova ad un punto della carriera in cui si può permettere di fare qualsiasi cosa, anche di ripristinare le poche incursioni della voce che a certi fans non sono mai andate giù, o di sporcare di elettronica il sound di un pezzo fantastico come “Mexican Grand Prix”, utilizzando pattern e tasselli abbastanza semplici (e a dire il vero, già sentiti) per costruire brani che fanno dell’originalità e dell’imprevedibilità il loro punto forte. Si perché nonostante alcune canzoni come “White Noise” e “San Pedro” non costituiscano quella grande novità che si poteva immaginare leggendo l’inizio della recensione, arrivati a brani come “Rano Pano” e “How To Be A Werewolf” ci si scontra impetuosamente con qualcosa di completamente differente, nuovo e inedito. Il loro classico muro di suono innalzato solo per lasciarlo sciogliere al sole, bruciandolo a tal punto da eliminare quell’aspetto freddo nei suoni che li ha resi celebri e lasciandolo sobbalzare con melodie molto più intuitive e semplici, sicuramente d’impatto e che si vantano di un’immediatezza che in un disco dei Mogwai non si era mai sentita se non in un brano, “Friend Of The Night”. E il risultato è fantastico: il songwriting è ineccepibile, così com’è lusinghiero per l’ascoltatore rendersi conto che anche il sound è cambiato a tal punto da rendere l’esperienza inverosimilmente diversa, forse anche questo uno degli aspetti che trasformano l’album in una perla inattesa e stupefacente.
Con un titolo presuntuoso e che alcuni chiamerebbero “sborone”, rivelano l’essenza del disco, che è veramente hardcore, hardcore perché ti spara in faccia la verità di una band che, caso raro nel mondo della musica strumentale, non deve rendere conto a nessuno, arrivando a conquistare anche chi detesta questo tipo di musica, per la loro attitudine a trasferire in ogni singola canzone un’anima e una personalità che pochi altri possiedono. Basta ascoltare “Letters To The Metro” per rendersene conto, un brano che ricorda quasi le ballate folk-pop dei cantautori indie americani, ma senza voce. Un pregio non da poco, anche se la sua costruzione breve e priva di alterazioni di sorta lo rendono più adatto ad una colonna sonora che ad un disco o ad una performance live. Un brano leggero e che poteva essere collocato come bonus track, ottimo però per dimostrare il cambiamento positivo del loro estro creativo-compositivo. La progressione tipica del pezzo standard dei Mogwai, con l’inizio arpeggiato e lento e il finale acidulo e violento che ti spacca le orecchie senza preavviso (aspetto che non si fa certo apprezzare in quanto ad “innovazione”), è presente solo in un episodio di questo settimo lavoro (“You’re Lionel Richie”), brano che effettivamente non regala niente ad un disco che comunque si completa solo considerando ogni suo singolo componente. Ignorarne solo uno dei tanti secondi che compongono l’album potrebbe risultare fatale per la comprensione dello stesso.
Un altro punto forte è la diminuzione della durata media delle canzoni, che si incastonano in una struttura molto più fragile ma funzionale, che difficilmente supera i sei minuti. E, per una volta, penso non mi sarà contestata la violenza verbale nel dire che non si poteva vivere senza questo tipo di svolta, che li avrebbe altrimenti fatti deperire velocemente. Una necessità a cui hanno saputo rispondere prontamente.
In ogni caso, i Mogwai, con il loro flusso continuo di distorsioni, crescendo e irruenza chitarristica mai lasciata decadere sotto le banalità di power chords o formalità/tecnicismi che non gli sono mai appartenuti e mai gli apparteranno, stupiscono di nuovo e tracciano una traiettoria che si spera seguiranno anche con i lavori futuri. Nel frattempo, spegnete la televisione e ascoltatevi Hardcore Will Never Die, But You Will, rimarrete ipnotizzati. Per davvero.
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