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Archive for marzo 2011

Salve a tutti.
The Webzine oggi pubblica i comunicati stampa mandati ai siti rispettivamente da DNA Concerti (agenzia di booking che cura tra gli altri anche i Verdena) e l’Associazione Tetris, associazione triestina che avrebbe dovuto portare nel capoluogo del Friuli-Venezia Giulia il trio bergamasco per una data il nove di aprile. La data prevista al Teatro Miela non si farà ed è nata una diatriba online a suon di comunicati stampa per darsi la colpa del problema, con nessuno disposto a prendersi la colpa dell’accaduto davanti ai fans scontenti.
Da sostenitori accaniti dei Verdena noi di The Webzine siamo abbastanza amareggiati, ma sappiamo che la colpa non è della band ma del modo in cui l’attività live è gestita, in generale, in Italia, dalle mafiette delle agenzie, dai favoritismi, dagli amici degli amici degli amici degli amici, che hanno creato un giro incredibile che non stiamo qui a descrivervi salvo evitare proiettili nelle buste e cose analoghe. Perché se non è così, poco ci manca.
A rigor del vero, non mi sto riferendo a DNA Concerti, anche se quanto rivelano questi comunicati stampa non lascia certo tanti dubbi riguardo la serietà del loro operato in questo specifico caso. Fatevi voi un’opinione.

COMUNICATO DI DNA CONCERTI riguardo l’annullamento della data al Teatro Miela
Siamo spiacenti di comunicare che per motivi estranei alla volontà di Verdena e DNA concerti, la data al Teatro Miela di Trieste è stata annullata. I fatti che hanno portato alla cancellazione della data di Trieste riguardano la totale mancanza di comunicazione tra Associazione Tetris (promoter dell’evento) e Teatro Miela nei confronti di Verdena e DNA e l’assoluta indisposizione da parte degli stessi adun qualsivoglia confronto. Nonostante la conferma della data e il recapito del contratto agli interessati risalga rispettivamente al 24 Febbraio e al 10 Marzo, solo due settimane fa l’associazione ha cominciato a lamentare condizioni contrattuali insoddisfacenti e ha preteso di rinegoziare l’accordo. In questo arco di tempo Verdena e DNA hanno cercato in ogni modo di salvare la data già annunciata per rispettare l’impegno preso con i fans, rendendosi disponibili a suonare senza garantito e accollandosi i costi della struttura, nonostante il promoter avesse deciso di rinegoziare l’accordoall’ultimo momento. Nessuna di queste soluzioni è risultata gradita al Teatro Miela, che ha deciso di cancellare la data rifiutando di spiegarcene le ragioni. Cogliamo quindi l’occasione per esprimere il nostro rammarico pernon aver potuto mantenere il nostro impegno nei confronti di chi, il 9 Aprile, avrebbe voluto essere presente al live. Verdena e DNA cercheranno di tornare presto in Friuli certi di trovare un contesto sicuramente più favorevole e congeniale per tutti.

Verdena e DNA Concerti

COMUNICATO PUBBLICATO SU FACEBOOK DA ANDREA RODRIGUEZ DI ASSOCIAZIONE TETRIS
Abbiamo letto con grande amarezza il comunicato emesso dall’agenzia di booking DNA Concerti e dai Verdena riguardo alle presunte cause dell’annullamento della data dei Verdena prevista per il 9 aprile 2011 a Trieste al Teatro Miela. Noi dell’Associazione Tetris avremmo fortemente voluto portare i Verdena a Trieste ed abbiamo fino all’ultimo momento cercato di trovare un accordo per il concerto. Una volta ricevuti da DNA contratto e scheda tecnica dei Verdena abbiamo, dati alla mano, potuto fare dei conti e comunicare all’agenzia di booking ed alla band che non ci saremmo potuti permettere la data a quei costi ed a quelle condizioni. E’ prassi comune che chi intende organizzare un evento chieda all’Artista se è disponibile. Confermata la disponibilità, l’Artista invia all’organizzatore le condizioni e le richieste. A quel punto l’organizzatore verifica se può soddisfare o meno tali richieste. E’ successo per l’appunto questo: esaminate le richieste dell’Artista e fatti i conti con la capienza della struttura (500 posti) abbiamo capito che un concerto con un prezzo imposto di 10 euro ci avrebbe portato (nella più rosea delle previsioni) a una perdita di oltre 3.000 euro.Abbiamo fatto avere all’agenzia una lista dettagliata di spese ed eventuali ricavi chiedendo, invano, di trovare una soluzione.Non abbiamo ricevuto risposta alcuna.Siamo stati costretti perciò, a pochissimo dalla data prevista per il concerto, a scrivere per l’ennesima volta a DNA. Questo è il testo integrale della nostra email del 28.03.2011 con la quale, a meno di 15 giorni dalla data del concerto, rinnovavamo la nostra disponibilità ad un accordo che si rivelasse per noi un po’ meno svantaggioso.

Caro XXXX,
Ho bisogno di una risposta definitiva oggi stesso per quanto riguarda il concerto dei Verdena il 9 aprile a Trieste al Teatro Miela. Come ho scritto la settimana scorsa a YYYY, le possibilità sono queste: Avete la lista delle nostre spese. Diteci se A) volete abbattere voi dei costi in modo da portare il tutto a una condizione che ci permetta di perdere solo 1.000 euro o giù di lì in caso di sold-out. Se decidete di farlo, considerate che il biglietto sarà 10 + 3 (visto che non vi va bene neppure 10 + 5). Altrimenti  lasciate le stesse condizioni e lasciate che mettiamo il biglietto a 18 + 2. Oppure C) se non riceviamo una risposta entro oggi, avviseremo il Teatro che non si è chiuso alcun accordo e la data non si farà: non ci sarebbero più i tempi per poterla promuovere in maniera adeguata. Nel caso decideste di scegliere le opzioni A) o vi preghiamo di inviarci copia del contratto modificato secondo questi ultimi accordi in mododa poter provvedere alla firma dello stesso. Buona giornata.

Né DNA, né i Verdena hanno risposto e quindi è del tutto falso quanto contenuto nel comunicato stampa emesso dagli stessi e cioè che: ”In questo arco di tempo Verdena e DNA hanno cercato in ogni modo di salvare la data già annunciata per rispettare l’impegno preso con i fans, rendendosi disponibili a suonare senza garantito e accollandosi i costi della struttura,nonostante il promoter avesse deciso di rinegoziare l’accordo all’ultimo momento. Nessuna di queste soluzioni è risultata gradita al Teatro Miela, che ha deciso di cancellare la data rifiutando di spiegarcene le ragioni.”. Fino a lunedì 28 c’era da parte nostra e del Teatro Miela tutta la disponibilità a chiudere un accordo: se ciò non è avvenuto, la responsabilità è di DNA e della band.E’ giusto che i fan lo sappiano, e che sappiano che l’annuncio della data a Trieste è stato fatto dall’agenzia e dalla band senza che si fosse mai firmato alcun contratto ed a totale insaputa nostra e del Teatro Miela. Sia chiaro: non esiste alcun contratto firmato da Tetris e dal booking dei Verdena per la data del 9 aprile, questo perché booking ed Artista non hanno ritenuto opportuno cambiare le loro condizioni e trovare un accordo. Tutto ciò è legittimo: quello che non lo è, è affermare che la responsabilità sarebbe nostra e non loro. Restiamo a disposizione di chiunque voglia accedere a tutti i documenti di questa spiacevole vicenda: abbiamo agito con la massima onestà e trasparenza e siamo pronti a dimostrarlo in qualunque sede.Da anni lavoriamo per migliorare l’offerta musicale e culturale a Trieste, abbiamo portato nella nostra città centinaia e centinaia di artisti e non ci era mai successo di dover subire un trattamento così scorretto, che mira a distruggere una credibilità ottenuta sul campo con mille sacrifici.
Massima amarezza.

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ETICHETTA: Island Records
GENERE: Punk rock, alternative rock

TRACKLIST:
1. Reason to Believe
2. Screaming Bloody Murder
3. Skumfuk
4. Time for You To Go
5. Jessica Kill
6. What Am I To Say
7. Holy Image of Lies
8. Sick of Everyone
9. Happiness Machine
10. Crash
11. Blood in My Eyes
12. Baby You Don’t Wanna Know
13. Back Where I Belong
14. Exit Song

L’Ontario come orizzonte invisibile dei Sum 41 si cela dietro una cortina abbattuta in questo disco dalle prominenti visioni lacustri che nella storia sempre affascinarono ed inquietarono poeti ed artisti decadenti. La band del neodivorziato (per fortuna) Deryck Whibley si poteva dire già defunta dopo il primo cambio di formazione, nonostante non si possa certo ignorare la presenza di alcune perle (dal punto visto della vendibilità) in tutti i loro dischi, compreso l’ultimo fortunato ma sopravvalutato “Underclass Hero”. Cosa ci si poteva quindi attendere da un quinto? Beh, la morte della band come prima cosa, ed infatti non è stato così: tra tentativi di evoluzione ed involuzioni involontarie, capogiri punk rock (o punk pop?) che si scontrano con nuovi mood di ispirazione più dark ed inflessioni metal, i Sum si confermano una delle principali band della scena punk commerciale, con tutti i pro e i contro che potete dedurre da questo assunto.
Nel disco almeno tre sorprese: “Reason To Believe”, in apertura, “Skumfuk” e “What Am I To Say”, principali testimonianze di questa virata tanto vigorosa quanto evidente, difficile forse da digerire per chi si stava abituando a quell’ammorbidimento del sound che li ha portati sul filo del tracollo. Certo, la presenza di brani ancora troppo legati alla loro fase negativa coincidente più o meno con i non-singoli del quarto disco (come “Time For You To Go”) potrebbe anche alterare l’assorbimento completo dell’album come entità unica, però c’è anche da dire che il fattore sorpresa gioca un ruolo determinante nello spiegare quanto Screaming Bloody Murder sia utile per la sopravvivenza della band. Il più cattivo e forse anche il più studiato.
La tecnica della band non sarà questa gran cosa, così come la produzione potrà, in alcuni casi, tentennare (nonostante i milioni spesi), ma i Sum 41 resteranno sempre gli alfieri del punk rock commerciale dopo la morte dei Blink 182, l’invecchiamento esagerato del versante californiano Offspring e l’infighettamento un po’ troppo caparbio da sopportare di Billie Joe e soci. Non so, potrei anche ricredermi su questa ultima affermazione, ma su quella che sta per venire no: questo disco mi è piaciuto.

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Pop, indie pop

TRACKLIST:
1. Patrizia
2. Una Vita col Riporto
3. Costa Rica
4. Marco Corre
5. Figli degli Hamburger
6. Ricomincio da Tre
7. Dentro la Foresta
8. Holiday
9. Bar del Corso
10. Gli Ex-Otago e la Jaguar Gialla
11. Dance A.M.
12. The Rhythm of the Night
13. Una Donna

Beh, eccoci di fronte a Mezze Stagioni, nuova fatica di una delle formazioni liguri più celebri degli ultimi tempi. Il loro (indie)pop di seconda mano, solo perché lo volevano tale, ha conquistato molti, grazie anche a coinvolgentissimi live set che non fanno altro che aumentare questa loro fama di scanzonatori dell’ultim’ora. La ricerca del suono, basilare cioè fondamentale, c’è sempre stata molto poco, limitata al rinvenimento della formula perduta del puro pop: un po’ gli Indiana Jones del genere, se vogliamo, ma con i synth al posto del piccone. Un disco fresco come questo non poteva che arrivare ora che la stagione sta cambiando, pronti ad un tour estivo che ha proprio quel tipo di sound che ci vuole per festeggiare insieme l’arsura di agosto ed i tuoni annullafestival. L’ironia, che nonostante oggi vada molto di moda non si occupa di politica, sbeffeggia questo e quello (“Figli degli Hamburger”) e si spiaggia sempre contro l’impavido muro del lessico nerd che se non parla dell’epic fail poco ci manca. Ma lo fa, comunque, proprio come ci piace. “Una vita col riporto” la migliore del lotto. Sintetizzatori in cima alla lista degli strumenti più importanti a livello di melodia, armonia, arrangiamento, atmosferici quanto basta per non sembrare pad che svegliano solo l’aficionado della strumentale. I riff sono sempre solo e soltanto pop tunes di manica larga, facili da ricordare, così come i testi e le linee vocali. La virata verso i testi in italiano è un rigoroso, vigoroso e terminale gesto di disperata autoconferma di quello che si vuole ricercare: di nuovo, la formula popolare. Se vi siete già stufati di sentire parlare di queste cose, probabilmente il disco non vi piacerà. Catchy, catchy, catchy.

Chi l’avrebbe mai detto che anche così ci sarebbero piaciuti? Forse perché non sono cambiati di una virgola, forse perché solo così una band può affermarsi per qualcosa, strapparsi di dosso la camicia di forza delle etichette e andare avanti solo col proprio nome. Allora, Mezze Stagioni, è davvero il disco-conferma degli Ex-Otago, con tutti i loro limiti ed i loro perché.

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Questo articolo è stato scritto da MQX per rovigopost.net e thewebzine.wordpress.com

Sabato 26 Marzo 2011: Fu Manchu in concerto , un giorno che gli amanti dello stoner rock più intenso, presenti al Bronson Club di Ravenna, ricorderanno senz’altro con piacere.
La band proveniente dal sud della California continua a suonare live da più di 20 anni e anche in questa occasione non si è smentita. Hill, Reader e compagni hanno dato vita a un grande show, fatto di distorsioni caldissime, pause mozzafiato e melodie psichedeliche, eseguito con grande carica e ben supportato dall’atmosfera del Bronson Club, rivelatosi location ideale sia per acustica che per impianto luci.
La band ha suonato per più di un’ ora, senza concedersi lunghe pause, rendendo il concerto ancora più incalzante di quanto si potesse immaginare, concedendo alla fine anche il bis ai fans che li acclamavano al termine di un concerto nel quale brani storici della band come “King of the road” “California Crossing” e “Mongoose” sono state delle vere perle.
Fu Manchu ispirati come sempre si sono confermati ancor di più band cardine dello stoner rock mondiale, non solo del passato ma anche del presente e sicuramente del futuro prossimo venturo del desert rock.

LE FOTO – di MQX

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ETICHETTA: Red Birds
GENERE: Folk rock americano

TRACKLIST:
1. My Will To Live
2. A Part of Happiness, Two Parts of Whiskey
3. My Mother
4. She
5. No Borders
6. I’m Walking Alone
7. Sing With Me
8. Summer in Harlem
9. The Deep White Light and the Deep Blue Sea
10. Old Time Music
11. This Is All Right
12. Red River

Nico Greco è un nome che in Italia molte persone dovrebbero conoscere. Dico dovrebbero perché purtroppo siamo il paese di Vasco Rossi e Laura Pausini e tendiamo a dimenticare quando ci piaceva il folk americano d’importazione e andavamo pazzi per i cosiddetti poeti della beat generation. Lasciando stare contesti tipicamente culturali che poi sono diventati anche fucine di associazionismo politico, possiamo discendere con notevole facilità nei meandri della musica del buon Greco (and his band, cioè Claudio Carluccio, Bruno d’Ercole, Davide Marcone e Paolo Messere) e capire una cosa: a lezione, quella volta, tenevano corsi di un certo impatto emotivo, sociale e musicale nomi come Joan Baez, Bob Dylan, i Velvet Underground e Mary and the Byrds. E a frequentarle doveva esserci per forza mister Nico Greco.
Orientativamente, non è poi difficile limitarsi a descrivere questo disco come una buona dozzina di scintillanti brani in tragica veste folk rock americana, però dopotutto pensiamo che un lavoro del calibro di Blue Like Santa Cruz meriti anche qualche considerazione più complessa. Il timbro vocale del buon Greco è senz’altro dylaniano, così come sono dylaniani i rapporti tra lunghezza del brano ed intensità, e i testi. Soprattutto i testi, come evincerete già da alcuni titoli (“I’m Walking Alone”, “Summer in Harlem”). Se vogliamo capire perfettamente cosa propone questo artista, analizziamo un brano semplice ma di notevole impatto come ne troviamo tanti nel disco: il migliore è “No Borders”, brano che si avvicina come tematiche alla roots music e che senz’altro ricorda la vecchia band di Lou Reed in quanto a struttura (per questo sentite anche “She”), semplicità dei riff portanti ed atmosfere generate dall’aggrovigliarsi sempre molto compatto di armonia e ritmica. La chitarra acustica predomina all’interno del disco e questo non può far altro che aiutare a creare momenti più suggestivi e vicini a quel termine che usavamo poco fa, ovvero “folk” (ascoltate la già citata “Summer In Harlem” per comprendere, oppure la malinconica “A Part of Happiness, Two Parts of Whiskey”, uno dei brani più americaneggianti in un disco che deve tutto agli Stati Uniti).

Essenziale, direi. Essenziale per comprendere come il folk in Italia sia radicato come non mai, in tutte le sue diramazioni, pur senza avere il giusto riscontro di pubblico. Nico Greco con la sua band ha saputo esprimere quanto di meglio nello Stivale sappiamo fare per non sembrare dei vecchi cantastorie che vogliono solo imitare lo storico Dylan, riuscendo anche a personalizzare il prodotto in maniera sintetica, semplice e profonda. Se vogliamo, caratteristica. Livellata qualche pecca dal punto di vista strumentale a livello ritmico, Blue Like Santa Cruz è senz’altro un must per aficionados del genere. Strasuperconsigliato.

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Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: Arbutus Records
GENERE: Dream-pop

TRACKLIST:
1. Outer
2. Intor/Flowers
3. Weregild
4. ∆∆∆∆Rasik∆∆∆∆
5. Sagrad Пpekpacный
6. Dragvandil
7. Devon
8. Dream Fortress
9. World Princess
10.  † River †
11. Swan Song
12.  ≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈Ω≈
13. My Sister Says The Saddest Things
14. Hallways
15. Favriel

Inverosimile accozzaglia di elettronica situata tra gli albori della techno e l’attuale incrociarsi di pop e art music stipulando featuring che non sono altro che ammissioni di colpa. Formulando un giudizio con la tecnica del “rito abbreviato” si potrebbe riassumere questo disco così. Non ci sono featuring, non ci sono veri e propri brani pop, però l’universo da cui attinge è proprio quello: Claire Boucher, in arte Grimes, che tutti pensavano un gruppo fino a qualche tempo fa, si pone così nell’inestricabile bivio che oggi hanno saputo creare tra di loro i termini “dream-pop” e “vintage”, abusatissimi, ma quantomai realistici. Brani come “Hallways” recuperano tradizioni dubstep che Burial e Skream hanno aggiornato in maniera fin troppo imprescindibile, mentre le atmosfere più volutamente eteree di episodi come “Weregild” si confrontano con conterranei come gli Echo Lake, con raffazzonamenti dark che poco temono degli eighties più new wave e dell’ambient melodrammatico d’oggigiorno (di nuovo le stesse formule poco più tardi in “River”). Si balla, ma con un soffocamento garage nelle ritmiche che trasforma una possibile perla techno in un’onirica digressione dubstep, quando si arriva a “Swan Song”, vero momento radiofonico del disco che per il resto si discosta molto dall’orecchiabilità che ci si poteva aspettare vista l’hype creata attorno alla release di Halfaxa.

Che dire, un disco un po’ complesso da descrivere, forse perché lo si è voluto costruire in maniera intricata? Beh, dipanarlo non ha portato ad apprezzarlo di più: in certi momenti sembra che la tecnica vocale e compositiva di Grimes, meritevole di lode perlomeno per la sua innata capacità di sistemare ogni minimo dettaglio (si cura di ogni cosa personalmente, o almeno così dice), sia asservita ad una certa voglia di superare le barriere del già sentito, con risultati che comunque variano dal leggermente scadente al decente, senza mai raggiungere livelli di innovazione tali da spazzare via le pretese.Halfaxa, effettivamente, poteva essere migliore, ma non per questo i techno-fans della musica elettronica più di nicchia devono lasciarlo sullo scaffale: solo per aficionados.

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Recensione scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: One Little Indian
GENERE: Indie rock, post-punk, new wave, alternative

TRACKLIST:
1. Draw In Light
2. Caretaker
3. Delight in Temptation
4. Pale Fire
5. LHC
6. Carnations
7.  Swirling Shards
8. The (Never Ceasing Ever Increasing) Cavalcade
9. To The Lighthouse
10. Not Wing Clippers

Accendiamo i riflettori sopra questi Wild Palms, londinesi, provenienti da un universo post-punk che in questo disco quasi scompare lasciando solo piccole tracce nell’universo più pop in cui provano, con esiti più che positivi, ad affondare. Essenzialmente la proposta dei Wild Palms non si scosta molto da quella delle decine di band new wave revival che hanno riempito le charts di tutti i paesi del mondo negli ultimi quindici anni, anche se è una sostanziale capacità di approfondimento e personalizzazione dei suoni a far comprendere i reali punti a favore del disco. Si perché Until Spring riesce a unire post-punk e pop in una maniera incredibile: lo fa con la linearità delle ritmiche che tendono però a disperdersi in alcuni tempi più irregolari, qualche sincope, cambi che, per quanto prevedibili, esulano dal classificarsi come “puramente post punk”; lo fa anche con l’estrema pulizia del sound di tutti gli strumenti, un basso in primo piano ma senza eccessi, una voce fin troppo limpida e una chitarra che non si preoccupa di soffocarsi dietro all’insieme. “Caretaker” e “Carnations” perfette per comprendere questi aspetti. Unendo queste due caratteristiche otteniamo la formulazione più onesta di un indie rock sia britannico che internazionale, che guarda oltre le barriere dell’imitazione, grazie ad alcuni accenni di novità che toccano soprattutto riff e metriche vocali (“Draw In Light”, “Not Wing Clippers”). Rintracciamo ora quali sono i punti deboli dell’album: la durata eccessiva di alcuni brani, in realtà ben costruiti ma che tendono a ripetersi un po’ troppo sino a scadere nel ritornare di modelli che sanno troppo di già sentiti: “LHC”, “To The Lighthouse”; il neanche tanto velato tentativo di rendere il suono più new wave grazie allo stato depressivo di alcuni passaggi lirici, come nella già citata “Carnations” o in “Swirling Shards”, che questa volta cadono troppo in quell’insieme di cliché eighties che non fanno altro che ricordarci, di nuovo, di Joy Division e New Order e forse anche dei Depeche Mode.

Until Spring è un ottimo disco di debutto, questo si, forse preché la sua levatura morale minima e senza pretese gli permette di osare senza dover rendere conto a nessuno, e un po’ anche perché i Wild Palms sono una formazione molto buona. Incredibilmente bravi a proporre cose che non hanno niente di nuovo sorbendosi la responsabilità di “caratterizzare” il sound fino a quel punto in cui li puoi davvero riconoscere, sperando che ci sia ancora qualcuno disposto ad ascoltare band come questa.In ogni caso, ve li consigliamo.

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ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Funk, funk rock, rock

TRACKLIST:
1. Pyramid
2. Fu#k
3. Done With U
4. Ghost Upstairs
5. Pol’s Boutique
6. Dinosauce
7. My Funk
8. Giungla di Sberle
9. I’m Nutz
10. War Never Changes
11. Sauce Wars

Alzano i pugni dal 1999, lo dicono nel booklet del disco. E’ gia uno slogan abbastanza carico di boria, ma ci fa capire con chi abbiamo a che fare. I Pajarritos sguazzano da qualche disco (siamo già al terzo) in una “sauce” (termine che appare nei titoli di tutti gli album) di puro funk che lotta contro lo spegnersi di questa moda tra il pubblico, rimanendo soli in una scena poco popolosa che comunque presenta band, quasi tutte molto modeste, di cui alcune famigerate, di una certa qualità e rilevanza. Loro non fanno eccezione, e propongono infatti una miscela veramente esplosiva di funk fortemente connesso alla tradizione del genere, rock blues e deliranti inserimenti r’n’r che, lo vedremo, non stonano, anzi contribuiscono alle buone sorti del disco.
Sauce Wars è un po’ l’apocalisse fatta funk, un disco da toni molto muscolari ma contemporaneamente epici, che partono dall’inizio alla fine con la opener “Pyramid”, splendido gioiellino dall’incedere “cruento” e un vago songwriting d’istinti progressive, per finire con la title-track, in realtà una pappardella che ricorda band epiche tedesche sul morire della loro carriera (Blind Guardian?). Le incrostazioni da epopea mitologica se ne vanno per rivelare l’anima più “vera” del disco, quella più ballerina, carica, figurativa e sotto certi punti di vista estetica, lasciando in disparte l’inappropriata copertina: “Done With U”, “Dinosauce” e “War Never Changes”, coi loro contenuti fortemente blues, riescono a svelare la vera natura di tutto il disco, un forte autoblindo carico di pesantissime sfumature easy-listening che difficilmente riescono a prendere il sopravvento, regalando al disco il pregio di essere complesso in quanto a costruzione e di non rendere mai facile la vera comprensione della sua essenza.
Adesso che l’ho detto, vi piacerà di più. Un ottimo sforzo, ma inferiore ai due precedenti.

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Recensione scritta da CLAUDIO MILANO
ETICHETTA: Esoteric/Cherry Red
GENERE: Progressive

TRACKLIST:
1. Your Time Starts Now
2. Mathematics
3. Highly Strung
4. Red Baron
5. Bunsho
6. Snake Oil
7. Splink
8. Embarassing Kid
9. Medusa
10. Mr. Sands
11. Smoke
12. 5533
13. All Over The Place

Dopo un album dal vivo slabbrato come Live at the Paradiso, i Van Der Graaf ritornano con il loro migliore disco dopo la reunion del 2005. Eppure, chi ama il nuovo stia pure lontano da “A Grounding In Numbers” e si rivolga agli ultimi due album solisti di Hammill, questo è un gran bel disco ma tanto nel suono che nella sostanza non ha alcuna urgenza di contemporaneità, se non nel dono della sintesi e nella felice varietà di temi proposti. L’album nella sua interezza suona come una versione condensata di buona parte del repertorio della band e della produzione del leader, che poi qui tanto leader non è, perchè il disco, per la prima volta ed è questa forse l’unica novità sostanziale di “A Grounding in Numbers” assieme alle articolatissime ritmiche, è stato scritto ed arrangiato a sei mani. La forma ne giova e tutto sommato anche il contenuto che viene rinvigorito negli arrangiamenti, da un’energica sferzata di “good vibrations” a sfavore delle atmosfere più cupe che hanno fatto la storia della band. Non c’è un solo episodio che abbia le stimmate del classico autentico, eppure il livello di scrittura ed esecuzione è elevato e compatto quanto la produzione, che vede al mixing Hugh Padgham.

Il disco si apre con i fraseggi d’organo di Banton, seguiti dal cantato di Hammill che si libera in una ispirata romanza a cui l’autore ci ha abituato tanto nella produzione del gruppo madre che nei dischi solisti. Siamo dalle parti di “Undone” che luce aveva dato a Thin Air. Quello che cambia è la tavolozza, qui più ricca e fluida nell’esecuzione, meno naif e creativa ma più misurata e capace di dare un senso di permanenza alle tracce. La produzione aiuta notevolmente. Assolutamente bilanciata, riesce a dare profondità al suono di una band che in trio sembra un’orchestra. La leggerezza di alcune soluzioni armoniche, le aperture di “Mathematics” ad esempio, ci portano indietro persino a Fool’s Mate di Hammill, nonostante il timbro baritonale del leader della band, ben poco abbia a che spartire qui con le frequenze da tenore leggero agile e timbricamente duttilissimo degli anni ’70.“Highly strung” ha un incedere iniziale turbolento che sembra uscire direttamente da Nadir’s big chance, per poi risolvere in un brano dalla strofa in tempi dispari e aprire in un ritornello linearissimo, praticamente AOR. Buono il contributo chitarristico di Hammill che trova un timbro caldo. Come detto, i brani si distinguono per una profonda divergenza d’atmosfera, lo strumentale “Red Baron” apre a un suono ambient insidioso, che riporta a Sonix e a Spur of the Moment, non a caso il contributo di Evans alla batteria sul loop di chitarra è la soluzione più interessante del pezzo. “Bunsho” è una ballata per chitarra elettrica dalla struttura variegata e nervosa, in realtà non molto diversa nel primo incedere dagli episodi di Clutch, non fosse che le contorsioni del pezzo rimandano direttamente al primo repertorio della band. Un connubio intrigante per il brano fin qui più bello. “Snake Oil” si muove su tempi dispari e riporta indietro ancora una volta a Fool’s Mate. A fare la differenza, il lavoro di Evans alla batteria, davvero eccellente sull’intero disco, è lui il motore de “le fondamenta numeriche” di questo disco. Il pezzo si prepara da un momento all’altro a continue variazioni dal sapore progressive, su riff ossessivi e psicotropi, dissonanze e aperture che sono il tratto distintivo della band. Il condensato di una suite in poco più di cinque minuti, incredibile quanto un po’ autoindulgente e privo del naturale senso di dramma che ha caratterizzato le pagine migliori della band a favore di una brillantezza più pragmatica. Ancora uno strumentale, “Splink” riporta invece e con grazia d’ispirazione, indietro a sonorità acide. Da uno slide ci si dirige lenti verso una danse macabre che introduce il tema che sarà di “Medusa”, con sovraincisioni isteriche figlie della psichedelia barrettiana condotta al teatro degli orrori che il trio ha saputo delineare come nessuno nei primi anni ’70. “Embarassing Kid” si appoggia a un riff di chitarra non proprio memorabile per snodarsi ancora una volta in contorsioni ritmiche che in questo caso sembrano rimandare all’urgenza wave del K Group di Enter K e Patience. “Medusa” è un brano eccellente, la melodia da subito introduce all’anima ossianica, gotica dell’Hammill più ispirato, qui sostenuto da un arrangiamento superlativo, in appena due minuti, i migliori Van Der Graaf, non è un caso che questo sia il pezzo del disco che più riesce a risultare al passo coi tempi. Con la bella “Mr. Sands”, ritorna l’organo movimentato del Banton di Godbluff, qui sostenuto anche da un mellotron, per un brano nella migliore tradizione prog. Agili e jazzy come non mai, i VDGG suonano in questa traccia molto vicini alla lezione canterburiana. Il finale pirotecnico, le modulazioni armoniche continue non incontrano tra questi solchi alcun senso di pesantezza. “Smoke”, torna alla leggerezza del primo album di Hammill quanto a Nadir’s. Fa quasi senso quanto la banalità del riff di partenza non solo non annoi, ma possa persino suonare intelligente dopo qualche secondo e farci capire da dove abbia mosso i suoi passi il Bowie di Lodger. “5533” trova in articolazioni ritmiche parossistiche una cifra stilistica non particolarmente convincente. Conclude questo disco di una freschezza disarmante per una band così poco giovane “All Over the Place”, brano che raccoglie in sé tutte le caratteristiche dell’album. La frammentazione ritmica, l’agilità delle soluzioni armoniche, aperture melodrammatiche con intrecci vocali (qui davvero superlativi) che trascinano in un densissimo magma nero, arrangiamenti variegati e curatissimi. La coda che conduce al finale è da pelle d’oca.

Un lavoro corale, cesellato con grande maestria, fatto di strutture elaborate geometricamente ad arte e in qualche caso, anche gonfie di emozione. Tracce che possiedono il dono della sintesi quanto della costruzione impervia eppure, solo per chi ama il progressive rock.

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ETICHETTA: Beady Eye Recordings
GENERE: British rock

TRACKLIST:
1. Four Letter Word
2. Millionaire
3. The Roller
4. Beatles and Stones
5. Wind Up Dream
6. Bring the Light
7. For Anyone
8. Kill For A Dream
9. Standing on the Edge of Noise
10. Wigwam
11. Three Ring Circus
12. The Beat Goes On
13. The Morning Son

Frase chiave per questo disco? Aprire gli occhi.
Lo deve fare Liam, lo deve fare Noel, lo dobbiamo fare noi. Gli Oasis sono stati una band fenomenale, i due fratelli amati-odiati pure, ma tutto l’hype e il gossip che si è creato attorno a loro ha solo contribuito a farli superare la data di scadenza prima ancora che si fosse decisa. E infatti ecco Noel andarsene per l’ennesima volta, in una sorta di marziale ammutinamento, lasciando l’egocentrico fratello a creare un progetto che riprende esattamente gli Oasis laddove si erano interrotti (e infatti dalla loro ultima formazione manca solo il consanguineo): c’è chi dice che Noel era tutto, chi dice che non è cambiato niente. La verità è che questo disco è abbastanza vuoto, forse privo di quell’anima assolutamente indie che gli Oasis si sono sempre portati dietro dal fortunato quanto fottutamente buono debutto fino all’eclissi finale, quando ancora continuavano a produrre bei dischi (suvvia, l’ultimo non era brutto!). Il livello di Different Gear, Still Speeding è esattamente lo stesso di Dig Out Your Soul mentre a cambiare sono le pretese dei testi, molto autoreferenziali e autocitazionisti, ignobili quando provano a strappare lacrime che non usciranno mai o quando ancora fanno riferimento alla sua vecchia vocazione lennoniana, che, diciamo la verità, qui e là si sente (“For Anyone”, “Kill For A Dream”).
Alla fine se prendiamo la qualità di questi brani, il massimo che possiamo dire è che non si distaccano dalla qualità degli ultimi due dischi degli Oasis. Non è una critica, non è un elogio, allora cos’è? Un’attestazione di inferiorità rispetto alle reali capacità del buon Liam, anche se ormai piuttosto stagnante, anche nella ricerca delle linee vocali (“Three Ring Circus”, “Millionaire”, “Beatles and Stones”). Pessime le ballads, decenti i brani più rock, anche se quasi mai possiamo parlare di rock all’interno di questo disco che si occupa più di vantarsi, fin dal titolo, più che proporre novità o una prosecuzione logica dell’universo Oasis. Non male, a dire il vero, “The Beat Goes On” e i suoi momenti leggermente psichedelici, e il singolo “The Roller”, scadente negli acquisti ma molto apprezzabile in quanto ad impianto e songwriting.

La vera tristezza è che presto si riuniranno di nuovo, andando in un trionfale reunion tour dove la voce ormai avariata di Liam di nuovo risulterà ridicola, ritornando poi a sciogliersi e, chi lo sa, di nuovo a riunirsi. Un moto perpetuo di solidale mutualismo biologico con l’industria discografica, che su queste cose ci campa. E allora, facciamola campare ancora. Ci vuole proprio quella “four letter word”, Liam, davvero.

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Ma quanto vogliono bene gli italiani a Caparezza? Uno degli unici veri artisti rimasti su questa penisola, per questo inviso alla stampa di parte per le sue prese di posizione politiche più o meno radicali che lo hanno schierato assieme a tutti gli eretici del momento: da Travaglio e Santoro passando per tutti i lavoratori del settore, arrivando ad altri artisti del calibro di Elio e Le Storie Tese. E’ un po’ per questo, forse, che il suo ultimo disco si chiama, ironicamente, Il Sogno Eretico, e che il tour stesso è stato battezzato Eretico Tour 2011.
La tappa di Padova è stata, senz’altro, a prova di bomba: una scaletta assolutamente consistente, un’esecuzione perfetta, aiutata dall’ottimo sound della band e dall’eccellente acustica del palazzetto/teatrino sulla tangenziale di Padova, con una risposta di pubblico veramente straordinaria. E il Capa, il vero protagonista, mattatore come non se ne vedevano da tempo, abilissimo sul palco sia da musicista che da intrattenitore, brandisce oggetti, sbandiera slogan, si cambia d’abito, e, ovviamente, non si dimentica di rappare le sue lunghissime e ormai politicizzatissime canzoni, scatenando ad ogni pié sospinto ovazioni incontenibili. L’accompagnamento corale e fisico del pubblico si unisce pertanto ad uno degli show meglio costruiti che io abbia mai visto, dove la scaletta non è solo un affastellamento di brani più o meno celebri ma un vero e proprio costrutto sintattico studiato e condito da siparietti e scenette di stampo satirico/caricaturale che si occupano di marmorizzarlo e renderlo meno sterile possibile, in questo modo coinvolgendo gli astanti dal primo all’ultimo. In scaletta i brani prediletti dai fans nei live del Capa, “Vengo dalla Luna”, “Dalla Parte del Toro” (entrambi ammucchiati nell’encore finale), “Torna Catalessi”, “Abiura di Me” e “Ilaria Condizionata”, tralasciando finalmente “Stanco e Sbronzo”, e includendo una versione reggae de “Il Secondo Secondo Me”, pezzo resuscitato dopo anni di assenza nelle setlist, devo dire, con molta intelligenza, inserendolo nel punto giusto della scaletta e della storia del paese. Chiaramente una buona parte delle due orette passate sul palco sono state dedicate a presentare il nuovo lavoro, dal quale sono state estratte molte canzoni, come vi lasciamo leggere nella scaletta completa in fondo all’articolo: le migliori per resa live “Messa in Moto”, in conclusione, “Sono Il Tuo Sogno Eretico” e “Kevin Spacey”. Un po’ sottotono il brano liricamente più intenso su disco, ovvero “Non Siete Stato Voi”, che riesce comunque a scatenare un bel coretto antiberlusconiano come va tanto di moda oggi. Giustamente. Le più apprezzate tra le nuove, senza dubbio, il singolo “Goodbye Malinconia” e “Legalize the Premier”. Alcune trovate sul palco hanno contribuito, dicevamo, ad allietare il pubblico e a presentare i contesti dei testi delle varie canzoni; a coadiuvare il Capa e la sua band, tecnicamente superba, anche uno schermo di medie dimensioni che trasmette immagini piuttosto simpatiche in sintonia con i vari pezzi.

Che dire, non partecipare a un concerto del Michele nazionale ormai significa rimanere fuori dal piano eretico di uno dei più grandi artisti che questo paese abbia mai conosciuto; significa anche rinunciare a due ore di divertimento, da esternare saltando e sudando, semplicemente gridando, oppure sedendosi e ridendo delle trovate sempre molto ironiche di uno dei più grandi entreteneurs che si potranno ricordare nel futuro della nostra musica. Anche in live un musicista maturo, che ha superato la fase cazzona “uscendo dal tunnel” e si è attestato su di una linea rigorosamente politica che ben si fonde con la provenienza e l’estrazione sociale del suo fan medio, non mancando di rivelare al pubblico che l’ha sempre snobbato la levatura culturale ed intellettuale del suo essere artista. Ripeto, non un cantante, un artista. Non perdetevi le prossime date del suo tour, è un mio consiglio.

SCALETTA:
1. Tutti dormano
2. Chi se ne frega della musica
3. Il dito medio di Galileo
4. Abiura di me
5. Sono il tuo sogno eretico
6. Eroe (storia di Luigi delle Bicocche)
7. Legalize the premier
8. Il secondo secondo me (versione reggae)
9. Kevin Spacey
10. La mia parte intollerante
11. Io diventerò qualcuno
12. Ilaria condizionata
13. Goodbye Malinconia
14. Torna catalessi
15. Non siete stato voi
16. La fine di Gaia
17. Vieni a ballare in Puglia
18. Ti sorrido mentre affogo
ENCORE
19. Vengo dalla luna
20. Dalla parte del toro
21. Messa in moto

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ETICHETTA: Ludnica Recordings
GENERE: Rock strumentale, art rock, post-rock

TRACKLIST:
1. Esc
2. F16
3. Sniper Wolf
4. Jacques Cousteau

Fine del primo ascolto: e il naufragar m’è dolce in questo mare. Erogazione di un sobrio e tepore che quasi mi riveste di una sincera voglia di riascoltare il disco. Per questo arriva il secondo ascolto: l’infinito di Leopardi ora è più utile a capire un album che di per sé non è di facile comprensione, forse perché non ha un significato neppure per chi l’ha suonato. Ok, piano, non voglio fare la morale, però davvero questo lavoro possiede i proverbiali capo e coda di cui tanto si vuole parlare? Analizziamolo da dentro: quattro brani, di lunghezza crescente, partendo da cinquantasette secondi per arrivare a oltre tredici minuti. Una scelta quasi coraggiosa nel duemilaundici, in Italia, con una copertina che più new wave di così non si può, tradendo anche l’ascoltatore che pensava di comprarsi l’ennesimo emulo di Curtis e soci.
Un tappeto di suoni che non corrisponde a niente di già sentito in Italia ma che comunque non riesce a lasciare il segno.

Se detto questo vi è passata la voglia di ascoltare il disco non disperate, la recensione ha una seconda parte, quella del terzo e del quarto ascolto.
Portraits è, in realtà, un album dalla costruzione intelligente e probabilmente la sua patina di “album inconcludente”, come qualcuno l’ha definito, può svanire solamente con i ripetuti ascolti. Il post-rock, se così vogliamo chiamarlo, o più in generale la musica strumentale in Italia ha sempre avuto grossi nomi all’opera ma non è mai stato creato un linguaggio che fosse una sorta di tragitto da seguire per eventuali seguaci di quella setta. Ecco che si ritagliano così un loro spazietto i Denied Light, che con quattro brani spiegano il loro senso di noise rock italiano, soprattutto con la splendida “F16”. E’ l’estrema divagazione che rende dolce l’ascolto, e la chiave sta nell’ascoltare il disco nel giusto contesto. Allora ve lo godrete davvero. Mi raccomando, NON ASCOLTATELO IN MACCHINA. Solo a volume altissimo, nel relax della vostra camera, con un impianto adeguato potrete godervi un lavoro di grande pregio fatto da ottimi musicisti che riescono a creare eterei tappeti di abusiva voglia di raccontare una storia senza troppe parole. Di lusso.

Lavoro sproporzionato e fuori contesto, ma, nel suo settore, una piccola perla.

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ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Rock italiano, punk rock

TRACKLIST:
1. Cosa Guardi in TV
2. Falafell
3. Esseri Umani
4. Dimenticar L’Aria
5. Giorni da Vendere
6. Ipnopolizia
7. Tutto Il Tempo Che Mi Dai
8. Come Scivola Un Vestito
9. Autostrade
10. Intanto Passa Una Notte
11. Gigante

“Leggere Shakespeare, questo è il vero problema”, tuona Caparezza nell’ultimo brano del suo nuovo disco. Per me il vero problema è stato capire l’esagerata vanagloria con cui la loro cartella stampa li dipinge: è facile capire che questa band si sopravvaluta una volta ascoltato il disco, un concentrato di rozzezza, punk e colpi bassi, che poco si sposa con il curriculum della band e che poco piacerà alla critica più bigotta.
Effettivamente ci sono brani, in questo Downtown Babele, che latitano nel trovare un senso all’interno del resto del disco (“Autostrade”, “Intanto Passa Una Notte”), mentre si concretizza un sound molto forte, quasi granitico, nel resto dell’album, un po’ grazie alla forza centripeta che spinge verso l’esterno, facendoci percepire il tutto come un insieme un po’ più voluminoso di quello che è. Questo per dire che effettivamente l’album è ben costruito, e solo ascoltandolo interamente se ne possono apprezzare tutte le qualità: compattezza, ironia quasi marziale, la capacità di coniare punk e rock’n’roll come oggi la scena rock alternativa italiana VUOLE sentire, con quelle formule che ricordano molto i recentemente usciti Smart Cops, qui più sognatori e meno politici.
La polemica esiste, ma il tema principale del disco sembra essere la sua incontrovertibile mania di grandezza, il voler apparire come un’accozzaglia ipervariegata, quando in realtà in ogni momento parole e musica tendono a distogliersi l’attenzione a vicenda (come in “Falafell” oppure in “Ipnopolizia”).

Attenzione, non vorremo mai farvi pensare che questo disco ci abbia fatto schifo. Semplicemente, non sfiora minimamente le attese. Un potenziale espressivo incredibile si scontra con le delusioni dei risultati ma, ripetiamo, preso con le pinze ed ascoltato completamente ed attentamente, può anche piacere. Come lo hanno definito loro, “una risposta biascicata al bisogno di toccare il cielo”, un cielo che all’interno di questo disco risulta essere molto grigio, e per fortuna che c’è ancora chi si preoccupa di schiarirlo con un minimo di ironìa.

GUARDA IL VIDEO SU YOUTUBE: http://www.youtube.com/watch?v=uhPmzz6pYro


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ETICHETTA: Face Like a Frog Records
GENERE: New Wave

TRACKLIST:
1.  The Solitude of The Ship (Part I)
2. Ahab
3. Ludovico
4. Summer Shade
5. Decay
6. Grasshopper in Your Hands
7. Hang Over
8. Black Dogs
9. The Solitude of the Ship (Part II)

I Mauve rappresentano più o meno quello che la musica degli anni ’90 ha saputo essere, salvo poi essere dimenticata in virtù delle nuove mode, tra revival, indie, new wave, ritorni continui di decenni passati e fashiontronica, neologismo piuttosto comprensibile direi.
Quando il post-rock, il grunge, lo shoegaze, il pulsare isterico di certe perizie trip-hop ma suonate con distorsioni e ritmiche indiavolate, e i Blonde Redhead, si uniscono, tutto quadra. I Mauve riportano in vita quel tipo di suono, lo fanno proprio senza inventare niente ma senza smarrirne gli ideali originari. E’ così che riescono a proporre un disco non tanto fresco ma contemporaneamente capace di distinguersi dalla massa informe delle uscite analoghe per una certa capacità di personalizzazione che si deve soprattutto al combo Tosi-Belfanti, vera anima del progetto, sebbene sul retro del disco compaiano anche altri nomi.
The Night All Crickets Died è, se vogliamo, il punto fermo nella carriera dei due, il disco della conferma, dell’affermazione di una maturità che trafuga con scarsa dignità tutti gli elementi migliori della visceralità e della profondità creativa dei Fugazi, ricreando una versione italica di quella band, senza neppure assomigliargli troppo. Semplicemente uno sforzo che SI DOVEVA FARE, visto che le premesse per portarlo a termine c’erano. E non poteva mancare il violoncello.
Ed eccolo qua, suggestivo, energico, voluttuoso. Sarà anche quel suo rivestimento molto garage, quasi underground, a regalargli una patina capace di elevarlo a simbolo di una generazione perduta che vuole sempre ritornare, tra fasti e passi falsi, ma a noi è piaciuto, così come ci è stato posto, diretto, senza malinconie, sfrontato e sfacciato.

Allora volete capire tutto quello che è stato detto finora? Ascoltatevi “Grasshopper”, “Ludovico” e il double act iniziale/conclusivo “The Solitude of The Ship”, le tre sfumature dell’anima dei Mauve, il perché (e come) loro suonano, il perché dovreste ascoltare questo disco. Vi avevo avvisato.

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ETICHETTA: Smoking Kills
GENERE: New Wave, Post-Punk

TRACKLIST:
1. Intro Leviatano
2. RUV
3. Zion
4. L’Incredibile
5. Nudo
6. Il Cattivo
7. Martin Eden
8. Sciamenna
9. Luminoso & Nero

Sono gli Yut o sono i Litfiba che non riuscendo più a proporre canzoni di una certa rivelanza provano a tornare reincarnandosi in altri corpi?
Sostanzialmente questa formazione si occupa di dare sfogo ad una tradizione new wave che sembra quasi uno stato d’animo, o d’essere, della musica italiana, una sorta di modo di interpretare la musica che dal 1980 ad oggi si è sempre ripresentato con una costanza che nessun altro genere ha saputo avere. E’ per questo che spesso la critica non elogia questo tipo di band, perché innestate in un tipo di revival che non porta più da nessuna parte: è il caso degli Yut, ovviamente, che propongono quel post-punk trito e ritrito di cui molti hanno le scatole piene. Qual è il bello? Che a noi il disco è piaciuto. E ora vi diremo perché.
Yut!, ma con il punto esclamativo, è un album ben forgiato, creato sui presupposti dell’esistenza di una scena che ancora si disseti all’abbeveratoio della Toscana che fu culla del genere (Diaframma e Litfiba, da lì, ma andando verso nord anche i Frigidaire Tango), che sprigiona un’energia post dark di notevole impatto, sollevato, nei risultati, da alcuni accenni di punk più puro e di funk rivisto in chiave new wave, elemento di sicuro interesse perché dimenticato da questo stuolo di “imitatori del non ritorno” che comunque continuano a battere sempre sugli stessi punti. E’ vero che anche gli Yut lo fanno, ma con un modo diverso di interpretare la new wave: se vogliamo, più personale, come sentiamo in “Luminoso & Nero”, “Zion” e “RUV”, brani che negli anni ottanta avrebbero avuto un peso, possibilmente, ancora maggiore.
Diciamolo senza troppi peli sulla lingua: se non sapessero suonare, se non avessero una così buona produzione e se non ci fossero quei piccoli fronzoli funk punk non saremo arrivati alla fine del secondo ascolto. Che dire, un disco che piacerà ai fissati, non piacerà alla critica più dura, ma che è piaciuto, in parte, a noi.
Ora però chi me la fa passare la voglia di tirare fuori i vecchi dischi con Miro Sassolini?

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Martina di Toro, nella seconda parte del set.

blue set

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Queste foto sono state scattate il 5 Marzo 2011 all’Estragon di Bologna da Martina di Toro.
Visitate il suo profilo Flickr qui.

red set

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15 marzo 2011 – KOBAYASHI @ CINEMA MARGHERITA, Cupra Marittima (AP)
16 marzo 2011 – KOBAYASHI @ CINEMA GABBIANO, Senigallia (AN)
16 marzo 2011 – CRIMINAL JOKERS @ APARTAMENTO HOFFMANN, Conegliano Veneto (TV)
17 marzo 2011 – UNEPASSANTE @ STONES CAFE’, Vignola (MO)
17 marzo 2011 – KOBAYASHI @ CINEMA LORETO, Pesaro (PU)
17 marzo 2011 – THE VILLAINS e THE JUNCTION @ LAB 16, Bologna
18 marzo 2011 – APRES LA CLASSE @ ESTRAGON, Bologna
18 marzo 2011 – VERDENA @ VIPER, Firenze
18 marzo 2011 – GRANTURISMO @ NOFUN, Udine
18 marzo 2011 – THE DEATH OF ANNA KARINA @ LOCOMOTIV CLUB, Bologna
18 marzo 2011 – GIOVANNI LINDO FERRETTI canta CCCP, CSI e PGR con gli USTMAMO’ @ NEW AGE CLUB, Roncade (TV)
18 marzo 2011 – KOBAYASHI @ NUOVO CINEMA TEATRO, Matelica (MC)
19 marzo 2011 – THE VILLAINS @ IL PASTEGGIO A LIVELLO, Modena
19 marzo 2011 – VERDENA @ URBAN CLUB, Perugia
19 marzo 2011 – CAPAREZZA @ GRAN TEATRO GEOX, Padova
19 marzo 2011 – ZEN CIRCUS @ CSO PEDRO, Padova
19 marzo 2011 – PINO SCOTTO @ CARUSO, Papozze (RO)
19 marzo 2011 – ORANGE @ POP CORN CLUB, Venezia
19 marzo 2011 – FORTY WINKS @ COVO CLUB, Bologna
19 marzo 2011 – MARLENE KUNTZ @ CSO RIVOLTA, Venezia
19 marzo 2011 – UNEPASSANTE @ THE BROTHERS, Verona
19 marzo 2011 – ZU @ LOCOMOTIV, Bologna
19 marzo 2011 – KOBAYASHI @ CS INTIFADA, Empoli (FI)
20 marzo 2011 – VERDENA @ URBAN CLUB, Perugia
20 marzo 2011 – NON VOGLIO CHE CLARA @ PANIC JAZZ CLUB, Marostica (VI)
21 marzo 2011 – ELISA @ POLITEAMA ROSSETTI, Trieste
21 marzo 2011 – MODENA CITY RAMBLERS – showcase @ FNAC, Verona
22 marzo 2011 – RADIO DEPT. @ UNWOUND, Padova
23 marzo 2011 – KYUSS LIVES! @ LIVE CLUB, Trezzo sull’Adda (MI)
24 marzo 2011 – ZOYSIE @ BIRRACRUA, Vicenza
24 marzo 2011 – RIAFFIORA @ POMOPERO, Breganze (VI)

24 marzo 2011 – KORPIKLAANI, UNLEASHED, MOONSORROW, VARG e KIVIMETSANI DRUIDI @ ESTRAGON, Bologna
24 marzo 2011 – STEREOTOTAL e JOLAURLO @ COVO, Bologna
24 marzo 2011 – RADIO DEPT. @ BRONSON, Madonna dell’Albero (RA)
25 marzo 2011 – VERDENA @ HONKY TONKY, Seregno (MI)
25 marzo 2011 – CRISTINA DONA’ @ TEATRO DE MICHELI, Copparo (FE)
25 marzo 2011 – FU MANCHU @ APARTAMENTO HOFFMANN, Conegliano Veneto (TV)
25 marzo 2011 – NOMADI @ GRAN TEATRO GEOX, Padova
25 marzo 2011 – CURRENT 93 @ COVO, Bologna
26 marzo 2011 – FRANCESCO CERCHIARO AVEC LA BELLE EPOQUE @ BAR SARTEA, Vicenza
26 marzo 2011 – VERDENA @ EXTRACINE MUSIC, Recanati (MC)
26 marzo 2011 – MASSIMO VOLUME @ DEPOSITO GIORDANI, Pordenone
26 marzo 2011 – CAPAREZZA @ ESTRAGON, Bologna
26 marzo 2011 – EX-OTAGO @ NOFUN, Udine
26 marzo 2011 – ORIGINAL! @ COVO, Bologna
30 marzo 2011 – VERDENA @ BLOOM, Mezzago (MB)
30 marzo 2011 – DANIELE SILVESTRI showcase @ FNAC, Verona
31 marzo 2011 – SUBSONICA @ DEPOSITO GIORDANI, Pordenone
31 marzo 2011 – VERDENA @ BLOOM, Mezzago (MB)

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Foto di Eleonora Verri scattate durante il concerto dei Verdena tenuto il 25 Febbraio 2011 in ambito della doppia data al Locomotiv Club di Bologna.

Altri articoli di THE WEBZINE sui Verdena.

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SETLIST:
1. White Noise
2. Killing all the Flies
3. Death Rays
4. How To Be a Werewolf
5. San Pedro
6. I’m Jim Morrison, I’m Dead
7. Helicon 1
8. Rano Pano
9. Friend of the Night
10. You’re Lionel Richie
11. Hunted By A Freak
12. Mexican Grand Prix
-encore-
13. George Square Thatcher
14. My Father My King

Mogwai.
Semplicemente Mogwai.
Potrei fare una lunghissima recensione, estesa e completa, per descrivere questa band ma forse le parole disperderebbero il senso di perfezione che si percepisce ad un loro concerto.
La formazione di Glasgow è semplicemente una delle migliori band in circolazione, almeno nel loro genere. L’evoluzione che ha contrassegnato la loro parabola discografica non ha seguito anche i loro concerti, nel senso che li contraddistingue ancora una potenza incredibile, unita ad una precisione che non può più perfezionarsi perché già cresciuta e maturata abbastanza all’interno di un insieme di caratteristiche soniche che non hanno altra definizione se non il post-rock (o l’art-rock) più puri.
In scaletta brani tratti dall’intera discografia, e se non stupisce la presenza di otto brani su dieci dall’ultimo disco (saltando la bella “Too Raging to Cheers”, ma includendo le più originali: “Rano Pano”, “White Noise” e “Mexican Grand Prix”, la cui resa live è assolutamente spettacolare), stupisce invece quella di brani come “Killing All The Flies”, quasi in apertura, e la conclusiva “My Father, My King”, alla quale segue una distesa coda noise di circa quindici minuti che solleva un muro di suono che da solo si occupa di “pettinare” a dovere il numerosissimo pubblico stipato nell’Estragon. Il locale, celebre per avere un’acustica abbastanza scarsa, tira fuori il meglio di sé grazie all’enorme capacità di tenere il palco e di suonare lo strumento che gli scozzesi riescono a mettere in campo. Eccelle anche il supporto visivo fornito da alcuni video, non sempre puntuali nel descrivere le emozioni sollecitate dai brani, però, quando arrivano, sempre adatti (emerge la loro vocazione da soundtrack che già abbiamo conosciuto in Zidane: a 21st Century Portrait, punto massimo del loro manifesto apprezzamento per il calcio che portano on stage tramite la bandiera del Celtic incollata all’amplificatore).

Che dire, se vi piace la musica strumentale, in particolare quella feroce, aggressiva ma allo stesso tempo distensiva che molte band (sedicenti)post-rock hanno messo in campo negli ultimi quindici anni, non potete perdervi i migliori rappresentanti del settore. E’ un consiglio che dovete accettare da uno che, come me, non ha mai apprezzato questo genere
ma che rimane ogni volta STUPEFATTO di fronte alla loro bravura.

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Rock italiano

TRACKLIST:
1. Dimenticare Noi
2. Cambiare il Tempo
3. Clima di Sospetto
4. Solo di Te

Se n’è parlato poco, volete scoprire perchè?
Noi, in realtà, non lo sappiamo, o meglio ci piacerebbe che ci fosse la giusta attenzione mediatica per tutte le band meritevoli, ma siamo consci del fatto che l’Italia è un paese strano che preferisce lasciare gli artisti a cannibalizzarsi piuttosto che dargli le giuste vetrine per esprimersi.
I Katmai giungono così al loro secondo EP, fuoriuscendo dal tubo di scappamento con una geniale lega di alternative rock e tradizionale hard rock italico, che passa logicamente per un filone che non può esimersi dal comprendere i CCCP, ma anche Litfiba, Timoria e magari qualcuno di più recente: per non citare i soliti Afterhours o Subsonica, nomineremo magari gli Estra o i Ritmo Tribale dei loro ultimi tempi.
La co-produzione di RnO, già al lavoro con il Genio, non si sente. Potrebbe essere anche un pregio visto che questo disco è sprovvisto di una patina pop che ne avrebbe tradito i più sommersi e sinceri ideali revivalisti della (davvero)buona musica italiana. E’ abbastanza evidente in brani come “Cambiare il Tempo” e “Clima di Sospetto”, con un’attitudine molto personale che conferisce quindi anche valore ulteriore ad una capacità compositiva che è notevole fin dai primi momenti del disco (la opener “Dimenticare Noi”). Una band italiana come se ne sentono tante, tante di brave, tante di schifose, ma poche che siano realmente rivestite da questo senso di nazionalismo musicale che tanto ci piace. Niente di politico, tanto di ideologico.

Che dire, se non saranno fagocitati dal nostro sistema discografico omicida e oligarchico, saranno ricordati per qualcosa di veramente valido.

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Ci sono due cose che bisogna dire quando si assiste a concerti come questi: la prima è che ci sono band, chiamiamole emo (per tradizione), che su disco sono ottime e dal vivo fanno schifo, e altre per cui il risultato è proprio l’opposto; la seconda è che spesso la qualità della band si desume dalla qualità dei fans.
Questi due punti si applicano perfettamente a band come i 30 Seconds to Mars che con gli MCR hanno in comune solitamente alcuni aspetti del timbro vocale dei frontmen e la media dell’età dei fans (che sono soprattutto donne). Contrariamente a questi ultimi però, la band di Jersey City sul palco si fa rispettare come o più di molte band storiche della scena punk (si perché se sui dischi si lavora a livelli più pop, possiamo senz’altro dire che in concerto è più l’etichetta punk ad essere appropriata), con una tecnica notevole, aspetto che sottolinea una crescita notevole se guardate i video live di qualche anno fa, il coinvolgimento necessario (e palesemente facile da ottenere) del pubblico, e una setlist che cresce in intensità fino alla fine dell’encore, per poi planare in una sorta di decoroso anticlimax che ne spegne la luminosa lanterna dando ai fans un buon motivo per dire “è finito”. Non è una critica, sia chiaro.
Abbiamo riassunto in poche righe quello che gli MCR hanno proposto sul palco del Palasharp di Milano, palazzetto di medie dimensioni (che conterrà all’incirca 5.000 persone ed era pieno al 60% lunedì), che comunque si presta bene a live di questo tipo con un’acustica abbastanza buona laddove ci sono fonici che sanno lavorare. La differenza si è sentita con i LostAlone, con un sound molto meno preciso. Ma di loro, parleremo tra poco.
Nella setlist, che trovate in fondo, tutti i singoli più celebri della band, molti estratti dall’ultimo disco (meno del previsto, fortunatamente) e una sorpresa, agli inizi, “Thank You For The Venom”, che il sottoscritto si aspettava avendo letto le setlists dei giorni scorsi ma che eventualmente si può considerare tale poiché non si attesta tra le più famose ed apprezzate della band, pur venendo dal loro miglior disco.
La band propone quindi novanta minuti di set tiratissimo, con pochissimi momenti melodici, scatenando un continuativo ed efficace intervento orale e fisico del gruppo che, soprattutto in “I’m Not Okay”, l’iniziale “Na Na Na” (Na Na Na Na Na Na Na) e “Teenagers” spreca fiato a non finire. Si sa, alle band piace vedere che il proprio pubblico sa tutte le canzoni, ma penso che saranno più che soddisfatti di questa reazione (che comunque conoscono molto bene, visto il successo oltremanica ed oltreoceano).
In forma tutti i componenti, dal batterista continuamente in ascesa, a Gerard Way, che sta visibilmente migliorando sia come tenuta di palco che come esecuzione dei brani; impeccabili i due chitarristi, ma questo si sa da sempre.
Facendo un bilancio, il concerto è stato senz’altro notevole, soprattutto se analizzato dagli occhi di una persona che non ha mai sopportato questa band (e che ora, a rigor del vero, la apprezza molto di più). Bypassiamo l’attaccamento morboso di alcuni fans, il pop esagerato dei dischi e dell’apparato visivo che promuovono tramite i videoclip e la bruttezza di un paio di brani (che fortunatamente non hanno proposto), ed avremo una pop-punk/emo band di tutto rispetto, forse tra le migliori in circolazione, e che si merita i bagni di folla a cui si sta progressivamente abituando. Ma, sia chiaro, non i soldi del biglietto, troppo caro. Fanculo.

Prima del set degli MCR sul palco sono saliti i LostAlone, formazione inglese che sta facendo molto successo soprattutto tra il pubblico di band come 3STM, Paramore e analoghi. Il genere di riferimento è sempre un pop/punk molto melodico, soprattutto a livello vocale, ma questa volta le influenze sono più complesse: qualcosa di hard rock, di punk storico e di heavy metal, con particolari note di merito da dare alla chitarra (suonata dall’egocentricissimo frontman Steven Battelle). Una band comunque apprezzabile, anche se non propone sicuramente nulla di nuovo: sul palco precisa, carica, senza sbavature se non per alcune imprecisioni sul mixaggio ad opera dei tecnici del suono che affossano spesso basso e batteria, regalando una patina di aggressività in più alle chitarre ma annacquando il sound in generale.

SETLIST:
1. Na Na Na (Na Na Na Na Na Na Na Na Na)
2. Thank You For The Venom
3. Planetary (GO!)
4. Hang ‘em High
5. SING
6. Vampire Money
7. Mama
8. The Only Hope For Me Is You
9. House of Wolves
10. Summertime
11. I’m Not Okay (I Promise)
12. Famous Last Words
13. The World Is Ugly
14. DESTROYA
15. Welcome to the Black Parade
16. Teenagers
17. Helena
18. Cancer
19. Vampires Will Never Hurt You
encore
20. Give ‘em Hell Kid
21. Bulletproof Heart

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2002: I BROUGHT YOU MY BULLETS, YOU BROUGHT ME YOUR LOVE (Eyeball)

Il primo disco degli MCR, forse il vero disco degli MCR. Dark-emo punk che si può anche definire emo-core, adrenalina, energia, tanto punk, tante distorsioni. Il disco che piace meno ai fans e per questo piace di più a noi, non certo per questo motivo, ma perché si stanno ritagliando lo spazio sbagliato nel genere sbagliato lasciando queste intense atmosfere di graffiante armonia rock anni ’90. Sentite perle come “Headfirst for Halos” e “Vampires Will Never Hurt You”, veri punti fermi di un Gerard “pre-stadiomelenso”, con una produzione più imprecisa e garage che gli garantiva la giusta cattiveria. Senza originalità, che non avranno mai.

2004: THREE CHEERS FOR SWEET REVENGE (Reprise/Eyeball)

E qui si virava verso i nuovi orizzonti della melodia alternative rock che ne ha devastato il futuro discografico. Il bello è che, facendolo, hanno creato il loro disco migliore, un miscuglio tanto omogeneo quanto ben riuscito di emo, punk, alternative e pop che ne ha consacrato la fama sia tra i fans della prima ora che tra i fanecchi ciechi che si ritrovano ora. “Thank You For The Venom”, “It’s Not A Fashion Statement, It’s A Fucking Deathwish” e, perché no, anche “Helena” sono le chiavi di lettura dell’intero disco: roboanti distorsioni con un forte legame con la tradizione punk più recente, testi che affondano i denti nell’emo più radicale per trarne la giusta linfa vitale, un comparto ritmico assolutamente di tutto rispetto. Senza tanto volerlo, una piccola perla.

2006: THE BLACK PARADE (Reprise)

Lo avete ascoltato? Davvero? Allora unitevi al mio coro: no, no, no. Il modo più sbagliato di (voler per forza) uscire dall’anonimato. L’estetica dark ridicola di copertina e video si unisce al singolo “Welcome To The Black Parade” nel dichiarare il fallimento della loro evoluzione discografica. Salvano la faccia gli altri due estratti, “Teenagers” e “Famous Last Words”, il giusto modo di fare soldi con brani melodici e contemporaneamente carichi ed originali, nel momento in cui l’esaurirsi del significato di questa parola diventa determinante per capire di cosa stiamo parlando. Momenti melensi a parte, raggiunge quasi la sufficienza: si salva la carica di certi brani che diventeranno cult in concerto, ma niente di troppo esagerato, con una virata pop che non si può far altro che condannare.

2010: DANGER DAYS: THE TRUE LIVES OF THE FABULOUS KILLJOYS (Reprise)

Forse è vero che questa band, tra quelle più commerciali del settore, è la migliore. Avete presente i Paramore, i 30 Seconds to Mars, i LostAlone e molti altri? Nessuno potrà durare più di tanto senza rinnovarsi, ma gli MCR, forse, si. DD (ecc.) è un disco fresco, melodico al punto giusto che dona nuova linfa al loro percorso sia dal punto di vista musicale che da quello grafico. Mancano brani particolarmente aggressivi e carichi, ma resta la cultura punk in un sottobosco che si mantiene in tutti i brani eccetto “SING”, secondo singolo estratto e, se permettete, il peggiore dell’intero disco. Riuscire a commercializzarsi senza scadere esageratamente nel banale è un merito che non si può non riconoscergli, però li attendiamo al varco per dirgli sempre in faccia che li preferivamo prima. Disco riuscito solo perché manca qualcosa che ne definisca concretamente il fallimento, che in realtà è avvenuto. Ottimo, comunque, da proporre live.

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ETICHETTA: Emi
GENERE: Pop italiano

TRACKLIST:
1. Eden
2. Serpente
3. Il Diluvio
4. Prodotto Interno Lurido
5. Benzina Ogoshi
6. Sul Sole
7. Quando
8. Istrice
9. Tra Gli Dei
10. La Funzione
11. L’Angelo
12. Subvolley (Inno dei Mondiali di Pallavolo)

Loro e il loro fottutissimo modo di attirare sempre l’attenzione.
Loro e il loro fottutissimo pop che ti prende in maniera irreparabile.
Loro e la loro mania di commercializzarsi sempre più senza perdere mai la loro personalità.

Sarebbe così il modo migliore di recensire Eden ma forse una delle uscite più attese del duemilaundici merita qualche parola di più. Uno spreco che mi posso permettere.
Samuel Romano e soci sfornano, in verità, un disco CRIMINALE. Criminale perché distrugge il concetto di pop che abbiamo creato negli ultimi anni, dove il rock si è affievolito fino a diventare un miscuglio inverosimile di melodia e ipocrisia discografica; criminale perché non inverte nessuna rotta, né cambia niente all’interno di un percorso che i Subsonica non hanno mai smesso di seguire; criminale anche perché, di nuovo, come L’Eclissi e Terrestre, dividerà la critica e il pubblico.
Eden è, sotto sotto, un bel disco. Il problema è che bisogna capirlo e superare la delusione che risiede soprattutto nelle linee vocali di Samuel, spompe e molto meno melodiche del solito, devastate da uno stile che gli appartiene talmente tanto da essere diventato parte di una cultura difficile da mantenere nel tempo. Un po’ come se fosse diventato ovvio quello che canterà nel prossimo disco e, diciamoci la verità, è proprio così. Altro problema è stata la scelta dei primi due singoli: la title-track, uno dei migliori brani dal punto di vista musicale, arrangiata benissimo seguendo la traccia del loro tragitto dance-pop che a noi piace molto, non attacca come estratto radiofonico, così come Istrice, incredibilmente scarica e priva di carica emotiva/emozionale. Belle, però, le liriche.
Nel disco anche ritmi indiavolati che infervoreranno i tanti fans ai concerti che li attendono al varco: vedasi “Il Diluvio”, che ricorda molti episodi già sentiti, “La Funzione”, che però sembra quasi un versione velocizzata dei Baustelle e, per fare un gioco di parole, funziona molto poco. Nel testo parla di “esitazioni” e infatti è proprio un brano-esitazione all’interno della loro carriera, sembrando quasi paradigma di un’insicurezza che si portano dietro da tempo.
Il resto è bello: la sboccata malinconia di alcuni testi, le scelte lessicali che sono sempre state efficaci (“L’Angelo” e “Benzina Ogoshi” tra le più “tipiche”, anche se quest’ultima si fregia di un’autoreferenzialità che mette in gioco troppe vanterie, criticando a sua volta chi ha sempre voluto giudicare una band che comunque non può pretendere di non ricevere giudizi negativi viste le scelte azzardate che ha intrapreso molto spesso), una produzione OTTIMA e pulitissima, che renderà benissimo soprattutto nei live set. Delude sotto certi punti di vista la svolta parapolitica che li contraddistinguerà ancora di più come band comunista che, oggi, è diventata quasi un’offesa da parte delle destre che ci ritroviamo. Non che me ne freghi qualcosa, giacché il sottoscritto ama le band schierate, ma a volte sembra che la freddezza tipica della timbrica di Romano sia repellente alle frasi di stampo politico.

Se diamo una controllatina a quanto abbiamo detto il verdetto è presto fatto. I Subsonica hanno rischiato di deluderci e non l’hanno fatto, per l’ennesima volta. “Non sei riuscito a darci un taglio”, Samuel, e infatti la tua parlantina nei testi delle canzoni ti ha salvato di nuovo il culo, grazie comunque al contributo musicale degli altri che è senz’altro determinante a questo punto della loro carriera.
Chissà dove arriveranno? Forse è questo il punto fermo prima della discesa?

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Qualche giorno fa vi parlavamo dei Poptones. O sbaglio?
Ecco sbucare il loro nuovo video, che annuncia il loro secondo EP, di nuovo pubblicato con Mia Cameretta Records.
Gustatevi questa retrò-perla dal titolo “Side B”

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ETICHETTA: Black Nutria Independent Label
GENERE: Indie rock, noise rock, alternative rock

TRACKLIST:
1. Consequences
2. Rust
3. Dismembered
4. Sailing Away
5. U.T.W.
6. The Last Man
7. Ignorance
8. Guilty

Black Nutria. Polar For The Masses. Silence.
E silenzio sia in quel di Vicenza per una delle band più celebri del panorama veneto che arriva, con questo Silence, a dare alle stampe il terzo disco, dopo due ottimi lavori: “Blended” e, retrocedendo, “Let Be Me Here”. Si arriva così ad una piccola perla di indie rock dagli influssi fortemente nineties, che attesta la buona salute della scena da cui provengono, promossi da un’etichetta fortemente devota a quest’ultima, soprattutto per un legame territoriale che è piuttosto evidente nella scelta delle band.

L’equazione [indie + punk (molto blando e melodico) + testi in inglese + sound vagamente garage + noise anni novanta] sembra, non solo matematicamente, funzionare. Sulla carta rende questo disco un gioiellino di vaghissima musica rock come tanti, cioè un buon lavoro all’interno di un percorso che stanno battendo un po’ troppe persone. Ideologicamente parlando, una scelta poco convincente. Ma è sul campo, nei loro live, nei ripetuti ascolti del disco sparato a massimo volume che si capisce la sua vera anima rock, un disco puramente rock dove finalmente vengono soppressi quei synth new wave che sporcano tutta la musica indipendente degli ultimi anni, con un sound che si spoglia di tutte le possibili levigature e si presenta sporco come le migliori band statunitensi del settore. E’ la varietà che dimostra a saturare il nostro udito per bene, appagandolo gradualmente con sensazioni ed emozioni sempre diverse, ad esempio quando parte il groove vagamente electro di “U.T.W.”, o nelle linee vocali del ritornello di “Consequences” che sembrano prima un plagio di “I Was Made For Loving You”, ma poi si rivelano una buona trovata al limite dell’orecchiabilità che regala a questo pezzo il titolo di brano più radiofonico.
L’anima del disco è comunque ruvida, graffiante, se vogliamo tagliente, affidando alle chitarre e al basso quasi sempre distorto il compito di abradere, quasi raschiare, la superficie molto piatta che la batteria contribuisce a creare, con ritmi sempre molto semplici, precisi e diretti. Piano contro forte, oppure, semplicemente, compartecipazione, compenetrazione. E’ evidente anche la matrice noise di alcune sezioni che sembrano “troppo lunghe” (es. il finale della già citata “U.T.W.”), ma che svelano la presenza, nel range delle ispirazioni, dei migliori momenti dei Sonic Youth. Tutto ciò è ampiamente ripulito grazie alla presenza di un sound temperato e mite, di stampo britannico, in brani molto carichi ed aggressivi come “The Last Man”, canzone della quale si ricordano soprattutto la melodia vocale, molto easy-to-remember, i forti inserimenti chitarristici, e la batteria tipicamente rock’n’roll.

I pregi di questo disco sono senz’altro un’esterofilia ridotta ai minimi termini nonostante le influenze vengano tutte da lì e i testi siano in inglese, e l’estrema ed efficace personalizzazione di un genere che sta diventando troppo seguito per meritarsi ancora di essere appannaggio di tutti. Com’è possibile quindi che due possibili difetti diventino motivo di gloria per un disco?
Molto semplice, i Polar for the Masses ci sanno fare e miscelano lo straniero al nostrano inserendo nel frullatore il proprio background musicale insieme ad un personale gusto che notiamo essere tipicamente veneto. No, non parliamo di inflessioni dialettali nella voce, perché l’inglese in alcuni tratti è dannatamente perfetto, ma di quell’attitudine rock’n’roll che la (nostra) scena veneta sta ormai facendo proprio, esattamente come la band.
Un disco essenziale per capire lo status dell’underground in questa regione e, più in generale, in Italia. Procuratevelo (anzi, ascoltatelo nell’anteprima qui sotto, finché c’è!).

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Recensione pubblicata anche su IMPATTO SONORO
ETICHETTA: MadMan Records
GENERE: Post-punk, indie

TRACKLIST:
1. Apatica
2. Cravatte e Cucchiai
3. Solite Illusioni
4. Il Tuo Segreto
5. Canali e Spirali
6. Orano
7. Madre Universale
8. Plexiglass
9. Il Doo
10. Schiava

Rimpasti di indie, post-punk, frangenti più propriamente punk e soporifere ballad neo-post-qualcosa. I Violaspinto si presentano, più o meno, con una di quelle formule snob-pasticcio che ci piacciono poco, ma, per fortuna, lo fanno con un certo decoro.
Scartato il pacchetto e tentato il primo approccio critico privo di pregiudizi, troviamo effettivamente la vera natura di questa formazione lombarda: un’anima rock puramente garage, con velati riferimenti al punk più classico che ritornano sia a livello di sound che di strutture dei brani.
Non è facile capire perché, oggi, così tante band si stiano dando a queste soluzioni così “spinte”, eterogenee e che viaggiano ai mille all’ora contromano rispetto alla “pulizia del sound” che sembra essere una moda degli ultimi tempi: è proprio questo che definiamo più spesso “garage”, al giorno d’oggi, focosa e sfocata tendenza a sporcare i suoni, distorcere l’indistorcibile e ammorbidire poi il tutto in pretenziose ballatine dall’anima nineties. Beh, sembrerebbe proprio che Indivenire non mi sia piaciuto, ma non è così. Analizzando con una certa debolezza metafisica questo disco, mi sono venute in mente corse in autostrada che poi si arrestano, nervose, al pagamento del pedaggio, smielose dichiarazioni d’amore, amarezze alimentari che non si possono mandare giù. Beh, una specie di “piano-forte”, “dolce-amaro”, “agro-dolce”, un gioco delle contrapposizioni che nonostante prediliga quasi sempre gli aspetti più “duri” delle coppie antitetiche, fa sentire il peso di entrambe. Lo si sente in “Plexiglass” e “Apatica”, tra le più cariche, e poi in “Il Dono” che, insieme a “Il Tuo Segreto”, rivela la natura più (melo)drammatica, sentimentale e romantica della loro musica, per certi versi definibile come un indelicato tentativo di struggere l’ascoltatore con testi pseudo-poetici che verranno apprezzati soprattutto da fan di band molto “alterate” dal punto di vista letterario, come Verdena, Afterhours e Marlene Kuntz, diciamo quelle più classiche per noi degli anni zero, ma che comunque presentano sempre una stesura dei testi piuttosto impalpabile. Esercizi di scrittura, a volte, sembrano portare a riflessioni di natura molto intimistica (la sezione-reading di “Madre Universale”), mentre l’estatico alternarsi di roboanti distorsioni e dolci stacchi melodici culla l’ascoltatore al punto da creare, dopo qualche ascolto, una sensazione di distensione capace di rilassare e, contemporaneamente, spronare il listener a continuare la sua esperienza con i Violaspinto.
Strumentalmente la band se la cava anche se viene, qualche volta, penalizzata da alcune sviste alla produzione (che comunque si caratterizza per un certo morboso legame autoreferenziale al genere proposto dalla band, così come lo sa suonare). Per il resto, il disco è piuttosto completo e segnala la presenza di una formazione valida e che, con un minimo di personalità in più, presenta già evidenti tracce di una maturità che non tarderà ad arrivare.

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