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Archive for the ‘GENERE: Folk’ Category

Recensione di Andrea Marigo

ETICHETTA: Fat Possum Records
GENERE: Folk, songwriter, rock

TRACKLIST:
1. The Heart Is Willing
2. Down in the Fire (Lost Sea)
3. Skull & Bones
4. 123 Dupuy Street
5. Surfer King
6. Hiway / Fevers
7. DRMZ
8. The Twist
9. Rte. 28 / Believers
10. Scenes form a Circus

Voto 4/5

A.A. Bondy (Auguste Arthur Bondy), è il frontman dei Verbena, band grunge americana (che vanta tra l’altro un gran disco prodotto da Dave Grohl, Into The Pink) scioltasi nel 2003.
Dal 2007, il suddetto artista, decide di passare dalle chitarre à la Cobain alle chitarre acustiche ed inizia il suo percorso (scontato) da songwriter, sfornando dischi solisti, che in realtà non sono per niente malaccio, dalle tonalità folk.

Chiaro che fin qui non c’è niente di male, considerando anche il fatto che il “giovane” detiene una delle migliori voci mai sentite (gusto personale per carità per quanto riguarda il panorama di cui si sta parlando), ma si sa: di dischi folk-solisti-acustici ne è pieno il mondo e differenziarsi da quel che c’è non è la cosa più facile da ottenere. Cosi infatti è per i primi due album che Bondy, in versione solista, da alla luce. Poi questo Believers del 2011 segna invece un cambio di marcia più personale e ci regala un disco molto interessante.
Sempre folk rimane ma stavolta, chitarre semi acustiche, slide e leggere batterie sono coinvolte in un amalgama insolito per il genere.

Un disco che dipinge magistralmente la propria copertina di quando ognuno cerca la propria fuga dall’intorno e si vuol rimaner da soli, senza tante lagne di cornice.

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Artists Record
GENERE: Celtica, elettronica, world music

La stagnazione in termini di novità discografiche ha prodotto negli ultimi anni almeno due macrocategorie di artisti che, prendendo in prestito due termini del linguaggio politico, potremmo chiamare “progressisti” e “conservatori”: i primi tentano di andare avanti, superare le etichette ormai “classiche” – e bisognerebbe aprire un dibattito riguardo l’opportunità di alcune di queste – spesso contaminando, mescolando, fondendo materiale proveniente da diversi orizzonti. I conservatori, lo dice il termine stesso, rimangono attaccati a stilemi e motivi del passato, ripetendosi e contribuendo alla ciclicità del ritorno delle mode. La domanda da fare è dunque: dove si collocano i The Sidh? Intanto, chi sono? Marr, Melato, Subet e Pagliaro sono quattro musicisti già attivi in altre formazioni che si sono uniti con lo scopo dichiarato di dare una patina moderna alla musica celtica di matrice irlandese, un genere di per sé chiuso, complice l’isolazionismo di questa zona d’Europa. Per riadattare e rivedere brani tradizionali appartenenti ad un’altra cultura bisogna innanzitutto conoscerla a fondo e il quartetto lo dimostra, quantomeno sul piano musicale. Gli elementi “nuovi” si identificano qui nell’elettronica, quindi drum machine, sintetizzatori, tastiere, con strutture e accentazioni ritmiche provenienti da alcuni dei generi che più hanno aggredito massivamente l’industria musicale nell’ultimo lustro (dubstep, r’n’b, hip hop americano, drum’n’bass, glitch), senza tralasciare le tracce di folk, di prog, di punk a cui la band aveva abituato gli ascoltatori. Il risultato è un intelligente mosaico di musica vecchia e nuova, dove l’obiettivo di attualizzare ogni singolo brano può fare a volte dimenticare la presenza dell’elemento irish, anche se il contributo di strumenti come la cornamusa è determinante per mantenere il collante ideologico che regge questo lavoro. Immaginatevi i Flogging Molly che incontrano Alva Noto e gli Autechre, Shane MacGowan che canta su una produzione brostep di Nero, l’hip hop di Diplo con le uilleann pipes. L’operazione riesce sicuramente dal punto di vista della fusione dei linguaggi, grazie ad una registrazione e ad un mastering di grande classe. L’impressione che i musicisti abbiano spinto più sui suoni che sull’intensità emotiva o la naturalezza dei brani tende a minare la bellezza di alcuni momenti, ma anche questo aspetto è perfettamente controbilanciato dall’ottima capacità strumentale udibile in tutte le sezioni. E’ grazie a questo che la definizione “prog” non risulta più così fuori luogo.

Se vi piace il folk irlandese/celtico e siete curiosi di sentirlo in una maniera “diversa”, vi consigliamo questo viaggio. Se vi farà storcere il naso, vi si chiede comunque di comprendere quante capacità servano per comporre un disco del genere, frutto di un innegabile labor limae. Piacevole scoperta degna di brillare in un periodo di ombre.

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ETICHETTA: Time Travel Opp, Triste
GENERE: Folk

TRACKLIST:
After Catalunya
Four Million Silhouettes
A Lullaby Hum
Francis Thompson
Every Other Second Day
Five Fields
So Long Magic Helper
Houses, Empty as Holes
Emilelodie
Isaac’s Dream of Tired Streets

Mi da fastidio fare la prima recensione del 2013 con un disco del 2011, ma questo Emphemetry lʼ ho scoperto da poco e, a mio avviso, questo suo lavoro non è malvagio. Per chi non lo conoscesse, e suppongo non lo conosca quasi nessuno, Emphemetry è la firma di Richard Birkin, chitarrista dei Crash Of Rhinos, band hardcore inglese. In questa opera propria, lʼ inglese suona tuttʼaltro: presenta un disco di stampo acustico, con arpeggi di chitarre e quinte di archi, After Catalunya, Five Fields; con voce qua e là in stile folk-singer, So Long Magic Helper e nella conclusiva Isaac’s Dream Of Tired Streets; percussioni che trascinano cavalcate quasi post-rock con ianoforti che segnano la cadenza delle melodie come in Francis Thompson.
Belli gli episodi in cui vuole emulare le atmosfere nordiche dei Sigur Ros, A Lullaby Hum e Houses, Empty As Holes dove butta lʼ orecchio alle prime suonate di Bon Iver. Discreta anche Emilelodie, brano interamente composto si di corde arpeggiate, ma che in
questo caso sono corde di un pianoforte.
Nel suo insieme quindi, A Lulluby Hum For Tired Streets, non è un lavoro che presenta qualcosa di nuovo nel panorama musicale, ne tantomeno contiene brani memorabili, ad ogni modo risulta un disco consigliato agli amanti del genere e a chi cerca una sorta di colonna sonora per gennaio.

Voto: 2.5/5

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Garrincha Dischi è una delle migliori etichette attive in questo periodo in Italia. Lo dimostrano uscite veramente molto interessanti che stanno innalzando di molto il livello della nostra musica. In questo articolo parleremo di 33 Ore, manzOni e L’Orso, ma non ci sono solo loro: i The Walrus hanno fatto uno dei migliori dischi sentiti ultimamente (e ne abbiamo parlato qui), il Black Album di Le-Li è spettacolare e non è da meno neppure il nuovo Turisti della Democrazia dello Stato Sociale, nuovo fenomeno del momento con quel gran pezzo che è “Mi Sono Rotto Il Cazzo“.

33 ORE – ULTIMI ERRORI DEL NOVECENTO (2011)
Gli ultimi errori del novecento sono il tema di questo disco, firmato Marcello Petruzzi, ovvero 33 ore. Blues dall’inizio alla fine, in questa sorta di aria satura di echi di Tom Waits, Nick Cave e Captain Beefheart (e quindi l’unica band moderna che attinge da qui senza essere banale: i White Stripes). Storie di vita quotidiana come se piovesse in “Il Vecchio Mario” (che ricorda un po’ Il Giovane Mario di Brunori SAS, ma forse non c’entra niente), Adriano Sofri e le sue lettere dal carcere in “Le Donne Belle”, la capacità di dipingere un immaginario naturalistico con un linguaggio poetico non scontato in “Primo Polline”. Gli arrangiamenti e il sound tendono piuttosto spesso agli USA, ma sono le ballad a riportarci verso un folk blues come adesso si fa anche in Europa, come insegna l’onesta e buona “Re di Piume”.
Il disco è ottimo, non perde mai colpi durante i suoi undici brani e riporta l’attenzione su questo garage blues vecchio stile che in troppi dimenticano essere stato principale elemento fondante di molta musica moderna. Non risparmiando neppure il grunge e il punk, quando si facevano ancora bene. Ed ecco i vostri ultimi errori del novecento.

manzOni – L’ASTRONAVE EP (2011)
Ad esempio questo è un bel disco che tutti definiscono post-rock, un’etichetta che, se permettete, è la più sbagliata possibile. L’Astronave EP è un album complesso, un pochino pesante se vogliamo, ma nella sua aria irrespirabile per i meno abituati ad una musica leggermente più colta della media, trova anche il modo di essere orecchiabile. I cinque veneziani ondeggiano tra momenti tranquilli e quasi cantautorali, a rumorismi noise/post-punk che derivano tanto dagli Slint quanto dai Sonic Youth. “A Lei, Di Lei” è perfetta nel racchiudere le due anime, ma il brano che colpisce di più per un effetto certamente caleidoscopico nella variegatezza dei suoi toni è “Anna”. “Ray Moon” si dimena in un campo più radio-friendly in maniera personale, essendo una ballad profondamente fuori dagli standard, senza la forma strofa-ritornello-strofa-ritornello che i manzOni sembrano non conoscere. Fortunatamente. Senza cliché. Un EP interessante che merita più spazio per esplorare meglio le grandi capacità compositive di questi ragazzi veneti.

L’ORSO – LA PROVINCIA EP (2011)
Ascoltare l’EP La Provincia è come fondere insieme qualsiasi indie folk act, Band of Horses/Bon Iver/Grizzly Bear/quellochevolete, con un cantautore di quelli giovani e spensierati, ma non Brondi, quanto più un Max Pezzali, come alcuni critici hanno sottolineato. I testi sono semplici, d’impatto e chiunque ci si può identificare, sono realisti, parlano di quotidianità, di presente. I toni, anche per quel che riguarda il lessico, sono sempre molto coloriti, l’aria è frizzante e sotto un certo punto di vista si respira anche del buonumore (“Quanto Lontano Abiti” e “Invitami Per un Tè” nascondono un’atmosfera anti-malinconica nonostante le tematiche). A fare da contraltare alcune scintillanti ballad dal sapore fortemente autunnale come “Baci dalla Provincia”, che apre l’EP e per certi versi lo chiude, dipingendo in pochi minuti tutto ciò che si ascolterà anche nelle altre quattro tracce.
L’Orso ha tempo per crescere, ma questo EP senz’altro mette in campo tutte le potenzialità, che si potranno esplorare meglio in un full-length che si aspetta senza porsi troppe domande.

 

IN TOUR:
29 febbraio – LO STATO SOCIALE @ TEATRO HOP ALTROVE, Genova
02 marzo – LO STATO SOCIALE @ GROOVE, Potenza Picena (MC)
02 marzo – L’ORSO @  TAMBOURINE, Seregno (MB)
03 marzo – LO STATO SOCIALE @ LA LIMONAIA, Fucecchio (FI)
07 marzo – LO STATO SOCIALE @ DALLA CIRA, Pesaro
08 marzo – L’ORSO @ ALL’UNA E TRENTACINQUE CIRCA, Cantù (CO)
09 marzo – LO STATO SOCIALE @ LOCANDA ATLANTIDE, Roma
10 marzo – LO STATO SOCIALE @ OFFICINE INDIPENDENTI, Teramo
16 marzo – LO STATO SOCIALE @ CLUB ZENA, Campagna (SA)
17 marzo – LO STATO SOCIALE @ ZONA FRANKA, Bari
23 marzo – LO STATO SOCIALE @ CSO PEDRO, Padova
24 marzo – LO STATO SOCIALE @ VOODOO ARCI CLUB, San Giuseppe di Comacchio (FE)
30 marzo – LO STATO SOCIALE @ OFFICINE CORSARE, Torino
31 marzo – LO STATO SOCIALE @ UNIVERSITA’ POLO PORTA NUOVA, Pisa
06 aprile – LO STATO SOCIALE @ KALINKA, Carpi (MO)
07 aprile – LO STATO SOCIALE @ INDIEHOME, San Benedetto del Tronto (AP)
13 aprile – LO STATO SOCIALE @ CASA AUPA, Udine
14 aprile – LO STATO SOCIALE @ GLUE, Firenze
15 aprile – manzOni @ ZUNI, Ferrara
20 aprile – manzOni @ DISCANTO LAB, Chioggia (VE)
21 aprile – LO STATO SOCAILE @ CUBO ROCK, Catanzaro
24 aprile – LO STATO SOCIALE @ LA STAZIONE, San Miniato (PI)
28 aprile – LO STATO SOCIALE @ VINILE 45, Brescia
30 aprile – LO STATO SOCIALE @ OFFICINA 99, Napoli
04 maggio – LO STATO SOCIALE @ RATATOJ, Saluzzo (CN)
18 maggio – LO STATO SOCIALE @ APARTAMENTO HOFFMAN, Conegliano Veneto (TV)
09 giugno – LO STATO SOCIALE @ ETNOBLOG, Trieste

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Ritorna IN BREVE, rubrica assente da tempo, per parlare di tre uscite da noi ritenute molto interessanti, a cavallo tra duemilaundici e duemiladodici. Il primo, anno dell’aria fritta e di qualche piacevole novità, il secondo già partito bene ma che come il 2011 finirà per il deludere.
Ma tenteremo di non sconvolgere la vostra mente aperta oltre.

MARCO SPIEZIA – SMILE 🙂
folk/cantautorato – 2011 – etichetta: Accorgitene TM/Screenplay
Missione: saltare. New wave, indie, alt-rock, tutti i generi più in voga degli ultimi anni rimangono fuori da questa piccola perla di rumore acustico folk-swing di ottima fattura. Da maneggiare con cura, perché è un fragile e intenso lavoro di chitarra acustica e sfiatacchiamenti ska che non deludono mai; niente riff orientaleggianti di natura pacchiana, niente fisarmoniche a gogò, ma tanta voglia di fare tanto con poco, usando solo i classici strumenti della “band”. Piccola gemma di letteratura suburbana e musica ballabile senza le pretese di essere vintage. E ora: scatenarsi sotto il palco.

L’AMO – DI PRIMAVERA IN PRIMAVERA (ascolta qui)
indie pop – 2011 – etichetta: Fallo dischi
Un bel disco. Ci si sentirebbe in colpa a concludere qui, tante sono le cose da discutere. Di Primavera in Primavera è un album bollente, un forte calderone rock dalle distorsioni calde, che fondono alt-rock punkeggiante italico à-la-TARM, con i vizi new wave del primo periodo di militanza di Davide Toffolo nei Futuritmi. Come dei Joy Division in panico e con il triplo della voglia di spaccare, la vena è ballerina, potente, incalzante e sbrodolata con una produzione mediocre ma che dà la giusta dimensione del rock fatto con le palle. Sentire “Sulla Svirilizzazione di Quagliarella”, in conclusione, per credere, sviscerando anche tutta l’ironia di liriche veramente fuori dal comune. Per un’etichetta come Fallo Dischi, un’altra uscita veramente spettacolare.

JET SET ROGER – LA COMPAGNIA DEGLI UMANI
pop rock – 2011 – etichetta: Kandinski Records
Questa è musica d’autore, pop rock italiano che con il cantautorato ci va a nozze, ma che non smette di contaminarsi di nuove bellezze d’oltreoceano. Come un indie pop sfrontato e semplificato, freddo, che penetra in alcuni di questi italianissimi brani (“Guarda Fuori”, “Ti Avvelenerò”), mentre invece il suo cuore è britannico, spostando il raggio d’azione verso un brit-pop più pazzerello e bohemien, alto di spalle, dalle forti venature liriche. Cinismo e metafisica trascendentale per dei testi misantropi e di grande pregio, mentre l’inquietudine del pop nero di La Compagnia degli Umani vi permeerà della sua malizia profondamente idealista, romantica. Un Wilde in musica negli anni della musica fallita. Da non perdere.

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ETICHETTA: Quasi Mono Records
GENERE: Folk

TRACKLIST:
1. All I Do Is Sing the Blues
2. Disappeared
3. Paso Doble (Flowers and Jails)
4. Oh, What You’ve Done to Me!
5. Jane’s Choice
6. A Rabbit’s Tale
7. Loving U Ku
8. Gentle Way
9. Moonshine Once Betrayed Me
10. Ballad in Plan D

Moonshine Once Betrayed Me è un bel disco. Trotterella galante lungo tutte le sue dieci tracce rimasticando linguaggi triti e ritriti come quelli del folk e del blues, ormai ripasticciati in ogni modo anche dai nostri connazionali, con un’impronta tipicamente italiana e che si fregia di quell’atmosfera festosa che spesso accende jam session del circuito blues rock. Riferimenti si incontrano anche nel country e nel folk più cantautorale, andando dietro a Tom Waits, il Bruce Springsteen di quando non è necessario parlare solo di sogno americano, e l’immancabile Bob Dylan. L’ospitata (comprendente anche componenti degli Scisma, degli Annie Hall, dei Guru Banana e di altre band di spessore come i The Record’s) impreziosisce gradevolmente il già scintillante pacchetto, seppur il contenuto non venga in nessun modo nobilitato dai contributi forniti. Ombretta Ghidini e Laura Mantovi compongono così un disco molto attrattivo, in linea con il nome della band, che con la sua solidità ritmica dona sicurezza e pregio anche ai momenti più nervosi ed elettrici, quelli più party-oriented (“Loving U Ku”, “All I do Is Sing The Blues”, quest’ultimo il loro vero manifesto), mentre ascoltando con attenzione tutto il resto scopriamo che gli elementi più interessanti sono quelli che affondano le radici nel terreno sentimentale-neoromantico in puro stile Waits. Ma c’è anche Cash. “Jane’s Choice”, “Ballad in Plan D” e “Gentle Way” tra le migliori, ricordando anche che l’indie folk americano degli ultimi anni ha partorito tantissimi imitatori ma noi in Italia abbiamo anche saputo dare di più (anche perché gli …A Toys Orchestra, seppur rivolti verso tensioni più mainstream, sono veramente dei fighi).

Le novità non esistono più. Per questo si può essere propositivi, lucidi e solari anche quando si rivanga un territorio impervio ma già interamente scoperto ed esplorato come il folk blues. Le sirene, solitamente, tendono ad ammaliare: a queste basta fare buona musica. Quello di cui abbiamo bisogno.

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Recensione di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: Sub Pop/Bella Union
GENERE: Folk

TRACKLIST:
1. Montezuma
2. Bedouin Dress
3. Sim Sala Bim
4. Battery Kinzie
5. The Plains/Bitter Dancer
6. Helplessness Blues
7. The Cascades
8. Lorelai
9. Someone You’d Admire
10. The Shrine/An Argument
11. Blue Spotted Tail
12. Grown Ocean

VOTO: 3/5

Parliamo di un album che doveva uscire nel 2010.
Partiamo quindi dal presupposto che la band di Seattle, dopo lʼesordio omonimo del 2008, ha sofferto di ansia da prestazione, che ha costretto Robin Pecknold e soci a lavorare intensamente sui pezzi di questʼalbum, nel senso di fare-rifare-ripartiredazerorivalutarepreoccuparsi e partorire il disco per il pubblico lʼanno successivo. Ebbene, ascoltando questi dodici brani, bisogna dire che la paura di sbagliare non ha portato allʼerrore, ma ha contribuito a perfezionare le idee che evidentemente stavano alla base.
Tutte le tracce si muovono attorno al classico folk americano degli anni 2000, ma con rimandi agli anni ʼ60 e ʼ70: chitarre acustiche, batterie leggere, archi, mellotron, violini, atmosfere lisergiche, voci corali, questʼultime che rimandano al genio di Brian Wilson, soprattutto quello di “Smile”.
E questo non è un indizio da poco.
Il folk dei Fleet Foxes fa parte di quel ramo del folk solare, che sfiora il pop dei Sessanta.
Non cʼè nulla a che vedere con lʼ intimità malinconica di Bon Iver o del primo Iron and Wine, tranne qualche esempio come “Blue Spotted Tail”; lʼunico elemento in comune con i due songwriters, sono le camicie a quadri e le barbe lunghe.
In generale “Helplessness Blues” è un album che gode di unʼottima visione dʼinsieme, i brani sono ben amalgamati tra loro e rendono coerente lʼintera opera, dove emerge una distinta genuinità della band di Seattle.
A primo impatto manca un brano che spicca tra tutti, ma forse ciò è dovuto alla buona composizione di tutte le tracce.
Quindi a somme fatte, tranquilli Fleet Foxes, non avete bisogno della pillola blu.

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ETICHETTA: Ululati dall’Underground, New Model Label
GENERE: Folk

TRACKLIST:
1. Il Gallo Ha Fatto l’Uovo
2. La Poltrona
3. La Mia Rivoluzione
4. Portami Via
5. Ricomincia a Sognare
6. Se il Petrolio Fosse Olio
7. In Mezzo al Mare
8. Abramo/la Verità
9. Il Mutuo
10. Il Tuo Senso Critico
11. Pigro
12. L’Uomo Magnifico/Rideau Pour L’Homme Magnifique
13. Margherita, 1902

Il rigoglioso folk casereccio e ballerino dei Puntinespansione arriva come un fulmine a ciel sereno nel periodo d’oro dell’alternative rock aggressivo e iperdistorto. Dentro Trentenni Sofisticati, tutto sommato, ci sono quasi solo ballad, molto cariche ed energiche, potenzialmente molto valide, ma atterrate in maniera piuttosto grave da pesanti ostacoli come una produzione scarsa e una certa assenza di originalità. Di là della barricata, però, troviamo anche il divertimento cieco di momenti meno sterili e più dediti alla danza spensierata, non accecata dalla foga, molto diffusa anche tra gli inesperti della composizione e della scrittura, di “dire qualcosa”, di “essere impegnati”. Un modo diverso di approcciarsi a questo mondo meno malinconico che, essendo onesti, piace poco. Ciò che inchioda saldamente questo disco ad una concezione puramente italiana, nel senso attuale del termine, è comunque proprio questa semi-politicizzazione, una serietà nei testi che però si abbina male alla frenesia giocosa di una musica che tra Renzo Arbore e divertissement ancora più folkeggianti, si vedrebbe meglio accoppiata ad una qualche band demenziale. Come dire che Elio lo farebbe con più stile, anche se musicalmente non ci azzeccano niente con il loro prog fuori dai canoni. “Se il Petrolio Fosse Olio” è un esempio abbastanza alto, negli standard del disco, ma delude, come tanti altri pezzi (in particolare “La Poltrona”, “La Mia Rivoluzione” e “Il Mutuo”), nel tentativo di darsi un senso, inseguendo il cambiamento inaspettato e la virulenza più atipica, che però mai si concretizzano in qualcosa di veramente innovativo.

Lo sforzo è notevole, l’elaborazione c’è, manca una certa adattabilità al contesto, così come la complessità e la solennità che questa sorta di agrodolce richiederebbe. Come ogni progetto di questo calibro, però, ci sentiamo in dovere di attendere ulteriori sviluppi per capire se l’evoluzione può portare verso lidi più rosei e novità più aggraziate e geniali. Perché la carne al fuoco, ad essere sinceri, c’è.

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Recensione di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: Jagjaguwar
GENERE: Folk

TRACKLIST:
1. Flume
2. Lump Sum
3. Skinny Love
4. The Wolves (Act I and II)
5. Blindsided
6. Creature Fear
7. Team
8. For Emma
9. re: Stacks

VOTO: 4/5

 

Qualche anno fa ho visto unʼintervista di una band, di cui non ricordo il nome, dove un componente affermava, con un sorriso beffardo ma rassegnato, che se una persona suona e scrive canzoni lo fa perchè “sta male”.
Eʼ unʼaffermazione che può forse spaventare, ma non cʼè nulla di più vero.
La chicca del discorso sta nel fatto che affrontare il malessere, il dolore (verso la società, lʼamore, te stesso, quello che vuoi) è la chiave per ucciderlo. E non è altrettanto vero che le canzoni malinconiche sono quelle che poi alla fine ti piacciono di più? Quelle che porti sempre con te, perchè non lo sai neanche tu, ma sono quelle che ti muovono i sentimenti, e i sentimenti sono quelli che ti fanno sentire vivo.
Bon Iver, ovvero Justin Vernon, nel 2007 si ritira in solitudine, causa sofferenza dʼamore, scioglimento della band che aveva, conseguente smarrimento di se stesso, in una baita dispersa nei boschi. Dʼ inverno. Con la neve.
Le giornate corte, le notti lunghe, silenziose, ma forse più rumorose di qualsiasi megalopoli.
Allora quando sei da solo con te stesso e ti manca lʼamore, quello che ricevi dagli altri, fai ricorso a chi non ti tradirà mai: gli animali, la natura, la luna e la chitarra che, stai sicuro, aspetta sempre e solo te.
E il rumore del silenzio che sentivi, pian piano svanisce e ti accorgi della straordinaria e perfetta fragilità melodiosa del resto che ti circonda: la neve, il vento, le montagne, la legna, il bosco.
Nasce così “For Emma, Forever Ago”, in quattro mesi di luna che si riflette sulla neve, dove guardandola pian piano, ci si accorge che illumina quello che hai intorno come non avresti mai pensato.
Vernon adopera voce in falsetto, straordinaria.
Le voci, meravigliose, diventano spesso e volentieri corali, una chitarra acustica, dei suoni in lontananza, riverberati, giusto quel che serve per fare atmosfera.
Qualche batteria leggera perchè di più avrebbe rovinato lʼ intimità dei 9 brani, uno più straordinario dellʼ altro.
Allora qui ci senti lʼamore, la disperazione, la solitudine, lʼangoscia, la speranza, la voglia di reagire in un percorso naturale, che si evolve come la natura reale.
Sentimenti che emergono in tutte le tracce del disco.
Bisogna ricordare che, acquistabile su Itunes, vi è anche una bonus track “Wisconsin”, unʼaltra gemma, un altro cristallo di neve.
Bon Iver è una traduzione sporcata dal francese (Bon Hiver) che significa Buon Inverno, la stagione più dura delle quattro, la più introspettiva, ma forse la più magica.
Allora, visto che adesso che scrivo è dicembre e fuori fa freddo, questo disco è perfetto per dire a tutti Buon Inverno.
Godetevelo, fatevi cullare, che Vernon vi fa la migliore colonna sonora che potete trovare, per portarvi a primavera

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Recensione di ANDREA MARIGO
ETICHETTA: Jagjaguwar, 4ad
GENERE: Folk, alternative

TRACKLIST:
1. Perth
2. Minnesota
3. Holocene
4. Towers
5. Michicant
6. Hinnom, TX
7. Wash
8. Calgary
9. Lisbon, OH
10. Beth/Rest

VOTO: 3.5/5

Justin Vernon aveva sorpreso tutti nel 2008 con il bellʼesordio “For Emma, Forever Ago”,  album composto in solitudine, in una baita, disperso nei boschi e nella neve.
Lʼ attesa per questo secondo album era grande.
Justin Vernon, in arte Bon Iver, non è più quello del primo album, almeno musicalmente
parlando.
Ma, ma, ma, ma attenzione: il cambiamento, come a volte accade, non è sinonimo di passi indietro, ma di crescita, artistica sʼ intende. Nel suo nuovo lavoro il buon Justin cambia lʼapproccio e gli ingredienti ai brani, lascia invariato il suo modo di porre la voce, in quello strano falsetto, tanto particolare quanto piacevole, ma riempie i pezzi colorandoli in maniera differente e più ampia rispetto al
passato.
La chitarra acustica lascia spazio più volentieri alla chitarra elettrica, come in “Perth”, canzone bellissima e “Holocene”, altra perla, e così fa pure in “Towers” e “Michicant”.
Atmosfere che dipingono paesaggi emozionanti nel loro piccolo, nella loro intima  semplicità (la copertina parla chiaro), questi sono i pezzi migliori dellʼ album.
In “Wash” appare un pianoforte, leggero, fantastico e degli archi che danno morbidezza e  fanno da quinta teatrale al brano.
Altra misura che adotta, per cercar di dar vita a quel velo di intima ma benefica solitudine notturna che da sempre caratterizza i suoi brani, è lʼ uso di batterie mai invadenti in molti brani, come in “Minnesota, WI”.
Riaffiora poi qualche chitarra acustica “Calgary” arrivando ad usare atmosfere e tastiere pop anni 80 con percussioni sintetizzate “Hinnom, TX” e “Beth/Rest” esperimento bruttino a mio avviso, soprattutto nella traccia di chiusura dellʼ album.
In “Lisbon, OH” sfiora le intro dei Sigur Ros, a modo suo, ma qui è davvero bravo.
Bon Iver, Bon Iver ci mostra quindi un nuovo lato del cantautore americano, quel poco meno romantico rispetto allʼesordio, ma più vario.
La critica è sulla discontinuità che lʼ album presenta, causa i brani in cui vuole esagerare staccandosi da quello che sa fare meglio: il folk, anche con la chitarra elettrica.
Infine comunque pollice in su per Vernon, che ha dato conferma di essere un bravo artista, sincero, che sa fare buoni dischi.

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Folk, indie

TRACKLIST:
1. An Anarchist in Parliament
2. On The Bank
3. Nightdrifting
4. Ribbon Instead
5. Through a Spyglass
6. To Love Somebody
7. Whistle on the Washing Line
8. Crockery in the Cupboard
9. Off the Banks
10. Something More to Say
11. Lucio Goes to Sydney
12. Anorak

Il cantautorato italiano moderno, quello che le sue radici folk le prende più dagli Stati Uniti di Bob Dylan che dal nostro passato deandreiano o gucciniano, è rappresentato pienamente da questo Anorak, opera prima di Angus Mc Og, artista modenese che nel duemilaundici è riuscito a ricavarsi una nicchia piuttosto consistente di seguaci, grazie a questi dodici splendidi brani.
La raffinatezza del suo songwriting si sposa molto bene con le atmosfere molto soft, delicate nell’intensità e in quel tocco nostalgico che ricorda il già citato Dylan, ma anche Neil Young e i momenti meno rock di certe perle degli Wilco. Non mancano neppure tocchi à-la Buckley, mentre anche Nick Drake, Elliott Smith e, nel panorama recente, Bright Eyes serpeggiano all’orizzonte nella sfera siderale delle influenze. I pezzi sono tutti molto maturi, i testi smaccatamente rivolti verso occidente. Predominano le atmosfere più scure, l’idea del viaggio, dello sguardo rivolto ad una scena naturalistica da contemplare ed ammirare, della poesia nostalgica quasi leopardiana. Non c’è niente di pretenzioso, tant’è che si può definire cantautorato minimale, ma in questa semioscurità fatta di chiaroscuri, di alternanza di luci ed ombre, ci si innamora di canzoni come “To Love Somebody”, “Nightdrifting” e la title-track, di momenti come “Lucio Goes to Sydney” e “Off the Banks”, gli episodi più significativi perché contengono tutta la vena folk che dietro il lamento malinconico più tipicamente dylaniano nasconde una voglia di raccontarsi che malcela l’autobiografismo, mentre in penombra avvertiamo la possibilità che questo artista superi i confini emiliani per diventare un vero e proprio punto di riferimento in questa scena che sempre più pullula di grandi artisti.

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ETICHETTA: La Tempesta Dischi
GENERE: Acustica, folk chitarristico
TRACKLIST: Nessuna (unica traccia)

Avete mai ascoltato John Fahey, Jack Rose, Robbie Basho o Sandy Bull? Tra folk, blues e cantautorale con una particolare attenzione al solo chitarristico, sono tutti nomi storici nel genere, ma lontani dal nostro paese (non solo geograficamente). Difficile trovare un Basho italiano e difficile anche prevedere che un accostamento così evidente potesse giungere da Gionata Mirai, già in Teatro degli Orrori e Super Elastic Bubble Plastic, bands sulla cresta dell’onda che sicuramente hanno un curriculum tale da portare ulteriore attenzione anche verso questo Allusioni e il tour che ne segue.
In poco meno di mezzora, un disco con un’unica traccia che non lascia percepire altro che una chitarra, che rincorre continui arpeggi e assoli che oltre a denotare una grandissima tecnica nel fingerpicking del buon Mirai, sicuramente più illuminato qui che nelle altre sue formazioni, sottolineano un songwriting molto maturo che riesce anche a veicolare “qualcosa”. Il disco scorre veloce, certo, ma riesce comunque a lasciare un segno, grazie a quelle sensazioni che si avvertono da ogni piccolo cambio, in volume, in tonalità, nel passeggiare veloce ma molto sentito di una dodici corde suonata veramente con il cuore. L’animo blues che emerge è sicuramente una novità se consideriamo il personaggio e il suo background e stupisce la maniera con cui un grande senso di malinconia si scioglie amaramente insieme a momenti molto più allegri che si (con)fondono senza quasi linea di demarcazione, tanto splendide sono la scrittura e l’esecuzione di questi “pezzi”.

Un disco a suo modo inutile, ma che lascia un profondo solco nella memoria di questo vuoto duemilaundici. Che se ci sono dischi così, tanto scadente non è.

“ALLUSIONI” TOUR by Virus Concerti
18.11.11 Rockerill, Charleroi (BELGIO)
19.11.11 Water Moulin, Tournai (BELGIO)
22.11.11 DNA, Bruxelles (BELGIO)
23.11.11 Bateau Ivre, Mons (BELGIO)
26.11.11 Conchetta, Milano
02.12.11 Cooperativa Portalupi, Vigevano (PV)
03.12.11 La Tempesta al CSO Rivolta, Marghera (VE)
04.12.11 Round Midnight, Trieste
05.12.11 Radio Capodistria, Trieste
06.12.11 Teatro della Concordia, Venaria Reale (TO)
07.12.11 Blackat, Piacenza
08.12.11 Keydrum, Sarno (SA)
09.12.11 Istanbul Cafe, Squinzano (LE)
10.12.11 I Sotterranei, Copertino (LE)
15.12.11 Supernova, Bologna
16.12.11 Circolo delle Arti, Mariano Comense (CO)
18.12.11 Magnolia, Segrate (MI)
22.12.11 Al Vapore, Marghera (VE)
04.01.12 Apartamento Hoffman, Conegliano Veneto (TV)
05.01.12 Morgana Music Club, Benevento
06.01.12 Festinalente, Aversa (CE)
07.01.12 Chromazone, Atripalda (AV)
08.01.12 Mermaid’s Tavern, Pontecagnano Faiano (SA)
14.01.12 Arcipelago, Cremona
21.01.12 Blah Blah, Torino
11.02.12 Cinema Vekkio, Corneliano d’Alba (CN)

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