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Archive for the ‘TIPO: recensione disco’ Category

Tracklist:
Moresca di Sèlavy
It’s now or never
Gloomy Sunday
Amsterdam
Feed the birds
Jolene
Bada bambino, bada vampiro
Lili Marleen
Dona
All I have to do
Litosfera (il cielo in una stanza)
Circle game
Maremma amara
Musica proibita (qui sotto il vidi ieri a passeggiar)

cover.jpg

Durata: 68’19”
Genere: Teatro canzone d’avanguardia
Voto: /

Articolo scritto da: Claudio Milano

“Scratch My Back”, sentenzia Peter Gabriel, mentre Dylan canta Sinatra, Robert Plant, in occasione della cerimonia di consegna dei Kennedy Center Honors, piange a telecamere accese, durante l’esecuzione di “Stairway to Heaven” delle Heart (beh, del resto, cosa aspettarsi da un gruppo di siffatto nome, se non l’induzione al palpito?). I King Crimson abbandonano le improvvisazioni dal vivo su “Live at Orpheum”, per mostrarsi copia carbone di sé stessi e non solo, scindono la formazione in un Giano Bifronte (l’altra faccia, identica, è quella del Crimson ProjeKCt) che permetta a Pat Mastelotto e Tony Levin di far soldi con lo stesso repertorio, in due formazioni “diverse”,  in due tour contemporanei. Geniali. Ma non solo, Trey Gunn (del ProjeKCt), non pago di questo, fonda il Security Project (qui almeno la “k” se l’è risparmiata), chiamando a corte un clone di Gabriel, tale da aver cambiato nome di battesimo, per dar “lode” al repertorio dell’ex Genesis. Solo per parlare di qualche nome ben noto, perché la carovana del Tale e Quale Show, è talmente viva e radicata nella nostra cultura, oggi, da lasciare un solo pensiero: la cultura occidentale è morta. Se serve questo per farci sentire vivi, che davvero tutto finisca  in fretta, assai in fretta, perché è uno spettacolo nauseabondo.

Coucou Sélavy, celebra questa morte e lo fa a modo suo, con naturale e irriverente grazia. Il geniale ricercatore vocale, drammaturgo, regista, attore, poeta romano, dopo aver dato alle stampe nel 2011 “Rien Ne Va Plus: Differita Giocar”, ordito assieme a Ladamerouge, pubblica nel 2014, “Cara o Che?”, considerato a tutti gli effetti, dall’autore stesso, sua prima opera effettiva e compiuta.
Il precedente, che mi piace ricordare, era album tra carillon dolenti, field recordings, marce sbilenche, archi sintetici da operetta da camera, grondanti romanticismo decadente, elettronica ora inacidita, ora da suono puro, pianoforti neoclassici quanto minimali e voci affastellate, in molti fantasmi di sé, a definire un’estetica tra Grand Guignol, gioco e psicodramma. Qualche estratto da quel racconto già vivo e carico di suggestione visiva e capacità d’evocazione. La dolcezza di “No, rien à dire”: https://www.youtube.com/watch?v=B3vxwFKIcsY , pur accompagnata da suoni di voce gutturali e troncata con una violenza da cesoia, tale da far davvero male; l’elegia farsesca e in qualche modo autobiografica, di un Sisifo che “aveva cominciato a vomitare versi”: https://www.youtube.com/watch?v=u3UiRe6Lkns , dove la bellezza grande della melodia, che sa elevare davvero lo spirito, laddove poco altro può, si sposa a suoni vocali onomatopeici. Son rare davvero, le composizioni che riescono a sposare forma canzone a classicismo con simile potenza; lo struggimento senza fine della melodia balcanica di “Lament”, che  trova quiete nel mezzo per poi sbattere la porta in faccia a un mondo rinnegato: https://www.youtube.com/watch?v=qJDq-v9nwGE . L’apice, ma questa è solo un opinione personale, spetta forse a If I, the Branches and the Night https://www.youtube.com/watch?v=_XOne4ts6ZE , ballata di una bellezza luminosissima, appoggiata ad un palpitare elettronico dal sapore nordico e aperture sinfoniche da brivido. Una brezza davvero, che diventa violenza inflitta quando il canto, diviene in italiano e rivela la necessità del decadere del tutto. Un gioiello.

L’assiduità del rapporto col mondo teatrale, conduce l’artista, alla necessità di trasfigurare ulteriormente la realtà attorno, approfondendo in maniera esponenziale lo studio del suono vocale in ogni possibile esternazione, fino a farne, a mio avviso, tra i massimi interpreti di teatro voce al mondo. Lontano da manicheismi, ma con un’urgenza espressiva che travolge con audacia non “raccontabile”, ogni materia affrontata, Sèlavy dà vita all’idea di un disco di canzoni talmente rimodellate da divenire materia propria e non riconducibile alla fonte d’origine. Una sorta di rievocazione di morti che furono, attraverso il canto di fantasmi che han troppe memorie, per non confondere contorni e generare nuova sostanza. A un’Europa che si celebra imitando sé stessa, l’artista romano, sostituisce la contemporaneità a partire da macerie e il risultato, oltre che geniale, è un capolavoro. Le voci, s’imbevono di tonnellate di riverberi, caratteristica che diventerà d’ora in poi cifra stilistica. C’è gioco e dramma, come nell’incipit di Moresca di Sèlavy, che da campionamenti, esplode in ritmiche incalzanti, voci da basso e contralto, che più che esser ricercate, emergono da chissà quali vite precedenti, come in una Terapia “R”eincarnazionista. E’ come se fosse la musica a cercare Sélavy e non viceversa. Esilarante It’s Now or Never, con testo che diviene in italiano, a raccontare storie d’amore e di sangue. Suoni aspirati, profondamente gutturali, raschiati sino all’impossibile, caratterizzazioni che raccolgono l’immaginario dei cartoon s’alternano senza sosta a recitativi, che provengono da un luogo imprecisato nel tempo e nello spazio. “Gloomy Sunday”, fa davvero spavento, assai più di qualsiasi esecuzione della Galàs. Non me ne voglia (o me ne voglia, a suo piacimento) Sèlavy, ma “Amsterdam”, è quanto di più emozionante emerga tra questi solchi, al punto da farne la versione più bella che mi sia stata data d’ascoltare. Qui, l’intensità è debordante, sostenuta da growling devastanti/devastati, alternati a frequenze da mezzosoprano davvero impalpabili e dà potenza al testo, rendendo il porto quello che davvero era e rimane nell’immaginario collettivo, transito, illegalità, gloria che apparirà con facce ben più pulite nelle dimore borghesi. Dall’elegia di “Feed the Birds” e la fisicità di “Jolene”, si arriva al delizioso, cabaret di Bada bambino, bada vampiro con la voce che indossa giocosi panni da crooner. Carezzevolmente laida “Lili Marleen”, che nello spirito davvero richiama bordelli e sadismi dittatoriali. Dona, recupera la tradizione del madrigale italiano e lo fa con un cantar lirico multiottava d’una eleganza che non ha possibili referenze nel mondo pop-rock tutto, perché proprio alle più nobili voci operistiche della prima metà del ‘900 fa riferimento e non a chi già le ha imitate a modo suo. Qui c’è un farsele risuonare dentro e addosso. Ripeto, la sensazione più frequente, nell’ascolto e quello che Sèlavy sia più spesso “tramite” di quanto esterni, più che artefice, secondo un’idealità tardo-romantica, che onestamente credevo fosse estinta e che qui invece, canta con tutti i fantasmi delle storie personali e non, che abbiamo, più o meno coscientemente, attraversato. All I have to do, crea un bridge vocale, tribale, sospeso, da incubo, laddove nella canzone originale, c’era solo un accordo maggiore e va a dissolvere la sezione strumentale in flanger reiterati pari a drones. Un’intuizione di pregio. “Il Cielo in una Stanza”, diviene “Litosfera” e trasforma, lo spazio che più comune ci è, in un “non luogo” dove orchi e fate disseminano un baluginio terrifico e incantevole, come nell’ottica del più sublime dei romanticismi senza retorica. Contemporaneità avanguardista tra le più grandi che mi sia stato dato d’ascoltare. Circle Game è un riatterrare, un riorganizzarsi, tra architetture delle diverse parti del sé che vanno ad armonizzarsi, come in un mosaico composto e fremente. Bassi spaventosi arcaizzano “Maremma amara”, quasi a portarla in chissà quale luogo assai ad Est d’Europa. Il tuonare della voce da basso profondo, in “Musica Proibita” (qui sotto il vidi a passeggiar), s’accompagna a campionamenti di tuoni dal cielo, mentre il pianoforte, muove un  ondeggiare di speranze anelate, ma che già si percepiscono perdute. Il finale sorprende per l’irrompere di una sezione elettronica a richiamare un ensemble di musica antica. Non è solo musica questa, è teatro, visione, scorrere a profusione di frame cinematografici, tale da togliere il fiato.
Una delirante ghost track di quasi otto minuti, decompone, ricompone tutta la materia affrontata, come nei giochi di nastri di Pierre Schaeffer, in un vortice che sembra non solo chiudere un disco, ma una vita. Come guardare un tir che ti viene addosso senza avere la possibilità di sterzare. No, non si deve parlare di questa musica, solo viverla. Al disco, fanno seguito numerosi video on line che vanno ulteriormente ad indagare questo  percorso. Tra questi link, brani del disco e non:

Amsterdam: https://www.youtube.com/watch?v=sWyT0GF69og

Vecchia Zimarra: https://www.youtube.com/watch?v=_x8sjMpY3Ws

Litosfera: https://www.youtube.com/watch?v=fxvXWqq7UOo

Black is the color: https://www.youtube.com/watch?v=u0u2BWa1STM

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facciata Nequaquam

TRACKLIST

Incipit
Precipices
L’Entropico Squallore
To the Center (of the Earth, of the Hearth)
Nequaquam
Orfeo, Banfi Lino-lillà
All this World
Nada Rosso Sangre alla Sera
What hides (or Skyes)

Durata: 25’37”

Tutte le voci e strumenti a cura di Coucou Sélavy

Genere: Teatro/Avantgarde
Redattore: Claudio Milano

Il fratellino piccolo (è in India!) qui, di fronte al tramonto sul prato di garofani.”
(A. Rimbaud)

Coucou Sèlavy è attore, ricercatore vocale, compositore, poeta, drammaturgo (in chiave unicamente teatrale lo pseudonimo fa riferimento anche all’attrice e cantante Silvia Pegah Scaglione).
Invocazione, cercata come in un rito, fatto di fantasmi, morti e resurrezioni, decorticazioni. Farsi tutt’uno col tutto, ridurre il momento a una vita e la vita a un momento. Poesia che diventa immagine, scenario e declamazione teatrale che reclama, anche, il cinema, quello delle prime avanguardie del ‘900. Ma non è in oggetto il parlar di un disco? No. Null’affatto. E’ in oggetto il parlar di vita, quella che abbandona il senso del dovere, per diventare “essere”, sempre, indistintamente. Non è possibile parlare di un “solo” lavoro dell’artista (e in questo caso caso il termine ha un significato “antico”, mitteleuropeo, di chi favorisce nuovi linguaggi a bocche stanche di proferire stessi verbi), perché in contemporanea c’è un intero mondo che si muove appreso ad esso e che tra le tracce di un disco non compare, non dichiaratamente. E’ presente solo per chi ne segue le tracce con costanza. Un canale Youtube in continuo aggiornamento: https://www.youtube.com/channel/UCNniEM3lfIDZnH8_pEgAdsA , una pagina Facebook che diviene diario su cui appuntare intuizioni, incontri, maledizioni, giochi: https://www.facebook.com/silvia.francesco.coucou?fref=ts .

Al centro della poetica è la voce, intesa come strumento d’indagine e manifestazione. In questa Voce, ci sono tutte le voci che l’Europa ha generato dal Barocco almeno, ad oggi. Numi tutelari che a citarli tutti si diventa ridicoli, ma tant’è che son morti nella memoria collettiva, che almeno riportare il fatto che “son stati”, diviene cosa che se a muover qualche interesse, male non farebbe. Chaliapine, ad esempio, “ a cui nessun cantante d’opera piaceva; che preferiva applaudire gli attori russi, che li invidiava quando, con la loro voce, imitavano ed evocavano i colori e gli accenti del contadino, del principe, del soldato, del mendicante, del frate sfratato o del mistico ortodosso, mentre lui, in quanto cantante, era condannato a restare prigioniero di quelle vocali tutte oscurate, omogeneizzate, indifferenziate.” (cit. Matteo Marazzi); Artaud; il primo Carmelo Bene; l’implosione progressiva di Leo De Berardinis. Ma anche Johnny Cash, Leo Ferré, Richard Benson, i caratteristi del cinema, dell’avanspettacolo che fu e i doppiatori, il polimorfismo vocale di Sopor Aeternus e Mario Panciera (Devil Doll), qui imbevuto in ambienti e riverberi ora enormi, ora secchissimi, ma davvero, la lista sarebbe infinita, d’altari (mai tabernacoli, qui non c’è nulla che dia la sensazione di “permanenza”, neanche negli amori, neanche nel ricordo della propria storia personale), come di gente da buttare giù da una torre. In questa Voce, l’ossessione per la ricerca di rotondità nei gravi, si sposa a falsettoni rinforzati d’una eleganza senza pari, medi, mai, spinti, a cercare un lirico “cantar moderno” che celebra l’acuto, ma piuttosto un’antica idea di esprimer suono che cercava emozione e non era figlia della ricerca di un’accordatura di quattro muscoli (queste benedette/maledette) corde vocali, che si fan corpo integro e teso (ma nella lirica la tensione non è abominio? Forse, ma qui c’è teatro, quello che vive anche su un marciapiede), a caccia di stelle da accendere e spengere una a una e non “esibizione circense”. Eppure la tecnica c’è e stupore genera, continuo, persino fino al paradosso assoluto, ma è quello stupore che nasce dalla poesia, dalla percezione di una unicità. Sporcature di una cattiveria senza pari (si è oltre screaming e growling, pur presenti), perché il livello, acido, d’emissione, è tale e tanto, da puzzare d’assenzio, sigari, narghilé, oppio, comunicare un senso di profonda malattia, dell’anima. Pustole purulente a margini di corde invece (si spera) intatte, che non risparmiano urlo e carezza, quando si librano a cercare “il fratellino d’India” del citato (e amato) Rimbaud, come a creare vortici di fantasmi, che rendono la vita, un set dove tutto può accadere e mai nulla cambia, né può cambiare. Un senso di decadentismo che non si astiene in alcun modo all’esser lirismo puro, elegiaco. Apparizioni e assenze, dissolvenze, persistenti bui in sala e la percezione di una volatilità del male, improvvisa, come dopo una boccata di cloroformio, o un’iniezione di morfina a rendere il dolore un puntino sempre più distante, fino al bianco di uno schermo nudo e crudo, che diviene consolazione, ultima e definitiva. Ma c’è anche tanta ironia, del tutto estranea a spauracchi “dark”, gotici, espressionisti, esistenzialisti. Un’ironia che a volte va a pescare in una cultura così trash da rendere la narrazione irresistibile. Quello che qui si coglie è LA vita, non quello che vorrebbe, o “dovrebbe” essere. Si, è vero, non c’è la canzone che gira per radio e neanche quella che è andata a generarla su spoglie chiamate più nobili, pur non essendoci neanche dissonanza, destrutturazione, urgenza di far parte del field: “Ciao! Io sono l’avanguardia-spauracchio è ho la faccia che tutti i Festival del Mondo e The Wire mi chiedono d’avere”. Le strutture che definiscono i brani sono mutevoli, non cercano una “definizione”, non la vogliono e non se ne trova da darne, se non Teatro/Musica/Poesia, che siamoci onesti, sarà mica una definizione!

Dura poco più di 25 minuti, ma la tale densità del percorso è tale da parlare di CD e non EP. Nequaquam Voodoo Wake”. Il viatico: da i due movimenti, uno dei quali, Precipices, primo singolo estratto, che introducono all’opera, ambedue sospesi tra citazioni neoclassiche ed elettronica deviata e più semplicemente “sospesi” come etere, carichi di bagliori e voci che come tante parti del sé raccontano di ciò che si è stati e forse si sarà, si giunge a L’Entropico Squallore, primo episodio dove la cupezza diviene necessaria quanto respirare, quando d’aria inizia a scarseggiarne. La voce, prima profonda e progressivamente articolata su più piani e registri emotivi e d’appartenenza di range, si presenta talmente a fior di lacrime da favorire l’immagine di un’anima strappata a brandelli e donata a chi ascolta. To the Center (of the Earth, of the Heart) è sarabanda di ritmiche cerimoniali poggiate su un organo chiesastico, fiati elettrici, chitarre sintetiche, voci che più che avvicinarsi al Vocal Frei, vanno a raschiare il barile di una cassa di whisky abbandonata da Tom Waits, per ergersi solenni ad altezzosità da controtenore con risonanze chiare da mezzosoprano ed incepparsi in un ossessivo, reiterato, distorto declamare in ritmo dispari. Su una struttura minimale, fatta di chitarra, basso e pianoforte, in Nequaquam le voci, disegnano, su poche sillabe, un canovaccio di suoni che esplorano l’intero mondo possibile di emissioni, a partire da cavernosità abissali, acidità stregonesche, sovracuti che scomodano i grandi soprani dei primi del ‘900, timbriche che sposano il Medio Oriente. Un graffiare organi, muscoli e nervi, riportando Roma (qui nasce Coucou Sèlavy) alle fiamme e privandola dell’acqua che l’han resa “caput mundi”. L’orgia vocale si fa ancora più estrema, stregonesca, in Orfeo, Banfi, Lino-lillà, agitata da monsoni di scariche elettriche e un ossessivo incidere dark wave, che si stempera in un inciso fantastico, dove le ritmiche sembrano un gioco di battito di mani a due persone; la melodia diviene canto folk senza tempo, sublime il bridge, il finale deraglia in un cameo Kosmische Musik. Uno di quei pezzi che scaraventano avanti ad oggi e molto, molto più in là, le poetiche di Bauhaus e Virgin Prunes, senza avere necessità di produzioni importanti di chi ha mezzi ma meno sostanza (Zola Jesus, Pharmakon). Ritorna un po’ di pace nello splendido folk di All This World, apocalittico, direbbe qualcuno, se certo David Tibet e i Black Sun Productions, fossero calati direttamente in una rupe, tra effluvi magmatici e baluginio di farfalle tropicali. Ancora furore in Nada Rosso Sangre alla Sera e conclusione con ritmiche EBM, che si raffreddano in un drone mesmerico, nella conclusiva What hides (or Skyes). Nella dimora dei fantasmi, non poteva mancare una ghost track, che ironicamente è 24.000 Baci, certo, proprio quella. Un’ironico rimando a quel “Cara o Che?”, disco dello scorso anno, dove rilettura dei brani è pretesto per re-invenzione assoluta (leggere, scomposizione, ri-composizione e definizione ultima), capacità di giocare con icone, mode e modi, piegando l’intero mondo alla propria estetica, senza “se e ma”, con stile, irriverenza, passionalità abrasiva.

Non è questo, disco di cui si può “parlare”. Non è questo, artista, o meglio, genio, perché davvero “a tutto alieno, dentro il suo tempo e in un posto di cui un giorno (forse), sapremo raccontare”, di cui si deve “parlare”. Soprattutto, non è uno scribaccino di bassa leva, in assenza di poesia e talentuosità artistiche come il sottoscritto, il più indicato a farlo e questo scritto non vuole essere in alcun modo “critica”, solo una “personale introduzione”. Fosse nata da chi, tra i grandi indagatori della musica del proprio tempo, come nell’800, ma anche banalmente, tra gli ultimi critici degni di questo nome del ‘900 (un nome “a caso”, Luigi Pestalozza), che davvero conoscevano tutto quanto prodotto (ammesso oggi sia possibile farlo…) e la materia musicale nella sostanza sua più profonda, forse queste parole avrebbero un senso. Proviamo dunque a darglielo assieme, uno che sia. Non ci sarà oltremodo alcun voto. Questa musica, questo percorso, che non hanno pretese di vendita (30 copie stampate del CD), che vorrebbero rivolgersi a tutti quanti disposti ad accoglierli, ma DEVONO starsene, loro malgrado in un angolo, richiedono una cosa sola: essere VISTI, ASCOLTATI, LETTI.

Signori, a voi, Coucou Sélavy:
“Quando rientro in case che dicono non essere le mie
Altro che aspettare
Pietrificato, ibernato per stagioni a venire, immobili gli epicentri, eppure ai margini,
tutt’attorno e dentro è un agitarsi come di insetti attorno alla luce
E quegli insetti a soffiare ancora stelle, alberi, vie
Che ci aspettano nelle case che abitammo”

(da “Case”)

Link:
Orfeo, Banfi Lino-lillà:

Più baccano faccia il temporale (da Céline su Boccherini):

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ETICHETTA: Ara Music
GENERE: Pop, cantautore

Raffaele-tedesco-che-mondo-sei

Raffaele Tedesco viene da Moliterno (Potenza), Che Mondo Sei è il suo quarto sforzo discografico e per individuare meglio il fulcro dell’opera occorre dare un’altra coordinata biografica: Raffaele è stato collaboratore di Mogol, e ha mutuato da questa esperienza moltissimi tratti in comune con la musica d’autore italiana di stampo classico, a cavallo tra anni ’60 e ’90. Bruno Lauzi, Gino Paoli, Bobby Solo, qualcosa di Buscaglione e di Battisti, a questi ammiccano i testi del lucano, mentre gli arrangiamenti, fortunatamente affidati ad una squadra di musicisti molto validi, sono più moderni, sporchi di rock e di jazz, blues e black music, ma sono solo venature superficiali che rigano una piattaforma fatta di riferimenti agli anni settanta e ottanta, con il piano (di Franco Frezza) al posto dei synth. I trascorsi musicali di Raffaele Tedesco, in verità, lo vedono congiungere il suo estro creativo, di cantante e chitarrista, ma anche compositore, con nomi del calibro di Arisa e Umberto Tozzi, anche questi in piena coerenza con il percorso intrapreso in Che Mondo Sei.

Tecnicamente, a livello vocale, non c’è veramente nulla da dire. Estroso, versatile, abile nel coniugare messaggio veicolato con il testo ed emozioni comunicate con la voce, Raffaele riesce a rendere un disco se vogliamo pesante, più che altro per la reiterazione di stilemi appartenenti a determinati momenti della storia della musica italiana, attuale con la sua voce, particolare, di classe. E’ la profondità con cui analizza le tematiche scelte per le liriche che riesce ad innalzare anche il contenuto testuale e letterario, rendendo giustizia al maestro Rapetti.
Di fatto, questo disco dimostra come senza innovare niente si possa pubblicare un lavoro onesto e di grande dignità artistica, una volta preso coscienza di quanto questo possa frazionare il pubblico e destinare l’opera a chi ha un’età media superiore a quella di chi compone. Ma magari è pure un bene.

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ETICHETTA: MyPlace Records

Human Machine dei nostrani NODe viene spiegato dal quintetto come un prodotto “electro-punk” e “electro-pop”, per citare le definizioni presenti nel loro profilo Facebook. Di fatto, sono etichette calzanti, che descrivono, se non la polpa, lo smalto del disco. Si tratta di un viaggio elettronico che trova però nelle sfumature più dark del rock e della new wave anni ’80 la sua strada verso una smaliziata riproposizione di materiale invero non così originale. Novità non sono senz’altro l’uso del vocoder e dei sequencer, che, prendendo a piene mani dai Kraftwerk e dai Daft Punk, fanno rintracciare in una parte dei pezzi l’evidenza di una tendenza esterofila un po’ forzata. Risulta invece estremamente piacevole l’atmosfera da club di alcuni brani – che richiamano anche qualche elemento techno tedesco, come Paul Kalkbrenner, Anthony Rother, ma non solo – dove il ballo e l’accompagnamento fisico sono suggeriti da cantati catchy, cassa dritta e suoni gonfiati al punto giusto grazie da un mastering equilibrato, caldo e tagliente.
La composizione presenta caratteristiche latenti che si scoprono solo con l’ascolto ripetuto, come la progressione dei brani con echi e rimandi anni ’90, sporcata di synth-pop alla Depeche Mode, sebbene sia il più banale dei paragoni che possiamo fare. Il pantheon dei NODe ci mostra anche l’influenza di Autechre, Front 242, l’album Looking for St. Tropez dei Telex e gli esordi dei Nine Inch Nails, rendendo l’album radiofonico e leggero. A suo modo, questa rilettura italiana non stona, facendo proprie tematiche noir e un’estetica industrial che un sound moderno nei synth e nelle ritmiche rende attuali.
I riferimenti psicanalitici, religiosi e filosofici, quali una pretesa di indagine esistenziale attraverso le tracce di questo disco, non risultano così evidenti e lampanti, e scegliamo così di tralasciare questa particolarità di cui comunque la band restituisce già una chiara descrizione in tutti i vari link online.

Come molti dischi “di derivazione” ha perlomeno la qualità di collocarsi in maniera chiara dentro un filone, quello della nuova musica elettronica italiana, che sta scalzando il rock dal podio dei generi più ascoltati, o forse l’ha già fatto. Dai NODe ci possiamo aspettare, in ogni caso, una scalata e un miglioramento che già si possono intravedere considerando come songwriting e produzione siano in linea con le più recenti e criticamente apprezzate uscite nel genere.

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ETICHETTA: VOLUME! Records
GENERE: Canzone d’autore

Denis Guerini è un cantautore, o meglio uno scrittore di canzoni, già conosciuto per lavori a cavallo tra musica e teatro, finiti anche nella sua discografia recente. Con Vaghe Supposizioni, l’indagine di sé stesso che diventa anche indagine dell’uomo in genere, tipica della sua produzione passata, viene estesa lungo nove tracce, toccando venature ermetiche e freudiane. Le tensioni etiche e morali, la difficoltà di dover prendere una scelta e gestirne poi le conseguenze, il bagaglio di esperienze che si accumula ma non è mai sufficiente a vivere senza commettere errori, sono tematiche che traspaiono in maniera piuttosto evidente e che con uno sguardo da osservatore privilegiato, quasi distaccato e per questo imparziale (che ricorda un po’ il narratore onnisciente in letteratura), vengono raccontate tramite canoni da noir metropolitano. L’analisi delle realtà urbane è approfondita un po’ come un James Ellroy o, in Italia, un Loriano Macchiavelli (che ha pure trasformato molti racconti in radiodrammi per la RAI), della musica.
Il contento musicale è incredibilmente variegato, ma rimane nell’ambito delle tinte scure, raramente schiarite da qualche uscita più lieta, magari swing o jazz, mentre in generale prevalgono la tradizione cantautorale italiana, qualche salto fugace nel rock e i primi germi di una contaminazione elettronica che potrebbe farsi più presente nei lavori futuri, visti gli ottimi risultati. In linea di massima, i vari generi toccati vanno a sottrarre coesione al disco, ma la coerenza tra musica e apparato testuale è fuori discussione, a livello di tonalità, colorazione, sfumature sonore e atmosferiche.

Denis Guerini, con questo album, dimostra ancora una volta come in Italia ci sia una radicata tradizione cantautorale, in grado di associare musica e testo – sempre con maggiore importanza alle parole, sia chiaro – con la consapevolezza della restituzione di un messaggio complesso e artisticamente rilevante. Di nuovo, un bel disco italiano di cui c’era bisogno.

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Recensione a cura di Cristina Commedini

ETICHETTA: Nessuna (autoproduz.)

copertina (1)

TRACKLIST:
1 Agenzia delle entrate
2 Marlene
3 Buoni propositi (per l’anno nuovo)
4 Don Bastiano
5 Radiosi saluti da Fukushima
6 Linda
7 Centerbe
8 7 titoli

Sul finire del 2014 arriva un disco che fa bene alla musica emergente italiana. Gli artefici sono I PICARI, band umbra che il 29 Novembre 2014 pubblica questo interessantissimo album dal titolo “Radiosi saluti da Fukushima”. Un disco che non vuole sconvolgere nessuno o colpire obbligatoriamente con effetti speciali. No, qui non sentirete nulla di straordinario e credeteci per una volta questo non è per niente un male, anzi. Un disco sincero, onesto, come non se ne sentivano da tanto tempo. Testi comprensibili e mai banali, atmosfere folk-rock e storie in cui tutti si possono rispecchiare. Sono questi gli ingredienti che fanno di questo debutto, un disco degno di nota e da consigliare. Attendiamo quindi fiduciosi gli sviluppi di questa nuova band andandoli a vedere dal vivo alla prima occasione (fatelo anche voi dopo aver ascoltato il disco) e fiduciosi di un secondo disco all’altezza delle premesse.

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Renilin
GENERE: Rock, cantautorato

TRACKLIST:
Luna d’inverno
Non cambieremo
Il gatto che abbaia
La musica non gira più
Blu occhi
Non portarmi via
Beyond the clouds
Alzami nell’aria
Caccia alla volpe
Anime bruciate

Alessia d’Andrea è un nome che non a tutti suonerà familiare anche se la sua biografia risulta tutt’altro che povera. A partire da una collaborazione con Ian Anderson dei Jethro Tull, la carriera è stata tutta in discesa: concerti in diretta TV, anche fuori dall’Italia, la vittoria del premio Mia Martini, il tributo a De André in Bulgaria, dischi editi in tutto il mondo. Cosa ci ritroviamo tra le mani scartando dunque Luna d’Inverno? Prima di tutto il protagonismo assoluto della voce, eccezionale, di Alessia, che obbliga i musicisti a volare bassi, per darle il giusto rilievo. Abile tanto nei brani più soffusi (straordinario l’incipit di piano e voce di Anime Bruciate, quasi toccante) quanto in quelli più grintosi e rock (Blu Occhi la più completa ed energica, con questo funk sporco ma classy, ironica ed elettrizzante La Musica Non Gira Più), rivela per tutti e dieci i brani un’invidiabile spirito di adattamento ai più diversi registri, accarezzando il blues, il funk, il rock ballabile, le ballad (Non Portarmi Via). I testi meritano l’attenzione che stanno ottenendo, – l’artista segnala sul profilo Facebook proprio in questi giorni alcune traduzioni in tedesco apparse online – scritti con una padronanza della lingua italiana e un utilizzo delle rime certamente degno di menzione (Il Gatto Che Abbaia). Il contesto semantico è spesso romantico, sentimentale, delicato, tipico di talune situazioni neomelodiche della tradizione campana, ma senza inutili svenevolezze o piagnistei.

Luna d’inverno è, in definitiva, un disco maturo, caloroso, grazie alle liriche dense di significato di questa scrittrice prolifica quanto enfatica nei toni. Brillante prova di forza.

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Recensione di Andrea Marigo

ETICHETTA: Fat Possum Records
GENERE: Folk, songwriter, rock

TRACKLIST:
1. The Heart Is Willing
2. Down in the Fire (Lost Sea)
3. Skull & Bones
4. 123 Dupuy Street
5. Surfer King
6. Hiway / Fevers
7. DRMZ
8. The Twist
9. Rte. 28 / Believers
10. Scenes form a Circus

Voto 4/5

A.A. Bondy (Auguste Arthur Bondy), è il frontman dei Verbena, band grunge americana (che vanta tra l’altro un gran disco prodotto da Dave Grohl, Into The Pink) scioltasi nel 2003.
Dal 2007, il suddetto artista, decide di passare dalle chitarre à la Cobain alle chitarre acustiche ed inizia il suo percorso (scontato) da songwriter, sfornando dischi solisti, che in realtà non sono per niente malaccio, dalle tonalità folk.

Chiaro che fin qui non c’è niente di male, considerando anche il fatto che il “giovane” detiene una delle migliori voci mai sentite (gusto personale per carità per quanto riguarda il panorama di cui si sta parlando), ma si sa: di dischi folk-solisti-acustici ne è pieno il mondo e differenziarsi da quel che c’è non è la cosa più facile da ottenere. Cosi infatti è per i primi due album che Bondy, in versione solista, da alla luce. Poi questo Believers del 2011 segna invece un cambio di marcia più personale e ci regala un disco molto interessante.
Sempre folk rimane ma stavolta, chitarre semi acustiche, slide e leggere batterie sono coinvolte in un amalgama insolito per il genere.

Un disco che dipinge magistralmente la propria copertina di quando ognuno cerca la propria fuga dall’intorno e si vuol rimaner da soli, senza tante lagne di cornice.

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Recensione scritta per Music Opinion Network

Inquadramento geografico: i Misfatto sono di Piacenza, ma la città a cui si ispirano per Heleonor Rosencrutz è Lisbona. La base di partenza di questa opera è infatti il libro “La Chiesa Senza Tetto: 35 Giorni a Lisbona”, il cui autore è lo stesso Gabriele Finotti, chitarrista, scrittore e fondatore della band. L’opera possiede il medesimo nucleo del libro, il fulcro attorno al quale il contenuto musicale gravita in maniera molto equilibrata: il tema del viaggio. Lo strumento che calamita di più l’attenzione è la chitarra, indubbiamente il perno dell’intero lavoro, che sta sempre girovagando lungo assoli e atmosfere che ondeggiano per temperatura, atmosfera, rosa di colori. Il risultato è brillante, riuscendo ad evitare la ridondanza e il barocchismo nonostante il notevole apporto tecnico. L’anima è pop, vuole parlare a più persone possibili, ma mantenendo alto il livello medio, nella struttura dei brani, nella qualità degli arrangiamenti, nel contenuto culturalmente valido, facendo sorgere spontaneamente una certa curiosità nell’andare ad individuare il significato di alcuni termini nominati nei brani o nei titoli: ad esempio, a cosa si riferisce Xoringiket? Una sorta di malinconia vena tutto il disco, dove tutti e nove i pezzi, introdotti da Heleonor con il commiato finale di Goodnight, regalano momenti di sospensione, di vero e proprio trip. Non bisogna comunque perdere di vista la stella polare che guida il disco, l’ispirazione madre, quel rock vero, autentico – classic/hard rock anni ’70, prog italiano del medesimo decennio, la grinta del grunge – lontano dalle accidiose imitazioni d’oggigiorno.

Cosa possiamo dire ancora di Heleonor Rosencrutz? Ascoltatelo per capire, pronti ad affrontare un vero e proprio viaggio non solo nella capitale portoghese, ma anche nella mente di un pugno di ottimi musicisti italiani.

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Artists Record
GENERE: Celtica, elettronica, world music

La stagnazione in termini di novità discografiche ha prodotto negli ultimi anni almeno due macrocategorie di artisti che, prendendo in prestito due termini del linguaggio politico, potremmo chiamare “progressisti” e “conservatori”: i primi tentano di andare avanti, superare le etichette ormai “classiche” – e bisognerebbe aprire un dibattito riguardo l’opportunità di alcune di queste – spesso contaminando, mescolando, fondendo materiale proveniente da diversi orizzonti. I conservatori, lo dice il termine stesso, rimangono attaccati a stilemi e motivi del passato, ripetendosi e contribuendo alla ciclicità del ritorno delle mode. La domanda da fare è dunque: dove si collocano i The Sidh? Intanto, chi sono? Marr, Melato, Subet e Pagliaro sono quattro musicisti già attivi in altre formazioni che si sono uniti con lo scopo dichiarato di dare una patina moderna alla musica celtica di matrice irlandese, un genere di per sé chiuso, complice l’isolazionismo di questa zona d’Europa. Per riadattare e rivedere brani tradizionali appartenenti ad un’altra cultura bisogna innanzitutto conoscerla a fondo e il quartetto lo dimostra, quantomeno sul piano musicale. Gli elementi “nuovi” si identificano qui nell’elettronica, quindi drum machine, sintetizzatori, tastiere, con strutture e accentazioni ritmiche provenienti da alcuni dei generi che più hanno aggredito massivamente l’industria musicale nell’ultimo lustro (dubstep, r’n’b, hip hop americano, drum’n’bass, glitch), senza tralasciare le tracce di folk, di prog, di punk a cui la band aveva abituato gli ascoltatori. Il risultato è un intelligente mosaico di musica vecchia e nuova, dove l’obiettivo di attualizzare ogni singolo brano può fare a volte dimenticare la presenza dell’elemento irish, anche se il contributo di strumenti come la cornamusa è determinante per mantenere il collante ideologico che regge questo lavoro. Immaginatevi i Flogging Molly che incontrano Alva Noto e gli Autechre, Shane MacGowan che canta su una produzione brostep di Nero, l’hip hop di Diplo con le uilleann pipes. L’operazione riesce sicuramente dal punto di vista della fusione dei linguaggi, grazie ad una registrazione e ad un mastering di grande classe. L’impressione che i musicisti abbiano spinto più sui suoni che sull’intensità emotiva o la naturalezza dei brani tende a minare la bellezza di alcuni momenti, ma anche questo aspetto è perfettamente controbilanciato dall’ottima capacità strumentale udibile in tutte le sezioni. E’ grazie a questo che la definizione “prog” non risulta più così fuori luogo.

Se vi piace il folk irlandese/celtico e siete curiosi di sentirlo in una maniera “diversa”, vi consigliamo questo viaggio. Se vi farà storcere il naso, vi si chiede comunque di comprendere quante capacità servano per comporre un disco del genere, frutto di un innegabile labor limae. Piacevole scoperta degna di brillare in un periodo di ombre.

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Recensione a cura di Cristina Commedini

ETICHETTA: La Fame Dischi
GENERE: Cantautore, indie rock

Cover

Claudio Rossetti in arte Il Rondine debutta con questo “Può capitare a chiunque ciò che può capitare a qualcuno”, primo album registrato a Perugia dall’etichetta indipendente La Fame Dischi in seguito alla vittoria (su ben 134 band iscritte) della seconda edizione del concorso annuale che la label umbra organizza ogni anno dal titolo “Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame 2013/2014”.

Non conosciamo gli altri iscritti però ci pare che le canzoni del nostro giovane (classe 1985) cantautore indie-rock romano meritano di essere spinte e divulgate e quindi aiutate a farsi conoscere da più gente possibile. Azzeccata quindi la scelta dell’etichetta. Canzoni che parlano di storie quotidiane, dove tutti possono immedesimarsi e che nascondono sempre un doppio significato. E la magia sta proprio in questo: partire da comuni storielle di tutti i giorni per poi ritrovarsi a riflettere sulla vita e le sue perenni questioni.

Pregiudizio su sergio, La naturale capacità, In tempo, Mi fido più di me, La fine di uno scarafaggio, La settima differenza, Morto, La bolletta del gas, vanno tutte in questa direzione. Ascoltare per credere.

STREAMING DISCO (SPOTIFY) http://goo.gl/GhtRHb
STREAMING DISCO (YOUTUBE) http://goo.gl/4rs5yo

LINK ACQUISTO (COPIA FISICA) http://goo.gl/4x6iuL
LINK ACQUISTO (DIGITALE / MP3) http://goo.gl/snKkur

VIDEO SINGOLO “MI FIDO PIU’ DI ME”
http://youtu.be/DkVrCxKYt-Q

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Gutenberg Music

Il dremong è un orso tibetano poco noto dalle nostre parti. Non essendo questo il luogo ideale per approfondimenti zoologici, vi risparmieremo anche inutili sermoni sul povero animale e le sofferenze che la medicina e la cosmesi cinese gli causano per ricavare la sua bile. Max Manfredi, attivo da tempo, giunge a realizzare questo album grazie al crowdfunding e, libero di conseguenza da qualsiasi richiesta di produttori o label, sfoggia un album senza tempo, lontano da ogni parvenza di immediatezza o di adeguamento al mercato, caleidoscopico e multiculturale. Gli strumenti utilizzati ne disegnano già gli orizzonti geografici e culturali: glockenspiel, violino, flauti, ma anche ingegnosi ammennicoli orientali come il guqin, affiancati logicamente alle sezioni ritmiche e melodiche degli standard a cui siamo abituati. Paragonarlo ad altri artisti non è facile e sforzandosi si produrrebbero solo accostamenti impalpabili ed imprecisioni citazioniste di bassa tacca, ma tracciamo volentieri un identikit avvalendoci di una manciata di etichette: classic rock, world music, progressive. Non è un disco per mercanteggiare con la propria arte, ma per comunicare CON la musica qualcosa. Nessun brano annoia, nessuna facile trivialità, né dozzinalità. L”evoluzione strutturale dei brani racconta di una gestazione molto ponderata, soppesata, narra di una composizione dove i riferimenti culturali – si legga qualsiasi intervista all’artista – zampillano con il giusto equilibrio senza banalità né sfrontatezza. L’Oriente pervade un po’ tutto il disco, in particolare la Cina, e al di là del titolo sono molte le reminiscenze che guardano verso est: le più vicine sono quelle greche, e infatti non mancano tracce di rebetiko, genere di dimensione nazionalpopolare in Grecia. Unica pecca: avremo voluto sentire un po’ di bouzouki. Il basso, per la cronaca un fretless, quando è protagonista arricchisce ed agghinda il brano in maniera sempre percettibile, non accontentandosi di sostenere lo scheletro ritmico della canzone come spesso accade nella musica da chart. Per “Sestiere del Molo” un solo commento: ascoltatela per prima e vi dirà molto sull’argomento di questo articolo.

La qualità del songwriting è notevole, ma particolarmente sopra le righe ed eccitante è la scrittura testuale, così come la sua controparte nell’interpretazione vocale di Manfredi. Musicisti come Bruno Cimenti non possono che impreziosire un lavoro già di per sé significativo dal punto di vista musicale quanto ornamentale nel panorama italiano, ed è lampante quanto non possa essere considerato solo uno dei tanti prodotti dell’ingegno tipicamente derivativo dei nostri cantautori moderni. Album come Dremong ingemmano la discografia nostrana tutta, la nobilitano, le conferiscono una dignità spesse volte assente nei dischi che più piacciono. Gridare al capolavoro diventa sempre più difficile ma talvolta ancora accade che ci si trovi al terzo o al quarto ascolto, costretti a prendere fiato e, sorpresi, irrompere sbalorditi in un gesto di sbigottimento. Questo è il caso.

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Recensione a cura di Carla Imperatore

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Canzone d’autore

Copertina LEBENSWELT

Cantare in italiano, si sa, può essere utile nel nostro paese per una band emergente che così riesce subito a farsi intendere e arrivare al proprio pubblico in maniera diretta, ma risulta anche una lingua difficile. Cadere negli scivoloni della banalità è un pericolo sempre dietro l’angolo e cimentarsi non è mai semplice. In Italia infatti, attualmente, scarseggiano le band che cantano in italiano che ci sanno fare davvero con i testi. Spesso assistiamo a un miscuglio di cose già dette, già sentite e spesso ripetute anche male.

Ci fa quindi piacere potervi segnalare un gruppo che ha da poco pubblicato una seconda opera con testi in italiano di tutto rispetto. E non sono solo i testi a colpire. Loro sono La Madonna di Mezzastrada e vengono da Perugia. Sono nati nel 2008 come duo acustico, dall’incontro del chitarrista e cantante e autore dei testi Fabio Ripanucci (San Benedetto del Tronto) e del chitarrista Luigi Del Bello (Ascoli Piceno) . Nel 2009 il progetto si allarga al bassista Fabrizio De Angelis (Ascoli Piceno) e al batterista Simone Sensoni (Piansano – Viterbo) che verrà in seguito sostituito dal batterista attuale Michele Turco. Nel 2012 anche il chitarrista Lugi Del Bello abbandona il progetto. Il periodo di pausa che ne segue da spazio alla maturazione di nuove idee che prendono forma con l’ingresso di Damun Miri Lavasani (Perugia) al piano e al synt e Luca Papalini (Perugia) al violino. La conseguenza è un radicale cambio di sound che li porta a esordire nel 2012 con il primo album CANTICHE.

Il 13 Marzo 2014 esce invece “LEBENSWELT (il mondo della vita)”, il secondo disco de La Madonna di MezzaStrada. Il disco è stato anticipato dal brano “Tunisia” che è stato inserito nella seconda compilation dell’etichetta indipendente La Fame Dischi, uscita il 14 Febbraio 2014. Compilation legata al concorso “Le canzoni migliori le aiuta La Fame – SECONDA EDIZIONE”, concorso a cui La Madonna ha partecipato classificandosi fra i primi 30 gruppi (per l’esattezza al 24°posto su oltre 130 band partecipanti).

Quello che colpisce di questa band è l’approccio quasi punk ed il suo sound ben impastato che colpisce al primo ascolto. Il disco apre con la bellissima “Il mondo della vita” che è una perfetta sintesi della direzione che a mio avviso deve prendere questa band: giri di chitarra tirati, basso a palla e fiumi di parole ben sostenute dal cantante Fabio Ripanucci. Dicevamo dei testi, qui ormai fondamentali. Le tematiche sono le più disparate e le più disperate se vogliamo. L’insoddisfazione di questi tempi sono descritti quasi alla perfezione in quello che alla fine di tutto riesce ad essere un disco molto convincente. Consigliatissimo!

TRACKLIST
1 Il mondo della vita // 2 Io // 3 Le vite degli altri // 4 Mosche // 5 Nostalgia // 6 Vietato pensare // 7 Piccoli drammi // 8 Tunisia // 9 Regione

CREDITS
Fabio Ripanucci: Chitarra e voce (1,2,3,4,5,6,7,8,9), piano (4), ukulele (2, 3)
Fabrizio De Angelis: Basso (1,2,3,4,5,6,7,8,9)
Damun Miri Lavasani: Piano e synth, cori (1,2,3,4,5,6,7,8,9)
Luca Papalini: Violino (1,2,3,4,5,6,7,8,9)
Elis Tremamunno: Violino (5,7,8)
Franco Pellicani: Batteria (1,2,3,4,5,6,7,8,9)

Registrato da Daniele Rotella e Francesco Federici presso gli studi di “Cura domestica” all’Ostello della Musica Mario Spagnoli di Perugia. Missaggio a cura di Franco Pellicani. Mastering effettuato agli Skylab Studios Recording di Giorgio Speranza. Art Work by AN DEGRIDA

LINK
http://facebook.com/LaMadonnadiMezzaStrada
http://lamadonnadimezzastrada.bandcamp.com/
https://soundcloud.com/lamadonnadimezzastrada

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Novunque
GENERE: Musica d’autore

Poetry, titolo dell’ultimo lavoro del cantautore casertano trapiantato a Roma Valerio Piccolo, trova questo suo nome proprio dal materiale che ha originato il disco che stiamo recensendo: nove poesie che l’artista ha fatto comporre per il progetto in questione da autori letterari e musicisti americani. I nomi non sono certo sconosciuti poiché parliamo della storica cantautrice californiana Suzanne Vega, l’autore del best seller The Fortress of Solitude (in italiano La Fortezza della Solitudine) Jonathan Lethem, il critico musicale del New Yorker Ben Greeman e molti altri. I consensi raccolti dall’artista in ambito musicale ma anche teatrale lo hanno visto legarsi più volte a doppio filo con il mondo newyorkese e collaborare con tantissimi esponenti della scena italiana e non (Paola Turci, Andrea Costa dei Quintorigo, Neri Marcoré e un’infinità di altri) e si può certo dire che tutta questa esperienza in ambito di collaborazioni gli ha permesso di scegliersi in maniera molto accurata anche le figure di cui si è attorniato stavolta. 

Nel disco, che per la cronaca è in lingua italica tradotta direttamente da Valerio, riappare anche il già citato Marcoré nella splendida “Maledizione”, filippica contro un innominato destinatario carica di una tensione in equilibrio tra il comico dei poeti giullareschi del trecento (come l’aretino Cenne de la Chitarra) e l’insulto velato, mai volgare. “Chiacchiere da Bar” ci porta nel mondo della quotidianità, dove la banalità delle giornate porta a dare significato alle dicerie e ai cicalecci più che a ciò che realmente si conosce o dovrebbe importare. Logicamente, bar e osterie, ma anche barbieri e saloni di bellezza, sono il luogo ideale per questa pratica talvolta vicina alla diffamazione. Non è un caso, di conseguenza, se il concetto del locale ritorna anche nella conclusiva “Un Barman all’Inferno”, distesa e melodica conclusione di un disco che si configura più come un mosaico di armonia ed proporzione, mentre discordia, dissonanza e cacofonia rimangono solo nel contenuto dell’universo lirico. La poetessa Sarah Manguso (autrice di una delle poesie ispiratrici del progetto), del resto, aveva scritto sei anni fa (e qui parliamo di prosa) The Two Kinds of Decay. Il mondo della recitazione entra a pié pari nell’entourage artistico di cui si circonda l’artista campano grazie agli attori che mettono in scena il video del singolo, “Ordine”, tra cui citiamo Lucia Ocone, Maya Camerini e Arcangelo Jannace. 

Che dire, “Poetry” non è certo un disco consueto per il panorama dello Stivale. Attingendo da fonti letterarie composte appositamente per essere poi musicate, di fatto, stravolge le mode del citazionismo che stanno iniziando a diventare davvero anacronistiche ed arcaiche, più che altro per il senso di vissuto che evocano o la poca cultura “reale” di chi se ne avvale. Bene ha fatto dunque Valerio ad inventarsi questo stratagemma, completando poi l’opera grazie a un songwriting che non trascura mai gli arrangiamenti e la costruzione dei brani. Nessuno di questi, difatti, risulta convenzionale, dozzinale o insipido, sorvolando o evitando di affrontare tutte le classiche dinamiche del cantautorato dei “quattro accordi”. Quando un disco passa ad essere un’opera d’arte e non solo un album, si può dire un successo. 

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Articolo a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Flying Kids Records/To Lose La Track
GENERE: Hardcore, screamo

TRACKLIST:
Vecchio
Estate
Chitarra
Fiato
Baracchetta
Chiromante

Voto: 5/5

Arriva un nuovo disco per i Do Nascimiento.
Arriva un gran bel disco per noi.

Mentre tutto va un pò così nel nostro stivale (musica compresa), “in un giugno che pareva non avesse più niente da dire”, ci si ritrova ad ascoltare questi sei brani che il quartetto diGenova (in realtà vivono un pò sparsi per il mondo) racchiudono in Giorgio.

Una tracklist breve ed incisiva, che parte da quello a cui i Do Nascimiento ci avevano abituato fin qui (soprattutto nello Splittone Paura). Ora però si sente unʼinedita maturità nel comporre, che raggiunge il suo punto più alto in Fiato.

Sei pezzi. Velocissimi, efficaci, ben prodotti, ben suonati, ben cantati, ben tutto. Tra chitarre dal tocco indie a là American Football e una voce che varia dal limite del gridato al cantato “normale”, Giorgio va di diritto a collocarsi come uno dei migliori dischi italiani degli ultimi tempi, sicuramente per la scena punk italiana ma direi anche per tutto lʼunderground e non solo.

Disco che merita davvero. Chapeau.

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Advice Music
GENERE: Pop

No Chains. Titolo in inglese per un album che si può tagliare nettamente in due tra brani cantati in italiano e altri nella lingua anglosassone. Assenza di catene, per la brillante voce di questa giovane cantante di Bordighera (Imperia), oppure stretti legacci che la imbrigliano ad un canone di vocalità e di songwriting che in molti in Italia da tempo speriamo di dimenticare? Obiettivamente, Idhea mette in campo una timbrica e una capacità tecnica di cui ben poche nuove leve del rock commerciale italiano dispongono, anche tra gli alti papaveri che della nostra scena tessono la trama da decenni. Indubbiamente, inoltre, gli arrangiamenti sono molto curati e celano dietro un velo di superficialità radiofonica anche una versatilità parcellizzata nei tanti pezzi che compongono questo lavoro. Soffermandoci sull’aspetto, appunto, orecchiabile del disco, la voce di Idhea ci ricorda molto da vicino la tradizione italiana partita tempo addietro con Massimo Ranieri e passata poi per Ron, Raf, il recente Renga, ma anche gli svolazzi di Sangiorgi dei Negramaro o la sempre più inascoltabile Laura Pausini degli ultimi anni. Non è un caso, ad esempio, se tra i collaboratori di questo prodotto spiccano nomi come Vinci e Vollaro. Lungi da noi voler tagliare le gambe ad una giovane artista solo per il facile ascolto che deriva dalle sue canzoni, ma su The Webzine non vengono molto spesso apprezzati gli emuli dei peggiori casi umani della musica nostrana (Emma Marrone, Deborah Iurato, Anna Tatangelo, ecc.). A salvare questo disco intervengono però dei discreti momenti rock, come Wanted Love In A While, divertissement piuttosto carico che ci ricorda anche la prima Gianna Nannini. Pure la title-track naviga a vista verso lidi rockeggianti ma avremo preferito forse delle virate più secche verso il blues, piuttosto che certi ammiccamenti a Vasco e Ligabue che si scorgono qui. I pezzi migliori, in ogni caso, NON sono quelli in italiano, dove la vicinanza con i tanti artisti citati è talmente evidente che si rischia di perdere anche il piacere dell’ascolto.

Per dare il giusto onore ad un disco del genere occorrerebbe criticarlo con il filtro di una radio di sola musica italiana, ed è qui che intervengono nomi come l’autrice Paola Capone e l’etichetta milanese Advice Music a dare lustro al tutto. Si perché se il nostro obiettivo invece che recensire un album fosse provare a venderlo, parleremo di un’operazione convincente, soprattutto con brani come Allora Stai Con Me. Il nostro ruolo però ci impone un po’ di sincerità ed occorre, a questo punto, andare a fondo: banalità e prevedibilità regnano in “No Chains” e, nonostante le ineccepibili capacità canore della giovane Idhea, non si può definire un disco che lascia il segno. Perlomeno qui a The Webzine.

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Popolare

Naufragati nel Deserto è il titolo perfetto per questo disco, i cui richiami principali anche dal punto di vista musicale si rifanno all’elemento acquatico del Mediterraneo, un mare certamente vicino al concetto di naufragio, ma anche alle aride lande sahariane dell’Africa centro-settentrionale, fino al suo affacciarsi, di nuovo, sul Mare Nostrum. Folk, pop, jazz, echi spagnoli di musica gitana ma anche flamenco, un fiume infinito di idiomi diversi dal francese all’arabo passando per il sicilianu, tutto condensato in quella che risulta infine un’eccelsa padronanza culturale in primis plurilinguistica, ma variopinta anche nella sua essenza identitaria, perché questo duo in realtà risiede a Genova, aggiungendo un altro punto di riferimento anche geografico alle diverse chiavi di lettura che si possono applicare a questo loro nuovo album.

Un duo, dicevamo, produzione Primigenia che Alessandra Ravizza e Andrea Megliola hanno saputo sfruttare al meglio, dandosi visibilità anche con partecipazioni più che meritate a rassegne come Mediterrarte Festival, il Festival Italiano di Suzhou in Cina e Sanremo Off, tra gli altri. L’ultima edizione di Mediterrarte, inoltre, ha visto la partecipazione della cantante Antonella Serà, rappresentante di un orizzonte canoro non troppo distante da quello della Ravizza. Di Naufragati nel Deserto, tuttavia, non vengono ricordate solamente le voci, ma più che altro gli arrangiamenti più complessi, quelli che mettono in piena evidenza la qualità dei musicisti coinvolti. I momenti più vivaci sono scanditi da violini e intrecci di chitarre classiche ed acustiche, mentre i clarinetti fanno pensare alla tradizione ebraica, come il klezmer di Norman Nawrocki (che in realtà e’ canadese). Se dobbiamo muovere una critica a questo lavoro è forse la mancanza d’incisività dei brani o l’assenza di una direzione che renda comprensibile l’obiettivo di questo prodotto. Piacere a tutti o piacere a pochi? Alcuni pezzi più catchy farebbero pensare alla prima strada, ma la risposta è forse più nella seconda, perché alcuni assoli e fraseggi non ci faranno mai sentire estratti da questo disco nelle radio più popolari. Di conseguenza, se potessimo identificare questo disco come un’esercizio di stile e una naturale composizione proveniente da un multiculturalismo di ispirazione mediterranea, come si diceva all’inizio, l’apprezzamento sarebbe d’obbligo. In definitiva, bella prova da parte di questi genovesi che dimostrano ancora una volta come la Liguria sia patria di artisti di qualità, dentro e fuori il mondo della musica popolare.

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Articolo a cura di CLAUDIO MILANO

ETICHETTA: Leo Records
GENERE: Songwriting

TRACKLIST:
1. Glad To Be Unhappy (R.Rodgers/L.Hart) – 6’05”
2. Brighten (for Teresa) (A. La Volpe) – 5’17”
3. The Solitude Of Things (A. La Volpe) – 3’55”
4. The Crisis (S.L. Mangia) – 5’40”
5. Rush (S.L. Mangia) – 4’04”
6. Is This Your Time? (S.L.Mangia) – 4’50”
7. Is Love An Illusion? (S.L.Mangia) – 4’34”
8. Purple, Lavender, Black (A. La Volpe) – 7’39”
9. Unhappy To Be Glad (S.L. Mangia) – 5’44”

Voto: 8

Web:

http://www.stefanoluigimangia.it/

Suoni elettro-acustici estranei ad ogni tradizione italiana introducono con dolcezza alla materia dell’album. No, la copertina di Maria Teresa De Palma come poteva ingannare?
Un’opera incantevole, che anche se solo fotografata, riesce a comunicare una morbidezza fanciullesca, nonostante ritagli di reticolati metallici, sagomati ad alberi e sole/luna, affiancati da cartoncini di diverso colore e forma, la scritta “viens avec moi”. Elettronica, dicevamo, a ricreare fanciulleschi glockenspiel affiancati ad una chitarra acustica appena sfiorata, ad una melodica altrettanto accennata, il notevole timbro della tromba di Giorgio Distante e… la voce. Quella di Stefano Luigi Mangia, didatta ed interprete, che solo l’ascolto del disco saprà chiarirvi perché, ad oggi, non alla ribalta di cronache e classifiche di sorta. Per paradosso. Si, proprio per paradosso.
Stefano, assieme a Dalila Kayros e John De Leo, è per chi scrive la voce più importante del panorama italico a latere e non. Quello che fa della scuola della Nuova Vocalità humus fertile per chiunque a livello mondiale voglia avvicinarsi ad una nuova estetica del canto. Perché si, se si eccettua l’ultima decade, in Italia “saper cantare” è stato sempre importante.
Mangia, conosce il linguaggio del jazz, tradizionale e non, della lirica, da quella “classica” a quella strettamente “contemporanea”. Ma è anche esperto in emissioni “estreme”, armonici, subarmonici, suoni aritenoidei, fischi (whistle register intendo, non il “fischiare”). Il tutto ottenuto in assoluta leggerezza, senza mai impiego di troppa aria e “proiezione”. Stefano è eleganza, grazia, ma non è mai mellifluo. E’qui che troviamo l’interprete, oltre che al cantante. La sua emissione sa essere carezzevole, fragile, ma sempre estremamente intima, profonda, cosa che lo rende adatto tanto ad un repertorio brillante che ad uno drammatico. Mangia non è un’esperto di beatboxing come Savoldelli, Hera, De Leo, ma se affronta un pezzo sa portarti dagli inferi alle stelle, accarezzandoti l’anima fino a commuovere. Nella sua voce c’è la “pasta” del jazzista vero, non del funambolo d’intrattenimento, per quanto colto. Nina Simone, Chet Baker, Tim Buckley, Paolo Saporiti, emergono dalle sue corde creando paralleli improbabili con l’amore per Stratos (studiato, rimasticato, ma MAI citato), la frammentazione linguistica di Phil Minton, il candore del canto da tenore leggero tardo medievale. Il suo è un canto fatto di sensi in costante seduzione, già a partire dall’iniziale Glad to Be Unhappy, emozionante ed emozionata rilettura del brano di Rogers/Hart. In Brighten (for Teresa) del compagno di viaggio e chitarrista Adolfo La Volpe, è l’elettronica a creare un substrato etereo e tremulo su cui s’appoggia un canto di gran levità, perfettamente “centrato” nell’emissione, anche sulle frequenze più gravi, dove mai viene cercata potenza superflua. Anche il solo di tromba, s’adagia su una materia fatta di cotone inumidito di umori tristi e si muove trasversalmente. Ecco, l’armonia in questo disco è del Novecento rinnegato, ma non suona mai disturbata, andando a lambire le grandi riletture degli standard classici nella stessa edificazione del nuovo. The Solitude of Things, di Volpe, ha questo sapore, quello di un nuovo standard. Nel finale, suoni di “prevocale”, giochi dal sapore infantile echeggiano sapori della psichedelia barrettiana. Non avesse la stessa fame acida, il parallelo naturale di Mangia sarebbe la, vergognosamente dimenticata Patty Waters. The Crisis ha il sapore delle melodie crimsoniane di Discipline, ma presenta improvvisi “crolli” microtonali, che affiancati ad un’estetica da musique concrete e a un’estetica glitch, non possono suonare null’altro che portatori di un’identità inequivocabile.
Il sistema armonico misto della superba Rush, le sue armonizzazioni aperte per elettrica, sembrano portare il Sylvian di Blemish e Manafon a casa del Buckley Sr. di Anonymous Proposition, tra colori di un’elettronica pari a pulviscolo alchemico che letteralmente stordisce. Un gioiello.
Ancora la penna di Mangia su Is This Your Time, dove, per la prima volta nel disco si ascoltano dei “fortissimo” vocali associati a escursioni impressionanti, che da subarmonici sull’ottava 0, superano progressivamente l’estensione del piano emulando e battendo in possibilità timbriche elettronica e chitarra elettrica. Fumettoso, teatrale, intenso, qui, tanto più, unico, sorprendente, conturbante, gli altri aggettivi trovateli voi, non vi mancheranno. Is Love an Illusion si apre con una pioggia rumorista che mai però conduce ad una vera disintegrazione della forma, tant’è che presto appare il canto, con una melodia non meno che splendida. Per chi scrive, altro gioiello del disco, essenziale nel suo svolgimento lineare. Purple, Lavender, Black, ha il colore di certa saudade, accarezzata tante volte dalla voce di Wyatt ed è un altro episodio a firma La Volpe. Dopo il solo di tromba, sorprende il deragliamento su lidi acidi con voce in aspirazione, funzioni detune ed esplorazioni dello spettro sonico in salsa avant-psych. Unico momento autenticamente terrifico dell’opera. Si torna su momenti di una morbidezza assai più rassicurante con Unhappy to Be Glad.

Conclusione: L’anti-indie italico, ma anche l’anti jazz italico, qui non c’è puzza di paraculismo, fighettismo, scazzo, accademismo, snobismo, autocompiacimento nell’essere “bravi”. Piacevole ma non confortevole, estremo ma intimissimo e accarezzato da melodia vera, avvincente, non è un caso che Glad to Be Unhappy sia stato pubblicato da un’etichetta straniera illuminata come la Leo Records, che stia trovando casa tra radio di tutto il mondo, ma che le recensioni italiane ad esso dedicate, abbiano colto il suo essere “sfuggente” non come stimmate artistica, ma come limite, brancolando nel buio.
Per chi scrive, il disco di cantautorato nobile italiano più bello da tanto tempo a questa parte, assieme a The Restless Fall di Saporiti, L’Abito di Alessandro Grazian, Tutta la Dolcezza ai Vermi di Pane, al migliore Capossela e Humpty Dumpty, ma si sa, appena subentra qualcosa che non sia immediatamente e unilateralmente codificabile come minima variante sul tema, critica e pubblico oggi, fanno spallucce e relegano in un cantuccio.
Figuriamoci se Stefano lo merita, a lui, solo assoluto rispetto e gratitudine.

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Recensione a cura di RITA GRASSI

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Cantautore

La prima cosa che viene in mente quando si ascolta “Estro ci Vorrà”, il disco di esordio del cantautore campano trapiantato a Perugia Tito Esposito, è di sicuro “peccato la produzione”. Un vero peccato perchè siamo di fronte a ottime canzoni di stampo puramente italiano come non se ne sentivano da tanto e la produzione un po’ scarna e artificiale (pochi gli strumenti suonati davvero nel disco e tanto computer) forse penalizza un po’ la resa finale. Il rammarico è doppio perchè viene automatico pensare “chissà come sarebbe stato questo disco con una produzione adeguata, chissà dove queste canzoni sarebbero potute arrivare”. L’attenuante è che siamo di fronte al primo disco, alla prima esperienza, alla prima vera prova sulla lunga distanza di un autore giovane ma dal talento innegabile. Attendiamo quindi il secondo disco con la speranza che l’esperienza aggiunga quel tassello in più in grado di restituirci un grande protagonista della musica italiana degli anni avvenire, così come questo primo disco al momento lascia solo intuire.

Rita Grassi

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Recensione scritta per Music Opinion Network

Nowhere But Here è il primo lavoro di Elle, cantautrice romana i cui esordi sono stati accompagnati da un’evidente approvazione della critica e del pubblico, apprezzamenti rivolti principalmente alla sua voce e al disco di cui stiamo parlando. Tracciamo alcuni confini geografici e di genere per capire di cosa si tratta: niente di vicino al sound tipico del pop romano, derivazioni principalmente d’oltreoceano provenienti dai territori del folk, del rock leggero, della musica d’autore, del pop. Potremo considerarla quasi un Bob Dylan al femminile, ma il range vocale è quello di Céline Dion, gli ammiccamenti al blues ricordano la Shania Twain meno commerciale ma anche Tamia e i momenti più soul di KeKe Wyatt. Se poi vogliamo tuffarci nel passato, da dove molte tracce di questo disco prendono spunto, rimaniamo all’estero con Joan Baez, Buffy Sainte-Marie e Mary Travers dello storico trio folk newyorkese Peter, Paul and Mary.

Spingendoci all’interno dell’analisi del disco, molte delle tracce risultano orecchiabili e arrangiate in maniera easy, se pur con qualche colorazione blues e soul che le rende appetibili anche ad un pubblico leggermente più colto. Lo vediamo in “Lover”, “Killing My Love” (per altro il brano in cui la voce di Elle è più in risalto) e “She’s Alone”. “Enlightens” si libera dei linguaggi più rock e finisce a sguazzare in territori quasi liturgici, dove la voce può librarsi in alto libera da vincoli, dimostrando tutte le capacità tecniche dell’artista. C’è anche un po’ di Sheryl Crow e Melissa Etheridge in “Berlin”, forse il pezzo più studiato, forte di un arpeggio martellante che già dall’inizio rimane in testa, nonostante la struttura sia retta principalmente dalla vocalità eccezionale di Elle.

Se dobbiamo trovare un punto a sfavore in questo Nowhere But Here ci dobbiamo rivolgere perlopiù agli arrangiamenti, ottimi per ottenere i risultati sopracitati (orecchiabilità, piglio soul, sonorità americaneggianti) ma mancanti di incisività in più di un istante , come in “Let Me Be Your Eyes”, dove però la voce risulta semplicemente eccezionale. In generale, non è banale né scarsamente professionale lasciar perdere per una volta la ricerca assoluta di originalità, caratteristica che non è il pezzo forte di quasi nessuno negli ultimi anni di musica italiana, ma che in questo caso non ferisce in alcun modo la presenza quasi eterea della voce di Elle, vera protagonista di un disco che si spera verrà ricordato anche dalla critica più feroce. Esordio pienamente meritevole.

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Pop

 

 

 

 

Aliceland è il progetto personale di Alice Castellan, realizzato in collaborazione con il bassista Andrea Terzo, direttore degli arrangiamenti. E’ uno scheletrico carnet di canzoni di stampo pop, semplici ma non semplicistiche, dove l’enfasi data alla voce conferisce venature commerciali ma mai troppo radiofoniche a tutto il prodotto. Di conseguenza, possiamo parlare di un disco di musica italiana di stampo classico, fuori dall’orbita sanremese per una certa raffinatezza ed eleganza degli arrangiamenti che si riferisce forse più ad una tradizione americana, ma con un gran plusvalore dato da un uso costantemente ponderato della voce, che non si produce in eccessi barocchi né svolazzi prog. Del resto, non sarebbero neppure così appropriati. Il fatto che gli arrangiamenti di Terzo non abbandonino mai il terreno acustico, inoltre, districa il nodo ovvio dei cliché rock a cui ormai la musica italiana è sottoposta, avvicinandosi più a quei pochi elementi tranquilli e intimi della carriera di cantautrici come Elisa piuttosto che al rock popolare di Gianna Nannini e Noemi. Può sembrare, talvolta, che un uso troppo consapevole della voce possa far risultare i ritornelli troppo impostati, ma nel pacchetto generale questo contribuisce ad impreziosire le canzoni, piuttosto basilari nella struttura, nelle metriche e nella progressione melodica. E’ quasi romantico, nel senso estetico e letterario del termine, il modo in cui vengono fusi blues, funky, gospel, soul, r’n’b, cantautorato italiano e d’oltreoceano, passando per Alanis Morissette e qualche tocco di Bob Dylan trasporto al femminile.

Pensieri Raccolti non farà gridare al miracolo nessuno, ma come raramente accade siamo di fronte ad un’opera quasi personale che riesce ad avere un valore nazionale, ricevibile da tutti gli italiani come un prodotto di qualità, senza utilizzare quei linguaggi campanilistici che spesso riguardano il folk e di cui gran parte dei cantautori abusano ormai da quindici anni. Un complimento sincero ad Alice per questo lavoro.

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Recensione a cura di CLAUDIO MILANO

ETICHETTA: Sinusite Records
GENERE: Avant-rock

TRACKLIST:
Tilikum
William Blake
La Marcia dei Triceratopi
Tre Gatti
Twenty-One Thousand Leagues
Nine and Them Some
William Wallace
Duello
Self-Harm

Prologo:
Il disco avant italiano dell’anno? Non solo, se arrivasse alle orecchie di qualche grosso nome dell’entourage internazionale, i Carnenera (diretta citazione al più selvaggio Burroughs) hanno tutte le carte in regola per andare molto, ma molto lontano.

Il disco:
La stratificazione di drones su “William Blake” (chi altri se non lui ad agitare narcolessie psicotrope?), fa balzare dalla sedia. Suono nero pece sommati ad altri atmosferici – fantastico anche il basso distorto di Pissavini qui come su “Duello”, brano che arriverà di qui a poco. Asciugate rispetto al passato le percussioni di Carlo Garof, che comunque si frammentano in poliritmie dal sapore geometrico/esoterico, autenticamente sciamaniche. Il rito che attraversa i pochi minuti di “La Marcia dei Triceratopi” con la dea del canto avant italiano Dalila Kayros, porta in una dimensione autenticamente “altra”.
L’abrasività doom/stoner (Ufomammut e il grande deserto attraversato dai Kyuss) conduce nella macina metallica dei Tool, senza dimenticare i Crimson di “Red” portati in dimensione 2014 alla scuola di Ulver e Sunn O)).
Sempio regala un grandissima solista “surf” sulla prima citata “Duello”, prima di infrangere il suo suono in una tonnellata di diafane rifrazioni soniche, mentre Pissavini irrompe con un solo che manda a casa qualsiasi sadico math rock.
“Twenty One Thousand Leagues” come l’opener “Tilikum” è terreno fertilissimo per le stratificazioni di Sempio che più che soundscapes sarebbero da definire adeguatamente landscapes da quei territori estesi, a tratti magmatici e ad altri acidissimi, che hanno (ri)portato alla ribalta Gary Lucas in “Other World” e dai percorsi trasversali di Elliott Sharp, ma la sua personalità, che emerge come elemento collante del disco, per la ricerca spasmodica e la cura del dettaglio sonico profusa, non ha davvero termini di confronto. Tanta cura si e nonostante chiaramente il trio abbia registrato il tutto in presa diretta, con successivi trattamenti elettronici, come in un gioco di rifrazioni di un diamante grezzo, cosa che permette all’album di avere anche un’energia assolutamente diretta e non “costruita” ad arte, come accade per la maggioranza delle produzioni del genere (“Nine and Then Some” con un solo pirotecnico di chitarra, che non disdegna l’uso di un tapping incendiario, ne è esempio).
“William Wallace”, apre ancora a lande dilatatissime, prima di esplodere con una sezione rirtmica granitica. Il coro “tribal nordico” della sezione centrale, ha un sapore talmente evocativo da condurre dritti in Scandinavia su una nave vichinga pronta a sferrare un qualche attacco.
“Tre Gatti” assieme a “William Blake” è per chi scrive il picco di un album comunque estremamente coeso. Qui i suoni scorticano la pelle e Garof dà prova di creatività nel condurre un mondo di ritmiche dedito all’evocazione e alla potenza, anche quando si muove come a infrangere dozzine di specchi senza mai riflettervici dentro per autocompiacimento. Questo è un altro elemento essenziale dell’opera, che affronta una scrittura creativa anche negli interventi solisti senza suonare mai autoreferenziale.
Carnenera evolve il linguaggio di tanti nomi prima citati quanto di Zu, Ulan Bator (echi nell’intarsio post rock, accarezzato da chitarre in detune nella conclusiva Self Harm – delizioso l’arpeggio conclusivo qui), i Bark Psychosis di “Pendulum” dall’indimenticato “Hex”, Rosolina Mar, Aidoru, ma che soprattutto a tutto guarda tranne che al provincialismo italiano.
Nota di merito anche all’artwork di grande impatto, a cura di Alessandro Torri.

Conclusione:
E’ lecito da questa band aspettarsi un’intensa attività live. Perchè? Questo è un disco che farà impazzire qualsiasi amante dei “field”: stoner, noise, doom, math, avant prog e avant metal, psych, drones, desert, post rock … il che, non solo non è poco, ma garantisce un’identità forte e immediatamente riconoscibile.
Ascoltateli, andateli a vedere, lasciatevi condurre nel perdere il controllo razionale di voi stessi per trovare qualcosa di più profondo che vi appartiene: un buio che odora, pardon, puzza, di luce.

8’5, netto

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Recensione a cura di CLAUDIO MILANO

Etichetta: dEN
Genere: Avant/elettronica/ricerca vocale

Tracklist:
Kayros
Hor Kar Vudur
Hacab
Tzerpiusu
Sardonios Ghelos
Strix
Arxia

VOTO: 9

Kayros è una nuova divinità italiana e tale è destinata a rimanere.
Tracce come questa lasciano il segno in maniera permanente.
Pubblicato da pochi mesi, NUHK, si è ricavato uno spazio grande nell’avanguardia italiana che conta.
Dalila è, per chi scrive, la più grande ricercatrice e performer vocale italiana di sempre (e si sa, l’Italia in questo territorio, rimane da sempre, apripista per sviluppi globali) assieme a Giuni Russo di “Energie”/ “A Casa di Ida Rubinstein 2011” / “Signorina Romeo live” e alla prima Katya Sanna (quella di “Il chiarore sorge due volte”, coi Dunwich e le collaborazioni col collettivo romano Epsilon Indi). Un disco come questo, nonostante le poetiche differenti, porta un passo oltre, quanto fin qui prodotto da Romina Daniele e Antonella Ruggiero, Petra Magoni, Cristina Zavalloni e supera, di slancio, Lili Refrain e Stefania Pedretti.
La sua dimensione è dichiaratamente in opposizione ad un sistema “popolare”, inteso come “pop”, ma alla tradizione popolare vera, quella sarda (la lingua usata per il canto), attinge, creando un legame solidissimo e ultra (null’affatto “post”) moderno, tra arcaico e moderno, aprendo a nuovi scenari possibili e auspicabili.
Ciò che di primo acchito sorprende è il gran livello di produzione, cosa null’affatto scontata tra le mura dEN Records, nobilissima etichetta che ha preso in carico l’opera, spesso più avvezza ad un instant composing con mixing ottenuti in tempo reale, a segnare la “crudità” delle poetiche. Qui il suono annichilisce, panpot che rimbalzano da un orecchio all’altro e una cura nell’estremizzazione delle frequenze che rende gloria al contenuto.
Come sempre per dEN, preziosissimo l’artwork a cura di Soldarini.
La voce, trattata elettronicamente o pura, si muove da subarmonici gutturali e aritenoidei, prossimi al growl (“Tzerpiusu” – eccezionale nella sua miriade di rifrazioni, pari a un coro di vespe – , “Hor Kar Vudur”) per raggiungere suoni da soprano leggero di una delicatezza e una purezza immacolata (“Sardonios Ghelos”) ed esplodere in whistle raccapriccianti (“Strix” – per chi scrive, il brano più bello ascoltato da un annetto a questa parte – “Hacab”), talvolta in screaming, in altri casi in modulazione da soprano di coloritura a spostare l’estensione del pianoforte, a destra, di mezza ottava. Spesso corde vere e false sono usate assieme, rendendo la voce della cantatrice come quella della più violenta tempesta punk immaginabile (“Arxia”). Pre-vocale e profonda ricerca sulla phonè si legano a definire la più profonda sintesi tra alcune delle voci femminili estese più importanti e radicali che hanno attraversato il ‘900 nel rock e nella musica di confine (Yma Sumac, Meredith Monk, Nina Hagen, Diamanda Galas, Yoko Ono, Meira Asher, Carla Bozulich, Iva Bittova), ma qui è soprattutto permeata fino all’inverosimile la lezione del Scelsi di “I Canti del Capricorno” e la ricerca delle indimenticate Joan La Barbara e Cathy Berberian (“Stripsody”). Non solo, ogni possibile paragone unilaterale espone al ridicolo chi ha scritto di NUHK, testimoniando la profonda ignoranza della critica (italiana in particolare) appresso all’estetica delle “voci estese”, erroneamente chiamate ancora “voci strumento”, per le quali i metri di paragone Stratos e Galàs, sono ormai superati (certamente nella tecnica) da almeno due decenni, ma rimangono gli unici conosciuti, a discapito delle ricerche di Jaap Blonk, Koichi Makigami, Paul Dutton, Phil Minton, David Moss, Viviane Houle, John De Leo, Stefano Luigi Mangia, Mike Patton, Albert Kuvezin, Tran Quang Hai, Gisela Rohmert, Amelia Cuni, solo per citare pochissimi esempi. Che razza di affermazione è quella della “voce strumento”? Se una voce come quella di Sylvian (o Waits) canta su di un’ottava non è forse uno strumento magnifico? Bisogna ammazzare i propri padri putativi per essere sé stessi e Dalila questo, lo ha fatto, pur essendo questo, appena un (magnifico) disco d’esordio.
In lei c’è la lezione di chi, non solo non ha dimenticato il ‘900, ma dà soffio al proprio tempo e lo proietta avanti definendo nuove strade. Ma ciò che importa è che qui, la tecnica (più registri, più colori, più estensione = più possibilità a disposizione per far muovere apparato fonatorio appresso alla mente senza troppi limiti), è esclusivamente funzionale all’espressione, profondamente viscerale, sciamanica, da chi è in preda a convulsioni da allucinogeno pre rituale. Ancor meglio, tutto qui è “composizione”. Perché Dalila, compositrice rimane, anche nell’improvvisazione più radicale. Le tracce, multi-strutturate e ripartite in tante micro-sezioni (“Hacab” in particolare), sono autentiche composizioni di musica contemporanea che attinge all’elettronica figlia di Karlheinz Stockhausen, quanto dei Nine Inch Nails, Foetus e i Neubaten, dell’estetica glitch che frammenta come a definire miriadi di metamorfosi “ovidiane” e quella dei drones più minimali e tempestosi.
Dalila è schianto e carezza, un fiore che riemerge dalla liberazione di sovrastrutture socio-culturali, a cui pure attinge, per trasformarle in medicina, come nell’immergersi in un catino di ortiche per curare una malattia di Psiche intesa come sensibile cordone olistico tra anima e corporeità e rinascere giglio immacolato, nel mese di Maggio.
Fatelo ascoltare ai vostri bambini, rideranno, giocheranno e canteranno assieme a Dalila, loro, non hanno bisogno delle vostre sovrastrutture, o, se un bambino interiore siete riusciti a conservarlo, senza farlo diventare tiranno e obeso, ascoltatelo, non riuscirete a liberarvene.
A questa forma di dipendenza, al pari di quella di un “The Drift” di Scott Walker, non potrete che esprimere profonda gratitudine.

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Altipiani, Audioglobe
GENERE: Alternative

“Panico” è il secondo sforzo discografico dei romani La Malareputazione, un trio alternative rock compatto e convincente, di chiara matrice indie. I testi in italiano regalano al tutto un pregio maggiore, andando ad innalzare l’asticella della qualità. Piccole perle come Conosco il tuo SegretoLa Parte Più Sana possiedono molta di quella liricità anni novanta che ha reso celebri Emidio Clementi, Manuel Agnelli, Cesare Malfatti ma anche Piero Pelù, Francesco Renga e Stefano Edda Rampoldi. Il tuffo in quel periodo continua anche con Ora Che E’ Semplice e la title-track, dove invece le chitarre e la ritmica pescano anche in ambiti più moderni, quelli appunto dell’alternative e dell’indie d’oltreoceano e oltremanica. Laddove l’album non arriva in freschezza e originalità, riguadagna terreno con l’aggressività e l’incisività di alcune aperture ma anche con un impeto di fondo che erutta come una colata lavica di punk, grunge e hard rock. Di certo più di qualche pezzo si distingue per un impatto maggiore, anche se tendenzialmente parlando non ci sono picchi di qualità o di prepotenza tra questi brani.

Nulla di sconveniente per La Malareputazione. Se non è chiaramente possibile strapparsi i capelli per l’avvento di una nuova band destinata a scrivere la storia del rock italiano, al cuore arriva un gradevole afflusso di sangue nostrano, pregno di quella cultura che ha investito come una valanga tutta la produzione degli ultimi quindici anni, nel bene o nel male. In questo caso, più nel bene. Si attende una futura uscita per dare un giudizio più completo riguardo le capacità compositive di questa band, finora attestatasi su un buon livello, più o meno corrispondente allo standard degli ultimi anni.

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Recensione a cura di CLAUDIO MILANO

ETICHETTA: Universal
GENERE: Alt pop

TRACKLIST:
01 L’Evoluzione Della Specie
02 1969
03 Ruggine
04 Qualcosa Resterà
05 Non Riesco A Muovermi
06 Ormai
07 Vanità
08 Pindaro
09 Colpa Mia
10 Newton
11 Eroe

Voto: 7

Chi lo ha ascoltato nei due dischi precedenti, sa che non c’è mai da aspettarsi la stessa cosa, chi lo ha visto a Sanremo avrà di che rafforzare le sue opinioni nel bene o nel male, chi non lo ha mai ascoltato, farebbe bene a farlo. Da palchi in giro per il mondo divisi con Deep Purple, Lou Barlow, Badly Drawn Boy, Amy Winehouse, Okkerville River, Isobel Campbell e molti altri, a quello dell’Ariston, il passo deve essere stato facile tenendo conto di quanta sicurezza e determinazione  possa covarsi gelosamente dentro, prima di esser mostrata agli altri con “vanità” e un graffio.

“1969”, riduce alcuni slanci, avvicina la lingua italiana, ma non fa l’errore di oltrepassare il senso della misura, riuscendo a suonare sempre interessante, mai banale, pur nella sua immediatezza.

Il disco si apre con le interferenze elettriche che attraversano “L’Evoluzione della Specie”, non particolarmente felice nel testo, ma ben più interessante nella confezione. Non si lavora sempre sulla forma pura, perché i brani mantengono una dimensione adeguatamente pop ma con delle “variazioni sul tema” davvero interessanti. Le armonizzazioni e gli arrangiamenti in particolari sono di gran pregio, non si ha paura della dissonanza, né di un suono apertamente internazionale, che apre a “dream pop” e “baroque pop”. “1969”, già ascoltata a Sanremo, in studio convince ancora di più, un vero gioiello di canzone italiano di lusso, ma dal respiro internazionale, quello che i Muse potrebbero fare se non scivolassero in eccessi formali. Qui anche un gran testo. “Ruggine” è altrettanto affascinante nell’alternanza di pieni e vuoti. In qualche angolo la leggerezza risulta sin troppo tale, come in “Qualcosa resterà”, che non è difficile immaginare tra i singoli del lavoro. Ritmiche composte, fratture improvvise a scomporre la struttura dei pezzi, un’ acustica in grande movimento ed iniezioni di elettricità pura nella nervosa “Non riesco a muovermi”. “Ormai” va nettamente oltre con trascolorazioni armoniche (chi ricorda “Le tre Verità” di Battisti-Mogol? Beh, portatela a casa dei primi Queen…) e una voce che sale in alto, assai in alto. Androgina quanto ficcante, può piacere o no e sicuramente a tanti non sarà di particolare gradimento, ma ha carattere e questa è una gran cosa. “Vanità”, torna ad una dimensione pop, piacevole e immediata, nulla di più, ma saprà diventare uno dei brani più amati del lotto. Questo album ha una caratteristica assai interessante, quella di molti dischi indie italiani anni ’90, quella di occhieggiare alla melodia senza ricadere nel banale, mostrando all’occorrenza di saper affrontare sfide di contenuto e forma, senza mai cadere nell’autoreferenziale e nel volutamente complesso, giacché, qui come più volte detto, di canzone d’autore si parla. “Pindaro”, rimanda alle armonie felicissime del primo album del Banco del Mutuo Soccorso e alla voce di Alan Sorrenti (quello di “Aria”), trasuda romanticissimo coloratissimo, una girandola psych folk che trasfigura una semplice canzone in polvere di stelle e una pioggia di petali. Davvero magica e probabilmente il pezzo più felice del lotto. “Colpa mia”, ha una strofa davvero affascinante, inciampa un po’ sulla frattura che anticipa il refrain, ma è poca cosa. “Newton” si muove appresso ad un arpeggio di chitarra delizioso per aprirsi ad un ritornello a la Air. Ecco, questo è un brano perfettamente “leggero”, che non cede a prevedibilità alcuna. Quando Davide Combusti, nome all’anagrafe del compositore e poli-strumentista, non affronta il tema della “chanson d’amour” e si ripiega su di sé nello scrutarsi in merito ad altri argomenti, coinvolge appieno ed è questo, tra gli altri il caso di “Eroe” che chiude e bene il disco, ancora con acustica in gran spolvero. Qua e là si avverte come se i brani  nella necessità di un’urgenza comunicativa si chiudessero “troppo in fretta”, senza lasciare adeguato respiro a queste romanze contemporanee che potrebbero rischiare un filo di più senza comunque arrecare danno. Ma questo, come più volte detto, è un album pop, o meglio, un signor album pop, di quelli che rimarranno. Dentro c’è tanta cultura musicale, potrei citare, oltre ai nomi fatti, i più ovvi Antony e Jeff Buckley, il primo Battiato “d’autore”, ma anche Ivan Cattaneo di “UOAEI”, Tito Schipa Jr., Jønsi, i Radiohead, ma quando le referenze diventano così tante e stratificate perdono alcun senso, diventan robe da scribaccini di musica come il sottoscritto, che “devono” dare qualche appiglio a chi legge e lasciano spazio ad un solo nome: The Niro. Qui non c’è da aver paura. Si perché siamo in presenza di un disco che ha tutte le carte in regola per figurare tra qualche anno nella lista dei piccoli-grandi classici della musica d’autore italiana, quella capace di unire leggerezza a creatività pura, slanci melodici ad asperità impreviste. Combusti non ha la profondità di scrittura dell’Alessandro Grazian di “Indossai” e (soprattutto) “L’Abito”, ma è un autentico maestro negli arrangiamenti, nella gestione della materia sonica fondendo ultra popolare ed ultra nobile, non è un caso se ho citato un tale Battisti, quel signore radiato dall’albo dei cantautori a lungo perché troppo “di destra”. Qui non c’è la cultura dei cantautori “di sinistra”, neanche un po’, eppure non mi sentirei di giudicare la morbidezza elegiaca di alcuni di questi solchi meno abrasiva di una musica apertamente “maledetta” nelle invettive di testi e carica di aggressività soniche dichiarate.

Non so se Davide  è consapevole di tutto questo, ma forse è meglio non lo sia e che continui a regalarci, soltanto buona musica e la sua voce d’angelo.

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Tuamadre Production
GENERE: Pop rock, ska, folk

L’Invasione dei Tordoputti è l’esordio sulle scene nazionali del progetto ligure Tuamadre. Se dopo “How I Met Your Mother” e la mamma di Stifler in American Pie le mamme sono tornate alla ribalta anche come oggetto di attenzioni sessuali e battute di vario genere, il nome della band evidentemente (e per fortuna) non intende andare a parare nuovamente lì. Comunque, il disco è volutamente ironico, pieno di pungente sarcasmo e siparietti comici, utili anche a spezzare il flusso delle dieci tracce (numerato in maniera molto particolare, tra l’altro) tramite segmenti recitati che intervengono a far sorridere l’ascoltatore. Siamo di fronte ad un pot-pourri ben studiato di molteplici registri stilistici, mescolati ed agglomerati con una discreta dose di genuina follia ed una capacità tecnica che si rivela indispensabile ai fini di mantenere un’eterogeneità che non alteri il succo di ogni brandello messo in campo: reggae, ska, folk, riflessi di rock anni ottanta e novanta, cangianti sfumature tropicali di matrice latina, disco dance e prog, tutto shakerato assieme ad un’elevatissima verve pop dalle tonalità calde, romantiche e di certo radiofoniche. La partecipazione di Mr. T. Bone (The Bluebeaters, Africa Unite) è la tipica aggiunta necessaria a dare dinamismo e densità ai comunicati stampa, più che altro perché stiamo parlando di artisti che non necessitano di nomi celebri per apparire, vista l’eccezionale qualità compositiva ed esecutiva di nomi come Pietro Martinelli al contrabasso e i tre fiati (sax, tromba e trombone).

Una bella sorpresa, piacevole, simpatica, martellante, solare. In definitiva, un lavoro di tutto rispetto.

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Saggio a cura di Claudio Milano. Il saggio include anche informazioni sullo show di presentazione tenuto il 5 Aprile 2013 all’FOA Boccaccio di Monza.

Etichetta: Vololibero Edizioni/BTF
Anno: 2013
Genere: Teatro musicale
Durata: 24’45”
Nazionalità: Italia

Formazione
Damiano Casanova / guitars
Franz Casanova / voice, keyboards
Andrea Dicò / drums, background vocals

Tracklist:
1 Danza Macabra (5:10)
2 La Pestilenza (3:35)
3 Il Ballo Mascherato (3:38)
4 Dodici I Rintocchi (5:43)
5 La Morte Rossa (1:58)
6 Dissoluzione Finale (4:37)
Contatti: www.myspace.com/ilbabauimaledetticretini; damiano.casanova@gmail.com; www.sirogarrone.it,

Voto: 8,5

Il concerto

Trovare il F.O.A. Boccaccio nell’iper-borghese Monza può essere un’impresa, sappiatelo. Che poi a condurvi lì vicino siano un’assurda coppia incontrata per strada, uno ultra-magro, l’altro obeso, il primo a parlare molto lentamente, l’altro in panico completo e alla guida, credo non capiti spesso. Salutati i due stralunati cocchieri probabilmente scappati dalle pagine di un booklet dei Massimo Volume, vengo immediatamente accolto da gente del Centro, assai gentile, che mi offre da mangiare e bere (non male eh?). M’imbatto presto con la band alla fine del soundcheck. Con loro, un’elegantissima Femina Faber, si discute a lungo, di due altri due dischi già pronti, di cosa io vedo nella loro musica, ma che nessun dei miei interlocutori pare conoscere, il che mi predispone anche meglio, annuso autenticità. A seguire performance cyberpunk con bolle di sapone (!), un’ora d’attesa e un paio di birre perché il concerto abbia inizio. Ovunque, per il Boccaccio, splendidi murales, sul soffitto è talmente bello da far sembrare il posto, un’autentica Cappella Sistina neo-espressionista e primitivista.

Poi il Babau dà suono al suo concerto.

Un trio che dispensa atmosfere lisergiche-ipnotiche (come per incanto mi rivedo vent’anni prima al Leoncavallo nell’ascoltare gli Ozric Tentacles), con suoni di tastiera analogici ma con riferimenti post-rock, assoluta l’originalità della proposta che si presenta con una fantastica intro dilatata e intervento di canto gregoriano di Femina Faber, sul palco con pergamena e maschera. La vocalità dell’artista, mezzo-soprano di gran lirismo e colore, è straordinaria, a seguirla in osmosi, gli interventi misurati della band a creare inedite fusioni tra il percorso dei Dead Can Dance e dei Popol Vuh di “Hosianna Mantra”.

Poi, la presentazione dell’album. Suoni naturali riprodotti in tempo reale, crescendo ritmico, assoluta intesa musicale. Un suono capace di accontentare tanto i seguaci dell’indie rock, quanto gli estimatori delle avanguardie nuove e antiche.

Eccezionale il contributo ritmico netto, deciso di Andrea Dicò (incredibile come l’assenza del basso non sia minimamente percepibile). Notevole intervento di teatro danza con bellissimi costumi, qualcosa di surreale, completamente distante da qualsiasi cosa possa accadere fuori. Il recitativo di Franz Casanova, anche alle tastiere, ha grande potenza comunicativa, la chitarra elettrica di Damiano Casanova disegna linee reiterate quanto efficaci, quasi ragnatele a sostenere l’intero impianto musicale. Torno a casa felicemente stordito.

Il disco

Parole d’ordine, ancora, teatro e visione, immediatamente dichiarati con l’opener “Danza Macabra” e riproposizione di belati onomatopeici a rendere una dimensione fortemente pastorale sostenuta da campanacci e un cristallino arpeggio di acustica. La ritmica marziale che ne segue dà enfasi, appoggiandosi ad un’elettrica dal suono sporco e marcatamente sixties. Così anche le tastiere, minimali ma come detto, analogiche. Tutto assai retrò ma gestito in maniera meticolosamente descrittiva e più che fiabesca, (come nella tradizione “progressive”, rinnegata di fatto solo da certo Rock in Opposition e qualche sparuto esempio) da cartoon direi. E’ proprio questa caratteristica che fa del Babau, qualcosa di “altro”. Ascoltarli è come sfogliare un fumetto di pregio, dove è solo lo scenario a presentarsi talvolta “antico”, ma mai la sostanza, essenziale, minimale quanto compiuta.

Con il secondo episodio, “La pestilenza”, ancora onomatopee, i readings di Franz Casanova sono fascinosi come pochi nell’impiego delle corde vocali false ed accentuata iperventilazione nell’aspirare aria quasi a voler consumare il fiato di chi ascolta. A sostenerlo una meravigliosa litania sussurrata dai cori di Dicò, abilissimo nel colorare di sfumature percussive assortite il variopinto quadro speziato di ossessione per il sublime neo gotico. Fiabe per adulti svezzati, ma anche per bambini educati alla consapevolezza.

Chi l’ascolterà all’estero avrà idea di un disco che affianca la tradizione di dischi come “Concerto delle Menti” dei Pholas Dactylus, i dischi dei Fiaba, quel “De la Tempesta l’oscuro Piacere” degli Aufklärung che tanto fece parlare di sé nei primi ’90 e soprattuto “Trans Vita Express (Racconto Psicofonico dall’Aldilà)” di Marcello Giombini, in una tradizione avant folk gotica, ben espressa in “Il Ballo Mascherati”. Paul Roland ne sarebbe davvero invidioso, lo sentisse di sfuggita. Chi l’ascolterà in Italia invece, non potrà non trovare elementi di quella teatralità incantata di Alessio Bonomo (chi lo ricorda a Sanremo con “La Croce”, Fausto Mesolella alla chitarra e video di Oliviero Toscani?), felicemente riemersa con Vito Antonio Indolfo degli AcomeandromedA, più apprezzata nella ben più banale (e dunque leggibile a forza di sottotitoli in bella evidenza) teatralità di Tre Allegri Ragazzi Morti e Teatro degli Orrori. Questo è si indie performativo, ma di lusso…

E’ sempre in presenza del racconto che la musica si fa irresistibilmente fascinosa, in “Dodici i Rintocchi” con impianto rumoristico di percussioni, sostenuto da un’efficace elettrica in reverse, bordone di synth, analogico of course. Splendido momento che collassa direttamente nella successiva “La Morte Rossa” e “Dissoluzione Finale” compendio ben più mesto a chiudere in modo inquieto (fantastici qui gli effetti su piatti, cassa – quasi grancassa – e voci).

L’intero racconto, o “fonodramma”, come sottolineato dalla band, va ascoltato d’un fiato, lungo i 24 minuti che lo definiscono. Non un EP, per carità, una performance non si definisce sulla base della durata, ma sulla base del suo essere compiuta e questo lavoro è assolutamente compiuto. Si può scegliere o meno di farsi suggestionare dalle meravigliose tavole di Siro Garrone che accompagnano il libro accluso come in una globale manifestazione felliniana traslata in un cupo Ottocento, oppure, di goderne a sé, perché i semi della visione sono parte attiva e costituente del suono, ma bisogna avere l’oggetto per assaporarlo, annusarlo, viverlo come in un teatro a portata propria e gelosamente esclusiva di ogni senso. Assoluto rispetto anche al Dr Mattia Scheller per aver investito nel progetto, non solo in termini di produzione, ma anche con una bizzarra quanto godibile prefazione e alla produzione artistica di Roberto Rizzo.

Per chi scrive, il disco italiano più interessante dello scorso anno assieme al triplice atto dei Deadburger. Ecco, una sola cosa mi resta da dire, che pur trattandosi di una fiaba noir, nel racconto del Babau, questo Poe, fa paura lo stesso tanto più suona come strana metafora dei giorni nostri…

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Saggio a cura di CLAUDIO MILANO

Band: Deadburger Factory
Titolo: La Fisica delle Nuvole
Etichetta: Snowdonia
Genere: Avanguardia
Anno: 2013
Durata: 33:19 / 28:32 / 37:37
Nazionalità: Italia

Formazione:
Alessandro Casini – chitarra, vibroplettri, graphics
Vittorio Nistri – elettronica, tastiere, manipolazioni sonore
Simone Tilli – voce, tromba
Carlo Sciannameo – basso

e con:
Pino Gulli, Ivan Broccardo, Giovanni Prosdocimi, Irene Orrigo, Odette di Maio, Paolo Ciotti, Giulia Nuti, Viola Mattioni, Enrico Gabrielli, Giorgio Saviane, Marinella Ollino (Lalli), Jamie Marie Lazzara, Simone Petri, Mario Fani, Emanuele Fiordellisi, Enzo Scalzi, Nicola Vernuccio, Nicola Cellai, Massimo Giannini, Paolo Benvegnù, Emanuele Fiordellisi, Giulia Sarno, Marina Mulopulos, Tony Vivona

Tracklist:
CD 1 – Puro Nylon:
1. Madre
2. Variazioni su un Campione di Erik Satie #1: Re
3. Variazioni su un Campione di Erik Satie #2/3: L’Inganno/Il Poeta
4. Oltre
5. Obsoleto Blues
6. Variazioni su un Campione di Erik Satie #4: Ciò Che la Pelle Spiega
7. In Ogni Dove
8.  Ancora Più Oltre

CD 2 – Microonde/Vibroplettri:
1. La Mia Vita Dentro il Forno a Microonde
2. Strategia del Topo
3. Magnetron
4. Micronauta
5. Il Dentista di Tangeri
6. Cuore di Rana
7. Dr Quatermass I Presume
8. Arando i Campi di Vetro

CD 3 – La Fisica delle Nuvole:
1. La Fisica delle Nuvole
2. Amber
3. Bruciando il Piccolo Padre
4. Cose Che Si Rompono
5. Wormhole
6. Il Mare E’ Scomparso
7. Deposito
8. C’è Ancora Vita Su Marte

Contatti: http://www.deadburger.it/band/?page_id=5 ; http://www.snowdonia.it
Voto: 8,5

Prologo:
Era Febbraio 1998 (il disco non era stato ancora pubblicato ufficialmente), quando mi sono imbattuto per la prima volta con una produzione Snowdonia, grazie a Dario Antonetti, degli allora Kryptasthesie. La doppia compilation si chiamava “Snowdoniani Baccelloni Invadono Megaton 4”. Da allora la curiosità per l’etichetta Snowdonia mi ha accompagnato giocosamente, fino al capolavoro dei Maisie “Balera Metropolitana”. Oggi, c’è del nuovo, merita grandissima attenzione ed ha un nome: Deadburger Factory.

(Alla domanda “Come vorrebbe morire?”)
Da vivo.
(Antonio Moresco)

Non è un caso che questo lavoro sia presentato tra le pagine del libro accluso con una citazione del più grande scrittore italiano contemporaneo (assieme all’ indimenticato Matteo Galiazzo), autore di quei “Canti del Caos” (Mondadori, 2009) che tanto hanno fatto discutere per la capacità di centrifugare idiomi più di Raymond Queneau, in salsa acida alla Louis- Ferdinand Céline e non è un caso che la citazione sia proprio quella ad aprire questa recensione, perché quest’opera che di vita e morte, transizione, passaggio, istanti addentati con ferocia e gustati con fame vera tratta, ha il gusto di un testamento.

In un’epoca in cui tutto viene consumato con distrazione, lasciando che gli stimoli ci accolgano lateralmente, come per inganno, le canzoni lunghe un giorno dei Flaming Lips e opere come “Have One on Me” di Joanna Newsom, hanno aperto una nuova strada, quella che obbliga ad usufruire lontano da un mp3 low-fi e un paio di cuffie su un bus mentre si va a scuola. E’ con gusto e consapevolezza che i Deadburger a questa strada fanno riferimento.

E’ con un capolavoro “1940/Madre” che il primo capitolo di questo triplo album, si apre, un brano, a sua volta tripartito con diretto riferimento all’estetica del ready made di Marcel Duchamp, giustamente associata al cut-up che da i primigeni esperimenti di Wyatt (The End of an Ear), Hammill (The Future Now), “My Life in the Bush of Ghosts” dell’accoppiata Eno/Byrne, fino al Beck di “Mellow Gold”, qui unisce readings ad elettronica, un arrangiamento per archi ad alto tasso emozionale. Ancora meglio però si sviluppa Variazioni su un campionamento di “Erik Satie#1:RE”, con archi ancora più ficcanti ed un reading ad opera di Paolo Ciotti che ti fa mancare l’aria. Tutto è perfetto qui e lo sono anche le parti 2 e 3 del brano, l’ultima con la voce di Giorgio Saviane che fa muovere corde emozionali anche spente. “Oltre” si muove con grazia “post tutto”, Lalli alla voce come non l’avevamo mai sentita e una coda di Nistri raccapricciante. Fa specie ascoltare quanto il collettivo sia capace di trattare una materia sonora di massima nobiltà con un fare minimalista che attinge tanto alla musica classica ed elettronica contemporanea che alle avanguardie rock più estreme, “Obsoleto Blues” sembra far ricorso quasi ad espedienti desunti dall’industrial dei Nine Inch Nails prima di schiantarsi in una coda finale tribal-psichedelica con la batteria di Pino Gulli in grande evidenza e le chitarre di Alessandro Casini ad incendiare anime adeguatamente ricettive. La Factory frigge il concetto di post-modernismo ed integra alla Romitelli, ogni cosa intraveda in un substrato inconscio di cultura globale collettiva, celebrando al tempo stesso morte e rinascita dell’estetica europea per come la si è intesa per decenni. Un disco come questo finalmente inizia a fare un po’ di luce in mezzo alle nebbie di un’estetica musicale italiana che ripete noiosamente e penosamente sé stessa dagli inizi degli anni ZERO, in attesa di un chissachè che è sempre stato qui e che non si è manifestato perché non si è mai avuto il coraggio, ma probabilmente neanche la cultura necessaria (ce ne vuole un’enormità in un mondo in cui a passare il tempo su internet tutto il giorno non basterebbe una vita per fruire di tutto quello che l’umanità ha prodotto e che ora è a portata di tutti) per muovere un passo verso il “nuovo” autentico. Ma ci vuole anche genio e questa gente ne ha a sufficienza da essere ignorata dai più e apprezzata da qualche salotto che non mancherà di associarli a “Massimi Volumi” e CCCP, senza neanche avere una minima dose di consapevolezza che anche quelli i loro precursori li hanno avuti eccome. Dal primo Battiato (tra i solchi di questi tre dischetti in qualche modo rievocato nel modo di assemblare i linguaggi, ma senza la stessa prosopopea e soprattutto un passo “oltre”), ad oscure band e oscuri personaggi che hanno attraversato l’Italia dagli anni ’70 (Pholas Dactylus, Marcello Giombini) ad oggi senza sosta (il mai dimenticato omaggio “The Beat Generation” con un grande Massimo Arrigoni ai readings, Federico Sanesi e Vincenzo Zitello), ai deliri di certi laboratori di fine ’60 (le performance di una tardiva – ancora una volta – beat generation, associata ai suoni “nuovi”, anche in Italia, che più di qualsiasi altra nazione grazie all’eco vicinissima dei lavori di Berio e Nono, ha lavorato alle manipolazioni di nastri magnetici, anche con quelle Stelle di Mario Schifano che meriterebbero “qualcosa” in più dall’esser considerati un oggetto per collezionisti). Qui c’è un omogeneizzato di cultura che supera il concetto di citazione ancora in atto col post rock di band anche grandi, grandissime come gli Aidoru e i Rosolina Mar, o i patchwork di Transgender e Mariposa (sarà un caso che tra questi solchi compaia un sempre più illuminato Enrico Gabrielli?). Un “Il Leonardo – Almanacco di Cultura Popolare” targato 2013, come la geniale impaginazione del libro accluso riesce ad evocare, tra “Forse tutti non sanno che”, foto al limite di un cyberpunk rivoltato in chiave patafisica e i disegni non meno che unici di Paolo Bacilieri, capaci nel loro immaginario di risultare iperrealisti anche quando portano lontano con la mente. Fascino immutato e lirismo oltre confini in “La Pelle”, con clarinetto di Mario Fani trasfigurato e orchestrazioni a muoversi dove i Rachel’s e gli Aranis non sono mai arrivati. Tinte jazz per “In Ogni Dove”, ma sempre con dosaggio alchemico, nelle spire della ispirata tromba di Enzo Scalzi e i rapidi fraseggi del piano di Nistri (chi ricorda i Bark Psychosis di “Hex” e i Talk Talk di “Laughing Stock”?), sinistri presagi d’archi a sottolineare uno scenario tra Lynch e Wenders e ancora Lalli alla voce, lontana anni luce da “giardini, pietre e relative numerologie”. Geniale la sospensione finale di marimba. In “Ancora più Oltre” compare anche il fantasma di un canto, il brano è scritto da Nistri con Lalli (qui dalle parti di Black Tape for A Blue Girl) e le corde di un contrabbasso sfregate da Nicola Vernuccio raggelano una melodia evocativa.

L’elettronica più estrema abbraccia attraverso sospensioni e improvvise accensioni la prima parte del secondo capitolo, la cui natura apparentemente concettuale (tutti i suoni sono stati ottenuti a partire da campionamenti tratti da un comune forno a microonde, acceso, spento, accarezzato, percosso e attraverso rielaborazioni in studio) viene trasfigurata da Vittorio Nistri in materia emozionale a la Burri. Un groviglio sonico industriale, che affascina senza risultare mai autenticamente sadico come nella tradizione del genere (Foetus). Solo appena un po’ prolissa “La strategia del Topo”, ma il resto non è meno che eccellente, con su tutto la stratificazione sonica di “Magnetron”, esempio di rumore bianco che trova in Maurizio Bianchi suo possibile padre putativo.

Ben altra materia a dar forma alla seconda parte del CD 2, “Vibroplettri”, realizzata dal chitarrista Alessandro Casini con chitarre, un bizzarro “stomp set” auto-costruito e plettri vibranti. Materia sonica ben più variegata nelle dinamiche, lucidamente psicotropa e radicalmente più “tagliente” (Dr Quatermass, I Presume). Un “Ballet Mecanique” per connessioni neuronali in stato di grazia ricettivo e rasoi affilati (Arando i Campi di Vetro).

Il terzo Capitolo riconduce alla dimensione acustica, o meglio, elettro-acustica del primo album, con band al completo e più marcato impiego di mezzo, archi, fiati, recitazione, a sostenere un impianto rock più tipico (chitarra, basso, batteria, tastiere). L’incipit di “La Fisica delle Nuvole” commuove fino alle lacrime, complice un testo che vìola senza retorica alcuna: “eccomi qua, a togliere merda da quasi ogni cosa” e “nessun dolore” a parlare di memoria, vuoto e malattia e l’abrasiva declamazione di Simone Tilli. Grazie. “Amber” è ferita dalle scariche della viola di Giulia Nuti e vede per la prima volta (e poi per il resto del disco) un cantato “tradizionale”, o meglio ben vicino alla tradizione italiana del recitarcantando che da Bene e Testa in poi ha tracciato un’intera schiera di “studi matti e disperatissimi” nell’impiego di false corde e suoni fischio. Da brivido il testo (che parla di mercificazione del corpo, intesa come status sociale, svalutazione del sé, malattia collettiva) e il solo di tromba conclusivo, anche questo appannaggio di un Tilli da encomio senza riserve. Splendido il trattamento sulle ritmiche di “Bruciando il Piccolo Padre”, probabilmente però, il brano meno interessante del lotto per la vicinanza assai dichiarata ad un indie rock ben metabolizzato, alla “Negrita in acido”. Non faccio fatica ad immaginare che questo dal vivo sia il pezzo cult della Factory. “Cose che si Rompono” vede Benvegnù alla scrittura e alla voce. Strepitoso Giannini a percussioni assortite ed ottima orchestrazione. Bene la linea melodica. Questo è indie nuovo, non se ne legge mai troppo facilmente il divenire, tanto negli slanci più fisici e sanguigni che nelle orchestrazioni più dolci, affascinante. Torna la poesia del primo brano con “Wormhole” e i suoi spasmi di Casini alla chitarra, Tilli alla tromba e Sciannameo al basso. Un’autentica meraviglia, tutta italiana, ma dal respiro assai vasto. “Il Mare è Scomparso”, trova un’orchestrazione da urlo che rievoca il Zappa esotico di “Hot Rats” e incontra nella teatralità del vocalese di Tilli una cifra stilistica tutta sua. Qui Gabrielli ai fiati è sensazionale, entusiasmano theremin e synth, ma tutto nel complesso non è meno che per-fet-to. Capolavoro assoluto dell’album e migliore brano italiano del 2013 per chi scrive, con una coda non meno che agghiacciante dopo tanta grazia. “Deposito 423” è diretta e ficcante quanto “Bruciando…” ma trova una poetica tutta sua, che solo nella vocalità e nelle ritmiche trova similitudine quasi impressionante (talvolta davvero le idee sono nell’aria) con un altro capolavoro assoluto degli ultimi anni, “Assurdo” dei Garden Wall dei fratelli Seravalle e William Toson. Davvero impagabili qui Nistri, Irene Orrigo al flauto traverso e Alessandro Casini alla chitarra acustica. Tantissima grazia ancora in “C’è ancora Vita su Marte”, melodia bellissima, bell’intreccio di voci tra Benvegnù, Giulia Sarno, Tilli (a kanzat kargyraajodel e screaming di tutto rispetto), bellissimi interventi di fiati di Gabrielli a rievocare i primissimi King Crimson, theremin in gran spolvero… ma… la chiusura con canto in inglese e immediata sospensione/cesoia, suonano come una piccola forzatura. Solo uno, tra i pochissimi peccati veniali dell’opera… perché di questo si tratta: un’Opera contemporanea. Poesia che evoca teatro, teatro che evoca musica, musica che evoca spazi, scenari….

E se vi dicessi di ascoltarlo tutto d’un fiato? Non sono mai stato a teatro per fruire di un’Opera in chissà quanti momenti diversi. Un’ Opera Contemporanea dicevo, in milioni di atti/“quanti”, che a livello mondiale in termini di schizofonia può avere (sulla base delle affinità che la mia mente, per entusiasmo e non per necessità effettiva, cerca, a pescare tra le proprie conoscenze) come referente un solo disco, quell’assurdo oggetto non identificabile che è “Kaddish” dei Towering Inferno. In un anno straordinariamente fortunato per la musica indipendente italiana come è stato il 2013, chissà che questo disco, che per il sottoscritto rimane e rimarrà una delle PIETRE MILIARI del nostro underground, non riceva il giusto e DOVUTO riconoscimento. Si, “Si muore un pò per poter vivere”, affermava Paolo Conte nel 1968. Che la rinascita sia rapida, perché la fame per il “nuovo vero” della Factory è già grande.

Da vedere: http://www.youtube.com/watch?v=GiOSHIjlygA

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Articolo a cura di Enrika S.A. Scream

ETICHETTA: Hopeless Records, Ambush Reality
GENERE: Post-hardcore, elettronica

TRACKLIST:
The Paddington Frisk
Radiate
Rat Race
Radiate (Shikari Sound System Remix)

Gli Enter Shikari sono una delle band più strane che potete sentire. Fanno un po’ di electro, un po’ di trance, un po’ di metalcore, e un po’ post-hardcore. Tutto insieme.
Il primo lavoro è del 2007 e hanno già pubblicato 4 EP e 3 album, uno più bello dell’altro.

“Rat Race” è l’ultimo uscito. E, da amante di questa band, vi dico: è fatto un po’ a caso.
Ma vediamo bene il motivo (anche se non c’è un granchè da dire…).
La prima traccia è “The Paddington Frisk”: l’apoteosi del niente. Già dal primo secondo ti esplode nelle orecchie; bello sì, finchè non ti riprendi e non ti rendi conto che è tutta una accozzaglia di suoni messi lì a caso, per far casino e basta. E allora che canzone è?!?!
Con ‘Radiate’ le cose si sistemano un po’. Se non altro, la canzone ha un senso. I cori accompagnano la voce in screamo, la clean precede un solo di voci bianche, o di quelle sembrano bianche. La canzone funziona piuttosto bene, è la migliore dell’album.
Bene, arriviamo alla title track. Da qui in poi torna a non avere senso nulla. Non c’è una continuità, gli strumenti suonano a casaccio, dal niente si passa da scream estremo a clean perfetta. Non capisco questi passaggi.
Come ultima traccia è posto un remix di “Radiate”; non so neanche come commentarla, perché si sente praticamente un solo suono e delle voci flebili. Solo la band sa da dove è uscita questa cosa. Personalmente, non l’avrei neanche inserita nell’EP.

Sono rimasta molto delusa dal lavoro: mi aspettavo una bomba, visti gli standard della band. D’altronde è quasi un anno che non usciva nulla di loro, qualcosa dovevano inventarsi.

Adesso non ci rimane altro che sperare in un album con i fiocchi.

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Saggio a cura di Claudio Milano

ETICHETTA: Charisma Records
GENERE: Avant Rock

TRACKLIST:
1. Lemmings (11:39)
2. Man-Erg (10:21)
3. A Plague of Lighthouse Keepers (23:04)

Bonus tracks sul CD remaster (2005):
4. Theme One (original mix) (3:15)
5. W (first version) (5:04)
6. Angle of Incidents (4:48)
7. Ponker’s Theme (1:28)
8. Diminutions (6:00)

Voto: 9,5

A volte non basta un aggettivo per dare nome a un volto.
Questo album di volti ne ha così tanti che a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione risulta impossibile metterlo a fuoco del tutto. Ogni analisi critica rischia di diventare dunque un anello essenziale per la sua identificazione, nessuna può essere considerata in alcun modo esauriente.
Come per Red dei cugini elettivi King Crimson, c’è ben poco della corrente approssimativamente definita progressive che possa contenerlo.
Di certo una cosa è chiara, che si tratta di un capolavoro e di un disco nato per essere tale.

In un’epoca come quella odierna in cui quasi nessuno incide con l’idea di lasciare un segno e l’uscita di un album ed il conseguente riscontro di critica non sono più minimamente sufficienti a garantire la diffusione dell’opera musicale, un disco come questo appare irripetibile. Oggi chiunque può scrivere di o fare musica e lo fa, senza avere alcuna competenza in materia, alcuna consapevolezza di ciò che è stato. Quarant’anni fa e per i responsabili diretti di questo piccolo-grande crimine musicale di nome Pawn Hearts le cose funzionavano ben diversamente. Lo afferma Iggy Pop in una delle sue più recenti interviste, se all’album pubblicato seguiva un adeguato riscontro, gli artisti avevano la chance di esibirsi, altrimenti questo non accadeva. Non bastava il miglior produttore, né adeguate distribuzioni e agenzie di booking (non erano nate, esistevano gli agenti come unici responsabili e risultavano figure a dir poco pittoresche, spesso improvvisate e non sempre attendibili). Non esisteva il videoclip come canale promozionale e le uniche fonti d’informazione erano le riviste musicali, abitate da gente che aveva reale conoscenza della materia musica e i negozi di dischi, a prezzi più che popolari, che diventavano luoghi di scambio di idee, di discussione e talora persino, scontro. Internet non era lontana anni luce e con essa la possibilità di poter accedere ad ogni fonte, cosa che oggi, paradossalmente (quanto è stupido l’essere umano) ha annullato il valore dei progetti che vengono consumati in fretta in file iper-compressi, al limite dell’ascoltabile, senza alcun elemento grafico ad accompagnarli che renda il senso della storia che li identifica, senza più alcun misticismo, solo un prodotto da consumo dietro il quale aleggia, più grande del valore musicale, l’immagine del musicista studiata, quella si, ad arte. Quarant’anni fa ai musicisti toccava essere a conoscenza del passato musicale e del presente più immediato, perché l’oggi era già futuro ed era indispensabile essere lungimiranti, spostare l’angolo di lettura del fare musica, almeno un po’ più in là, tanto nella forma che nella sostanza (da qui viaggi rocamboleschi in terra d’Albione o Oltreoceano per respirare l’aria più vitale che c’era). Questi quattro poco più che ventenni con un’immagine asciutta, lontana da ogni lustrino, agitatori di movimenti studenteschi universitari, attenti ascoltatori di tutto quello che il termine avanguardia era in grado di offrire, la passione dichiarata per Messiaen, Ligeti, Penderecki, per la musica concreta di Schaeffer e per il free jazz, da Coltrane ad Ayler a Coleman, la conoscenza del percorso vocale di Cathy Berberian (indagata in contemporanea dal genio vocale di Tim Buckley) quanto l’amore per il canto teatrale di Arthur Brown, la passione per l’elettronica. Quell’elettronica che i Beatles avevano impiegato con l’uso di nastri magnetici (Tomorrow Never Knows, Strawberry Fields, A Day in the Life…), come dal percorso di Berio e Nono e che porta l’organista della band, Hugh Banton a diventare costruttore egli stesso dei suoi strumenti e tra i massimi conoscitori mondiali della possibilità di applicare ad esso inaudite distorsioni, approssimativamente campionate oggi da illustri e più giovani colleghi con effetti che rasentano il ridicolo e centrano la freddezza più asettica. Quella stessa elettronica che porta il sassofonista David Jackson ad impiegare distorsioni ed effetti di ogni natura ai suoi sassofoni, usati spesso in contemporanea, alla maniera d Roland Kirk (non esisteva ancora “aulochrome”, né l’EWI e  l’esperimento del ’41 “One Man Sax Section” di Billy G. True si era rivelato troppo farraginoso, unica chance la doppia ancia) e diffusi in sala tramite amplificatori per chitarra elettrica. Stessa cosa per la batteria di Guy Evans, amplificata con riverberi che sembrano stati settati almeno 10 se non 20 anni dopo, buco nero che non solo attrae e ingloba, ma ferisce, come solo qualche anno dopo avrebbe fatto l’heavy metal più ispirato e tecnico (i Tool?), ma con la stessa enfasi timbrica di un John Bonham. Psichedelia, classica contemporanea, ispirati lied contemporanei, free jazz, prodromi di heavy estremo, punk, suono e tematiche oscure e riff ossessivi che avrebbero fatto da prologo al linguaggio dark di Bauhaus ma anche e soprattutto Virgin Prunes (quanto il primissimo Gavin Friday) e Public Image Limited (dell’amore dichiarato di Rotten per la musica di Hammill si è scritto tanto) ma davvero la lista degli epigoni, più o meno dichiarati potrebbe essere interminabile). Il tutto alternando un’asciuttezza minimale, già figlia della tanto decantata reiterazione minimalista del post punk, qui ben meno approssimativa, ad un pieno gotico claustrofobico, che trova analogie col proprio tempo esclusivamente per il brulicare inquieto dell’organo. Poi… una voce schizofrenica, quella del genio Hammill, memore di studi vocali gesuiti, indagatore di drammi interiori senza pudore alcuno e seminatore di occasioni per una catarsi collettiva che ancora oggi non cessa di avere adepti. Una voce capace di carattere angelico e praticamente indistinguibile da quella di una languida sirena quanto di grotteschi ripieghi su colori rochi ottenuti con l’uso contemporaneo di corde vere e false. Un autentico strumento, capace di scalare ottave, ripiegarsi su stesso, districarsi tra intervalli improbabili (il finale di Pioneers Over “C”), ammaliare quanto diventare sgradevole in una frazione di secondo. Tra sussurro e tuono, cavaliere di un’Apocalisse che “profetizza disastri e poi ne calcola il costo”, “l’Hendrix della voce”, così nominato per l’inspiegabile duttilità e varietà di suoni prodotti. Strumentista modesto ma assolutamente funzionale alla band, quanto compositore tra i più geniali del ‘900, poeta, perché il carattere musicale delle liriche esposte rivela una tale ispirazione visiva da fare impallidire Blake ed un’intimismo nudo e crudo che  parte dall’indagine spietata di una propria condizione esistenziale per divenire universale e chiedere il confronto, umile ma diretto con il maestro dichiarato Shakespeare. La consapevolezza di una raggiunta maturità porta, dopo un iniziale tentativo di produrre alla maniera dei Pink Floyd di Ummagumma un doppio album con registrazioni in studio e live in studio, a realizzare un unico disco tra le mura dei Trident, composto da tre soli brani e registrato nell’arco di tre mesi. L’ambizione viene completamente ripagata dall’esito. Del resto la band si era già dimostrata maestra nella gestione di lunghe partiture, come nel caso del disco che l’aveva preceduto, H to He who am the only one (il più venduto della band, ad oggi due milioni di copie), appena più appesantito dalla produzione, dove brillava un’eccellente Lost, autentico preavviso a quanto sarebbe accaduto appena un anno dopo tra questi solchi. Qui i tecnici del suono sono addirittura tre (Robin Cable, David Hentschel, poi coi Genesis, Ken Scott) e definiscono una delle rese più significative di sempre. Non da meno l’impianto visivo che accompagna il vinile, a cura di quel Paul Whitehead che sarebbe diventato celebre di lì a poco grazie alla sua collaborazione (e qui il nome dei tanti compagni d’avventura sul palco torna ancora) con i Genesis in Trespass, Nursery Cryme e Foxtrot. Ispirazione, maturità, ambizione e la giusta dose di fortuna dovuta alla stima incondizionata nei riguardi della band da parte del produttore John Antony della Charisma e del rimpianto conduttore radiofonico (certo termine assai limitativo per il più grande talent scout e mecenate musicale del rock) John Peel, crea l’equazione chimica che fa seminare al generatore scariche elettromagnetiche capaci di traghettare in un trip a basso costo (economico), dagli inferi agli spazi cosmici più indecifrabili. La progressiva successione dei due riff dell’introduttiva Lemmings, accompagnata da Hammill che esordisce con un timbro in maschera e di testa, inquietantemente femmineo per passare poi a canali di emissione più bassi e divenire di petto con risonanze di corde false, è dichiarazione d’intenti senza possibilità alcuna d’errore. E’ qui che la batteria di Evans raggiunge l’apice, ottenendo una spazializzazione tra i canali mai ascoltata prima. Il brano cresce, s’arresta, esplode in un succedersi di eventi che raggiunge l’apice in una sezione centrale dove le armonizzazioni violentemente dissonanti di sax baritono e tenore (entrambi distorti), le ulteriori distorsioni dell’organo e gli intervalli esatonali della chitarra di Robert Fripp (prossimi all’atonalità schoenbergiana e alle armonizzazioni aperte che avrebbe applicato Derek Bailey qualche decennio dopo), più che ospite quinto membro della band nel disco, con in aggiunta un Hammill che alterna dinamiche di timbro e potenza in una frazione di secondo, fanno impallidire ancora oggi qualsiasi band di metal estremo. Sciolto il groviglio di nervi in una fuga jazz, riprende il secondo riff che fa da leitmotiv del brano per cedere il passo ad un finale psichedelico atonale e rumoristico, al confine con la musica concreta più organizzata. Dal vivo il brano diventerà dichiarazione d’intenti di puro delirio sonico (tanto più nel biennio 1975-1976), come soltanto Killer, da H to He e Gog, da In Camera, ispirato quarto disco solista di Hammill e da cui saranno presi in prestito molti pezzi per le esecuzioni dal vivo della band, sapranno essere. Lemmings non ha le stimmate di un brano progressive, preannuncia invece con grande anticipo le derive più estreme del math rock (le diverse incarnazioni di Mike Patton pre “Mondo Cane”) e nell’uso impervio delle armonie e degli intervalli atonali, quanto nella frammentazione, alcune cose del Rock In Opposition (Living in the Heart of the Beast degli Henry Cow, le composizioni meno ambientali degli Univers Zero). Il brano che segue, Man Erg, per contenuti tematici (le dicotomie angelo-demone, dittatore-salvatore), per atmosfere e struttura, diventerà il classico per eccellenza del combo. Eppure la curiosa ambivalenza che lo caratterizza avrà riflesso anche sulla sua capacità di resistere all’usura del tempo. La prima parte, di grande impatto lirico, suona infatti oggi un po’ retrò se confrontata col resto dell’album, prevalentemente per via dell’arrangiamento. Un pianoforte si minimale ma neanche troppo distante da quello di una buona ballad a firma Sir Elton John, con alle spalle un organo didascalicamente chiesastico. E’ la violenta frattura ritmica che segue, paragonabile ad una crepa dovuta ad una scossa tellurica magnitudo 12 a lasciare impietriti e a cambiare completamente registro. Un suono sinistro apre ad un ossessivo martellamento di tasti e fiati che rimbalza da un canale all’altro sovrastato dalla chitarra di Fripp a disegnare geometrie impossibili e armonie più che aperte demoniache fino a trovare unisono ritmico con la batteria. Heavy-punk a casa di Béla Bartok. Quando il canto urlato di Hammill, stregonesco, compare, si ha la sensazione di essere anzitempo anni luce. La stessa sensazione la si avrà qualche anno dopo con quella Disengage da Exposure del chitarrista dei King Crimson che suonerà trash metal con un anticipo profetico ed enfasi espressionista, complice l’urlo primordiale hammilliano in qualità di additivo. Come un martello pneumatico che esaurisce la sua forza, l’ossessivo ribattuto (in confronto qualunque ritmica Zeuhl appare una marcetta) scarica lentamente le sue pile e lascia il posto ad un’elegantissima soluzione jazzy, che trova spazio in un solo di sax memorabile, prima carico di potenza evocativa, poi come in preda ad un esorcismo, mosso da singulti e movenze epilettiche che riportano al tema iniziale, questa volta assai più convincente perché irrobustito, elettrificato. Inaspettatamente e qui, autentico colpo di genio, le armonie della strofa vedono un’improvvisa stratificazione col riff marziale creando un senso di straniamento che risolve nel finale, trionfale. Ancora oggi ed in particolare nelle due ultime tournée della band, ridotta a trio, senza l’apporto di fiati, Man Erg emoziona e lascia senza fiato per l’organicità di sviluppo dei singoli temi ed il naturale risolversi di uno nell’altro, anche nelle fratture più drastiche. Tra l’altro, la secchezza esecutiva con cui negli ultimi anni viene eseguita la prima sezione, sono riuscite a portare il brano in una dimensione tanto più contemporanea. Memorabile un’esecuzione di Hammill solista nel 1980 a Torino, Stadio Comunale, come spalla a Peter Tosh. Davanti ad un pubblico inferocito, in attesa di “good vibrations” (nessuna citazione in questa caso alla geniale band di Mr. Brian Wilson), Hammill regala una versione esemplare, densa di pathos, asciutta, uno psicodramma in chiave post punk che si arrovella feroce su se stesso come un’invettiva beckettiana al pubblico, che alla fine, applaude.

Infine, la suite. Ogni band degli anni ’70 alle prese con la definizione “avant”, “prog”, o anche semplicemente “rock” (all’epoca il benedetto e tristemente dimenticato termine musica leggera esisteva ancora, serenamente, a caratterizzare quello che era concepito per piacere ad un pubblico vasto, il resto, tanta roba, cercava il nuovo e non pretendeva d’essere compiacente a tutti i costi) doveva cimentarsi con un brano che copriva l’intera facciata di un vinile. A Plague of Lighthouse Keepers non era stata concepita in origine per essere un unico pezzo, ma una sorta di successione di brevi brani legati tematicamente che sarebbero figurati sulla stessa facciata. Un’ alchimia di Hugh Banton, assolutamente inaspettata, regalò, al resto della band il risultato che noi oggi conosciamo. Da qualcuno accusata di frammentareità, la suite si muove invece sinuosamente e coesa nella sua schizofonia, a disegnare uno dei quadri più intensi e drammatici della musica del ‘900, degna ispiratrice dell’ultimo Scott Walker. La centralità del cantore/attore Hammill nel brano, trova eco adeguata in una scenografia sonica che appassiona e inquieta ancora oggi, dal coro fanciullesco (neanche a dirlo, ottenuto con savraincisioni vocali del leader) della prima sezione, al suono raggelante delle navi fantasma in Pictures/Lighthouse, per giungere attraverso le convulsioni di canto e sax (talvolta tutt’uno in osmosi assoluta), i vortici percussivi, le geometrie organistiche, mai così gotiche e distorte all’occorrenza ai gemiti di Presence of the Night e… Kosmos Tour. Questa sezione è il punto più alto dell’opera. Hammill esordisce sardonico con un “Would you cry if I died?” per avviare una progressione vocale sincopata che risolve in arpeggi d’ottava rapidi fino al paradosso, cantati su registro tenorile. Ben lontano da essere un esercizio di stile virtuosistico, il canto di Peter lascia presto posto ad un cacofonico sovrapporsi di tracce minimali di chitarra, organo e pianoforte che creano una poliritmia stupefacente, ottenuta attraverso decine di sovraincisioni e un lavoro di mixing creativo quanto laborioso. Raggiunto il massimo climax di saturazione armonica rientra la voce autorevole del cantante ad aleggiare sul tutto atonale e sancire la fine del caos con “The maelstrom of my memory is a vampire and it feeds on me, now, staggering madly, over the brink I fall”, in sincrono su “fall”, un fortissimo sui tasti d’avorio. La bellissima melodia di (Custard’s) Last Stand fa da oasi col suo lieve incresparsi di tanto in tanto nel presagire nuove tempeste che non si lasciano attendere a lungo. The Clot Thickens è manifesto assoluto di atonalità, percezione di dissoluzione nel magma (“WHERE is the God that guides my hand? HOW can the hands of others reach me? WHEN will I find what I grope for? WHO is going to teach me?”, canta Hammill) questa volta guidato da un mellotron che precipita attraverso un’intera gamma tonale provocando sensazioni di malessere come risucchiati in un maelstrom dal quale voci filtrate emergono come fantasmi nella memoria. Gioco di nastri ad accelerare l’incedere di batteria e finalmente si è fuori dal vortice con un finale che a definirlo elegiaco si è avari. Artaud avrebbe applaudito. Hammill, angelico, citando T.S. Eliot, canta di redenzione con timbro asessuato, tanto caro al Bowie che sarà di lì a poco, mentre la chitarra di Fripp intesse un assolo di rara bellezza per sviluppo armonico, fantasia nell’uso di intervalli e suoni, lirismo. Scariche elettriche prodotte dall’organo di Banton chiudono un’autentico poema dark in musica. La suite viene eseguita una sola volta dal vivo nella sua interezza, assieme allo strumentale Theme One, trionfalistico side A del singolo associato all’album, su tema di George Martin (il “quinto Beatles” nonché loro produttore), ben distante dalle tipiche atmosfere della band e per questo ben accolto da un’audience più ampia (side B la favolosa e ben più oscura W), per la televisione belga, nel 1972, in più take diversi, compatibilmente con esigenze visive. Il filmato, storico, è parte del dvd Godbluff live, indispensabile documento video on stage della formazione che include un ulteriore meraviglia, come dal titolo, l’intero album Godbluff eseguito al Palais des Expositions, Charleroi, nel 1975. Per quanto a partire dal 1977, tanto Hammill nei suoi show in solo o in duo con il violinista Graham Smith, che i Van Der Graaf (orfani di parte della storica sigla quanto di Banton e con Jackson un po’ dentro un po’ fuori dal progetto, ma con agli archi il prima citato Smith e poi anche il violoncellista/tastierista Charles Dickie) abbiano eseguito il brano in medley con la sezione conclusiva di The Sleepwalkers, da Godbluff, medley noto col nome A Plague of Sleepwalkers (celebri la versione di Hammill nel bootleg Skeletons of Songs, datata 1978 e quelle dei VDG, una incisa per la BBC, anch’essa reperibile solo su bootlegs vari e l’altra alla Hull University, entrambe del 1977) bisognerà aspettare quarantadue anni per ascoltarla dal vivo nella sua interezza, quando l’acronimo tornerà ad includere la “G” di Generator. E’ accaduto nel recente “A Plague tour” (Luglio 2013) dove la suite, con intatto spirito lisergico/drammaturgico e accurata veemenza è stata eseguita in ogni data con l’organico ridotto a power trio dopo l’allontanamento di Jackson. Impagabili le rese di Bilston, Trezzo sull’Adda, Amsterdam, Londra, Dresda. L’attualità del linguaggio della band ed il patrimonio che ne derivano rimangono assai importanti, fa specie, tra l’altro, sapere che in ogni data  dell’ultimo tour di Lady Gaga, la performer/dj Lady Starlight, abbia impiegato brani della band e di Hammill solista, come colonna sonora per le sue esibizioni. Pawn Hearts non ricevette particolare accoglienza in patria, tantomeno negli Stati Uniti, che avrebbero riservato tutt’altra accoglienza al più terreno Godbluff, fu l’Italia ad attribuirgli il giusto merito accogliendolo nella classifica dei dischi più venduti al primo posto per 12 settimane, nonostante le accuse di nazismo per la foto interna alla copertina ad opera di Keith Morris, che molto più innocentemente ritrae la band mentre gioca a Crowborough tennis, un gioco inventato dalla band stessa e qui descritto: http://www.vandergraafgenerator.co.uk/pawnhearts/crowborough_tennis_rules.jpg. Hammill tornerà spesso sull’argomento con grande serenità affermando (e oggi davvero questo suona così lontano nel tempo da mettere da parte ogni ricordo dell’epoca delle rimostranze studentesche che preannunciavano gli anni di piombo) “voi in Italia siete abituati a politicizzare tutto”, rispondendo poi alla domanda “ma sei di destra o di sinistra?”: “diciamo più di sinistra”.

In un anno il disco avrebbe venduto duecentomila copie soltanto nella nostra nazione, un milione e mezzo di copie ad oggi, la band avrebbe intrapreso un lungo tour nella nostra penisola tra il 1971 e il 1972, raccogliendo cifre da capogiro, finite in ben poca misura nelle tasche dei diretti interessati, oltre a disordini di dimostranti presenti ai concerti più che per la musica, per ragioni politiche, l’antica protesta della cultura da diffondere gratuitamente, ora realtà che grazie al free download la musica la sta uccidendo. Riuscite ad immaginare tutto questo nel 2013 per un disco d’avanguardia?

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