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Archive for the ‘ETICHETTA: Universal’ Category

Recensione a cura di CLAUDIO MILANO

ETICHETTA: Universal
GENERE: Alt pop

TRACKLIST:
01 L’Evoluzione Della Specie
02 1969
03 Ruggine
04 Qualcosa Resterà
05 Non Riesco A Muovermi
06 Ormai
07 Vanità
08 Pindaro
09 Colpa Mia
10 Newton
11 Eroe

Voto: 7

Chi lo ha ascoltato nei due dischi precedenti, sa che non c’è mai da aspettarsi la stessa cosa, chi lo ha visto a Sanremo avrà di che rafforzare le sue opinioni nel bene o nel male, chi non lo ha mai ascoltato, farebbe bene a farlo. Da palchi in giro per il mondo divisi con Deep Purple, Lou Barlow, Badly Drawn Boy, Amy Winehouse, Okkerville River, Isobel Campbell e molti altri, a quello dell’Ariston, il passo deve essere stato facile tenendo conto di quanta sicurezza e determinazione  possa covarsi gelosamente dentro, prima di esser mostrata agli altri con “vanità” e un graffio.

“1969”, riduce alcuni slanci, avvicina la lingua italiana, ma non fa l’errore di oltrepassare il senso della misura, riuscendo a suonare sempre interessante, mai banale, pur nella sua immediatezza.

Il disco si apre con le interferenze elettriche che attraversano “L’Evoluzione della Specie”, non particolarmente felice nel testo, ma ben più interessante nella confezione. Non si lavora sempre sulla forma pura, perché i brani mantengono una dimensione adeguatamente pop ma con delle “variazioni sul tema” davvero interessanti. Le armonizzazioni e gli arrangiamenti in particolari sono di gran pregio, non si ha paura della dissonanza, né di un suono apertamente internazionale, che apre a “dream pop” e “baroque pop”. “1969”, già ascoltata a Sanremo, in studio convince ancora di più, un vero gioiello di canzone italiano di lusso, ma dal respiro internazionale, quello che i Muse potrebbero fare se non scivolassero in eccessi formali. Qui anche un gran testo. “Ruggine” è altrettanto affascinante nell’alternanza di pieni e vuoti. In qualche angolo la leggerezza risulta sin troppo tale, come in “Qualcosa resterà”, che non è difficile immaginare tra i singoli del lavoro. Ritmiche composte, fratture improvvise a scomporre la struttura dei pezzi, un’ acustica in grande movimento ed iniezioni di elettricità pura nella nervosa “Non riesco a muovermi”. “Ormai” va nettamente oltre con trascolorazioni armoniche (chi ricorda “Le tre Verità” di Battisti-Mogol? Beh, portatela a casa dei primi Queen…) e una voce che sale in alto, assai in alto. Androgina quanto ficcante, può piacere o no e sicuramente a tanti non sarà di particolare gradimento, ma ha carattere e questa è una gran cosa. “Vanità”, torna ad una dimensione pop, piacevole e immediata, nulla di più, ma saprà diventare uno dei brani più amati del lotto. Questo album ha una caratteristica assai interessante, quella di molti dischi indie italiani anni ’90, quella di occhieggiare alla melodia senza ricadere nel banale, mostrando all’occorrenza di saper affrontare sfide di contenuto e forma, senza mai cadere nell’autoreferenziale e nel volutamente complesso, giacché, qui come più volte detto, di canzone d’autore si parla. “Pindaro”, rimanda alle armonie felicissime del primo album del Banco del Mutuo Soccorso e alla voce di Alan Sorrenti (quello di “Aria”), trasuda romanticissimo coloratissimo, una girandola psych folk che trasfigura una semplice canzone in polvere di stelle e una pioggia di petali. Davvero magica e probabilmente il pezzo più felice del lotto. “Colpa mia”, ha una strofa davvero affascinante, inciampa un po’ sulla frattura che anticipa il refrain, ma è poca cosa. “Newton” si muove appresso ad un arpeggio di chitarra delizioso per aprirsi ad un ritornello a la Air. Ecco, questo è un brano perfettamente “leggero”, che non cede a prevedibilità alcuna. Quando Davide Combusti, nome all’anagrafe del compositore e poli-strumentista, non affronta il tema della “chanson d’amour” e si ripiega su di sé nello scrutarsi in merito ad altri argomenti, coinvolge appieno ed è questo, tra gli altri il caso di “Eroe” che chiude e bene il disco, ancora con acustica in gran spolvero. Qua e là si avverte come se i brani  nella necessità di un’urgenza comunicativa si chiudessero “troppo in fretta”, senza lasciare adeguato respiro a queste romanze contemporanee che potrebbero rischiare un filo di più senza comunque arrecare danno. Ma questo, come più volte detto, è un album pop, o meglio, un signor album pop, di quelli che rimarranno. Dentro c’è tanta cultura musicale, potrei citare, oltre ai nomi fatti, i più ovvi Antony e Jeff Buckley, il primo Battiato “d’autore”, ma anche Ivan Cattaneo di “UOAEI”, Tito Schipa Jr., Jønsi, i Radiohead, ma quando le referenze diventano così tante e stratificate perdono alcun senso, diventan robe da scribaccini di musica come il sottoscritto, che “devono” dare qualche appiglio a chi legge e lasciano spazio ad un solo nome: The Niro. Qui non c’è da aver paura. Si perché siamo in presenza di un disco che ha tutte le carte in regola per figurare tra qualche anno nella lista dei piccoli-grandi classici della musica d’autore italiana, quella capace di unire leggerezza a creatività pura, slanci melodici ad asperità impreviste. Combusti non ha la profondità di scrittura dell’Alessandro Grazian di “Indossai” e (soprattutto) “L’Abito”, ma è un autentico maestro negli arrangiamenti, nella gestione della materia sonica fondendo ultra popolare ed ultra nobile, non è un caso se ho citato un tale Battisti, quel signore radiato dall’albo dei cantautori a lungo perché troppo “di destra”. Qui non c’è la cultura dei cantautori “di sinistra”, neanche un po’, eppure non mi sentirei di giudicare la morbidezza elegiaca di alcuni di questi solchi meno abrasiva di una musica apertamente “maledetta” nelle invettive di testi e carica di aggressività soniche dichiarate.

Non so se Davide  è consapevole di tutto questo, ma forse è meglio non lo sia e che continui a regalarci, soltanto buona musica e la sua voce d’angelo.

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Recensione a cura di Claudio Milano

ETICHETTA: Universal
Voto: 7

TRACKLIST:
“Cripple and the Starfish” – Antony

”For Today I am a Boy” – Antony
“You are my Sister” – Antony e Franco Battiato
“Il Re del Mondo” – Franco Battiato
“Tutto l’Universo obbedisce all’Amore” – Franco Battiato
“As Tears go by” – Antony e Franco Battiato
“Crazy in Love” – Antony
“Salt Silver Oxygen” – Antony
“Del suo veloce Volo” – Antony e Franco Battiato
“Hope there’s Someone” – Antony
“La Realtà non esiste” – Franco Battiato e Alice
“I treni di Tozeur” – Franco Battiato e Alice
“La Cura” – Franco Battiato
“E ti vengo a cercare” – Franco Battiato
“Bandiera Bianca/Up Patriots to Arms” – Franco Battiato
“Inneres Auge” – Franco Battiato

La vostra strenna di Natale? Perché no?

Dell’incontro tra i due giganti della canzone colta si era discusso a lungo e non pochi erano stati i commenti contrastanti seguiti alle due date di Firenze e Verona che li hanno visti alternarsi ed in incontrarsi sullo stesso palco, con il prezioso contributo di Alice. Come spesso accade, è l’ascolto a posteriori che riesce a dare un quadro completo di quanto accaduto e per celebrare il tutto su disco è stata scelta la data all’Arena di Verona con il contributo della Filarmonica Arturo Toscanini diretta da Rob Moose.

Ad aprire è Antony con la grandissima “Cripple and the Starfish”, resa sontuosa dal contributo orchestrale, nell’arrangiamento tra il Nyman romantico e Morricone. Distante dalle migliori rese del pezzo, ma piacevole, onestamente più nei vuoti che nei pieni. Encomiabile la resa dei fiati più che quella degli archi.

La distanza con la direzione e le orchestrazioni di Muhly in “The Crying Light” è comunque grande.

“For Today I am a Boy” vede Antony nei panni di jazz singer d’annata e con grandi risultati anche se con qualche eccesso di troppo.

Non ho mai amato “You Are My Sister”, ma devo dire che il ritornello cantato da Battiato con adeguata levità riesce a conferirle meno accenti “sopra le righe” rispetto al suo essere null’altro che una semplicissima pop song con una bella melodia, qualcosa che cerca di avvicinarsi alle migliori ballad dei Velvet Underground ma con un fare, appunto, populista. Qui risulta infatti sopra le righe l’Arturo Toscanini. Nonostante questo, la dimensione live e il carico emozionale che le vengono attribuite, dovuti all’idea di proporre “un evento”, la rendono apprezzabile.

E’ il turno di Battiato.

Va subito fatta una considerazione in merito alla sua resa, l’assoluta inappropriatezza del luogo ma anche qualche grossolano errore di valutazione negli arrangiamenti. Nessuna delle due cose riesce comunque a rendere meno che piacevole l’esito conclusivo. Sicuro, certa autocelebrazione che deriva dal “cesoiare” i brani al loro termine in maniera frettolosa, quasi non si vedesse l’ora di portare il brano a termine, infastidisce, tanto quanto l’incapacità di reggere il tuonare degli applausi, sapendo trovare l’adeguata dimensione interiore per rendere al meglio pezzi di grande lirismo come “La Cura” (avrei voluto sentirla dalla voce della signora Bissi), “E ti vengo a Cercare”, “Tutto L’Universo Obbedisce all’Amore”, che suonano un po’ spente, oltre che “poco presenti”, a tratti scolastiche, lontane da quel magico concerto a Baghdad del 1992 che rimane testamento massimo dal vivo per Battiato.

Si percepisce nel cantautore un senso di pensoso, misurato affanno, unito ad un ridurre i suoi brani ad “intrattenimento colto”, come se il suo interesse per certa materia musicale fosse ormai tramontato, come peraltro dichiarato nella conferenza stampa di presentazione del lavoro.

Meglio “Il Re del Mondo”, che sa emozionare lasciando dovuto spazio anche ai silenzi. Benissimo “Inneres Auge”, ultimo capolavoro dell’autore, che si fa forte di un testo schietto e tagliente, inutile dirlo, tanto attuale: “uno dice che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?”, quanto poetico: “mi basta una sonata di Corelli perché mi meravigli del creato”, ma anche di una linea melodica e di un arrangiamento (unico tra i pezzi del maestro in questo live), assolutamente perfetto, in particolare per le chitarre di Davide Ferrario e Simon Tong, l’ostinato di pianoforte del M°Angelo Privitera, il solo del primo violino in conclusione.

“As Tears Go By”, primo duetto tra i due e omaggio degli Stones a Marianne Faithfull è adorabile, nonostante l’inglese “bizzarro” del maestro di Catania.

L’Arturo Toscanini trova equilibrio perfetto poi con le partiture di Antony, anche nel rileggere Beyoncé, realizzando quanto, questa oggi sia la soluzione musicale più vicina nel suo intimismo e la sua vocazione drammatica (quasi mai stucchevole), la migliore idea possibile di recital contemporaneo. La distanza tra l’autore e l’interprete inglese con Robbie Basho diviene sempre più grande, così come quella con Nina Simone (eccezion fatta che con la prima citata “For Today I am a Boy”).

La misura che differisce Antony e Battiato, a netto vantaggio del primo, è ben espressa in “Salt Silver Oxygen”, dove davvero si ha l’idea di una perfetto connubio tra linguaggio pop e colto con assoluta partecipazione emotiva e capacità di reggere la tensione emotiva di un’Arena quale quella di Verona. Basterebbe questo brano a consacrare Mr Hegarthy (non fosse bastato il bellissimo live dello scorso anno “Cut the World”, ma soprattutto per quel magnifico documento che è “Live at St. Olave’s Church” con la partecipazione dei Current 93) come il più grande interprete vocale dell’ultimo decennio assieme a Jonsi e a Tom Yorke.

“Del suo veloce volo” (primo elemento di contatto tra i due artisti in “Fleurs 2”) vede Antony e Battiato in un duetto indimenticabile. E’ difficile trovare qualcuno capace di affiancare con buoni esiti una voce come quella di Franco (benissimo Alice, bene Giuni Russo e Milva, di certo non Carmen Consoli o Fiorella Mannoia, trascurabilissimi Madonia e tanti altri). E’ necessario avere gran carattere vocale, doti tecniche non comuni e credibile passionalità per creare adeguato margine con il carattere distaccato e mistico, impreciso nell’esecuzione ma assai ricercato nell’emissione e nella poetica, del cantautore, compositore e regista nostrano (ora impegnato nella realizzazione di un film che di morte appunto parla e in maniera adeguatamente spirituale).

Si è nel cuore della performance.

Ancora Antony da solo (con i Johnsons sempre più un’ombra a cospetto del suo canto e delle scelte orchestrali) per un’eccezionale versione di “Hope there’s Someone”, emozionante quanto mai, con un crescendo vocale centrale a cappella che lascia senza fiato, coadiuvato dall’Arturo Toscanini in maniera minimale quanto efficace. Davvero da incorniciare.

Ed impagabile davvero il tributo con Alice allo scomparso Claudio Rocchi in “La realtà non Esiste”, probabilmente migliore momento dell’intera raccolta, con la voce emozionata di Battiato, l’ispirato carattere della Bissi a manifestare davvero questa interpretazione come una delle migliori del loro antico sodalizio. Ottimo arrangiamento oltremodo, anche se discutibile il contributo ritmico finale (era proprio necessario?) di Giordano Colombo, lungo l’intera durata del disco nelle canzoni del solo Battiato. Si tratta oggettivamente di un suonare “vecchio” e a tratti persino fastidioso nel suo essere così ostinatamente “d’accompagnamento e ’80”, tanto nei suoni che nelle scansioni.

Grandissima anche “I Treni di Tozeur” con Alice che chiude il pezzo su registro da mezzosoprano, come nella bellissima sua versione di “Oceano di Silenzio” su “God is my Dj”, riscattando in buona misura l’impressione di un eccesso di nasalizzazione nel suo cantare oggi, ricevuta dal suo ultimo “Samsara”.

In conclusione, avrei sentito volentieri qualcosa di più con Alice, che si conferma nell’Empireo delle massime e più eclettiche interpreti italiane (più che autrice), dalla musica classica e liturgica, alla canzone colta, al cantautorato, alla musica leggera; ci sono momenti di grande emozione alternati ad altri spenti e a qualcuno che deborda senza però arrecare particolari danni. Da celebrare su tutti l’Arturo Toscanini, bene Antony, Battiato quasi esclusivamente nei duetti. Affidandosi ai momenti migliori però che potrei ridurre ad almeno 6, direi che si tratta di un documento più che riuscito e senza dubbio gradevole, che la nostra memoria premierà più per i suoi picchi che per le sue debolezze.

Ne trarrà vantaggio Battiato nel farsi conoscere in terra d’Albione, Antony nel raggiungere anche in Italia il ruolo di popstar dopo la performance sanremese non certo da urlo.

Peccato per il nostro contralto pop più nobile, qui coinvolto, la cui versione di “Il Vento caldo dell’Estate”, tra i momenti migliori della serata, per chissà quali scelte discografiche, non figura in scaletta. Mistero …

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ETICHETTA: Universal
GENERE: Hard rock, grunge

TRACKLIST:
Been Away Too Long
Non State Actor
By Crooked Steps
A Thousand Days Before
Blood on the Valley Before
Bones of Birds
Taree
Attrition
Black Saturday
Halfway There
Worse Dreams
Eyelid’s Mouth
Rowing

Per l’uscita del nuovo lavoro in studio dei Soundgarden, distante più di quindici anni dal precedente full-length di inediti, Down On The Upside, occorre trascinare il giudizio su terreni un po’ più vasti: la bellezza e l’originalità oggettiva di un disco è, in questo senso, un corredo essenziale ad una sorta di utilità, o meglio, necessità, del prodotto, da calcolare, entrambe, anche tenendo conto dei precedenti della band e dello status del genere (il grunge ma anche, in questo caso, l’hard rock).
Ritornati all’ovile tutti gli ex componenti, ormai ultraquarantenni e con diverse esperienze curricolari notevoli (senza attribuirle ne citiamo alcune, sparse: Audioslave, i Probot di Dave Grohl, Pearl Jam, Mark Lanegan, il lavoro solista di Cornell con Timbaland, Pigeonhed, Sunn O))), No WTO Combo, ecc.), abbandonate anche le droghe – come ci tengono a specificare nelle recenti interviste – ripescano dal passato una grinta e un furore che sicuramente non avevano esportato con siffatta esplosività nei progetti collaterali. Recuperano invece poco dell’originalità e dell’effetto novità che sia nel grunge più classico degli esordi, sia nei momenti più melodici del secondo periodo, erano due loro fondamentali pregi. “Been Away Too Long”, “Attrition” e “Non-State Actor” sono le canzoni più incisive, gonfie di riff possenti e tempi martellanti, seppur non altrettanto marziali e “dritti”. Per queste incursioni nei territori metal e hard rock, ricollegabili agli inizi quanto a ventate di fresco che giungono forse da deliri punk à la Foo Fighters, Cornell riesce a rifulgere di una vocalità devastante, graffiante ed esteso come ai vecchi tempi, anche se la pulizia del suono è qui controproducente ed eccessiva, forse l’errore più vistoso di questo tentativo di aggiornamento. “By Crooked Steps” e “Taree” si avvicinano spavaldamente al mainstream, con un certo grado di orecchiabilità che, supportata da arrangiamenti belli pieni e corposi, le riallinea con le parti più grezze del disco.
Strumentalmente, la band riesuma tutte le sue qualità in realtà mai sopite. Linee di basso e batteria sempre sostenute e con un groove che si muove tra funky, grunge e hard rock, riff spaccaorecchie di sapore zeppeliniano, una voce sempre di lusso. La composizione mantiene mediamente un buon livello anche se il rubinetto perde acqua dalla parte dell’originalità. Tanti, infatti, sono i brani che staccano poco dal passato, e se tratteggiare una linea di continuità con la produzione che fu il loro fiore all’occhiello era il loro obiettivo, nonché l’esaltante volere dei fan di vecchia data, le nostalgie devono anche fare i conti con la realtà di un estro creativo un po’ calato e di una presenza sul mercato leggermente meno agevole e giustificabile, in queste vesti. Riconnettendosi all’inizio della recensione, sui due piani della critica troviamo, in sintesi, un quasi perfetto revival grunge, consacrazione della loro grandezza nell’esprimere e modellare questo linguaggio pienamente nineties e dall’altro lato un prodotto obsolescente che una band così difficilmente saprà svecchiare con un seguito all’altezza.

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ETICHETTA: Eclectic Circus, Universal
GENERE: Pop

TRACKLIST:
1. Dorian (Postmodern Parte 1)
2. I Giorni di Urano Contro
3. Tutti Usciamo di Casa
4. Da Uomo a Uomo
5. La Stanza
6. Di Gioia e Rivolta
7. Dorian (Postmodern Parte 2)
8. Un Figlio Lo Sa
9. Tempo Prendimi per Mano
10. …
11. L’Ultimo Viaggio di Argo

Dopo un grandissimo EP di debutto, il full-length dei lombardi Mascara arriva come un fulmine a ciel sereno a sbigottire di nuovo la scena italiana con un prodotto di gran pregio. Undici brani, pubblicati per Eclectic Circus e Universal, confezionati in una veste teatrale dal sapore lirico, impreziositi da una fluidissima narrazione che nonostante le radici pesantemente affossate nella mitologia e nella letteratura riesce a non essere mai né noiosa né ridondante. Dalla nascita alla morte, questo il concept cui l’album fa riferimento, e la crescita collettiva di tutti noi sembra essere pienamente compresa dalle raggelanti parole che sferzano tutti i brani (“Tutti Usciamo di Casa”, “La Stanza”), in un ensemble ricchissimo di undici papabili hit radiofoniche che sicuramente spiazzerà i fan del primo EP, più nichilista, complesso e filosofeggiante. “Tempo Prendimi Per Mano” e “I Giorni di Urano Contro” risollevano la questione morale della new wave, linguaggio dietro il quale tantissima musica italiana si barrica traendone una linfa vitale che sa di muffa e di stantìo, ma che nel caso dei Mascara è invece fagocitato, digerito e rivomitato con una grandissima capacità compositiva che ne allontana tutto il senso di ripetitività che anche in grandi nomi internazionali s’avverte (vedi l’ultimo Editors). Anche i primi Litfiba, i La Crus meno spinti e i Cure sono tra le band che andrebbero citate come influenze fondamentali dei Mascara, ma è quasi offensivo pensare che Tutti Usciamo di Casa sia materiale derivativo: l’originalità di questa band sta proprio nel saper riciclare elementi triti e ritriti in un frullato totalmente nuovo, dove la monumentalità delle liriche e degli arrangiamenti riesce a torcere le membra dell’ascoltatore e a restituire in un semplice pop dressing i mille rivoli dietro cui si disperde tutta la loro sorprendente e disorientante furia. Perché l’enorme impatto che ha questo lavoro esprime una sincera voglia comunicativa che non disperde nessuna energia, ma anzi la convoglia in un mezzo unico, che arriva come un macigno all’ascoltatore. Pop per tutti ma che capiranno in pochi. Piccolo capolavoro.

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ETICHETTA: Universal
GENERE: Rap italiano, alternative rap

TRACKLIST:
1. Nessun Dorma
2. Tutti Dormano
3. Chi Se Ne Frega della Musica
4. Il Dito Medio di Galileo
5. Sono Il Tuo Sogno Eretico
6. Cose Che Non Capisco
7. Goodbye Malinconia (ft. Tony Hadley)
8. La Marchetta di Popolino
9. La Fine di Gaia
10. House Credibility
11. Kevin Spacey
12. Legalize the Premier (ft. Alborosie)
13. Messa In Moto
14. Non Siete Stato Voi
15. La Ghigliottina
16. Ti Sorrido Mentre Affogo

Torna con il quinto full-lenght Michele Salvemini, uno dei veri geni della musica italiana che rischiano, tutt’oggi, di non essere capiti e di essere considerati dalla mediocre critica i “soliti alternativi finto-comunisti”. La verità è che, come dimostra di nuovo in questo Il Sogno Eretico, Caparezza è l’unico rapper italiano che, dopo aver raggiunto il successo, continua a comunicare qualcosa, permettendosi magari di proseguire con quella corrosiva miscela di rap, rock ed elettronica, aperta a contaminazioni di ogni tipo, che lo contraddistingue da due dischi a questa parte, puntando comunque soprattutto sulla genialità delle sue liriche.

Stavolta nella confezione troviamo sedici tracce, di cui le prime due, in pura tradizione “caparezziana”, sono semplici incipit, che servono in questo caso a comprendere una delle nozioni che sta alla base di questo disco: non solo l’eresia del titolo, ma la schizofrenia del Caparezza-artista, concetto che porterà fino alla fine dell’album in una sorta di crescendo che si conclude con la folle “Ti Sorrido Mentre Affogo”.
Analizziamo questo disco dal punto di vista letterario: l’abilità di scrittura di Michele è sempre stata ottima, dimostrando e confermando progressivamente sempre più la sua capacità di rimare e incastrare giri di parole incredibilmente sottili sia sul piano del significante che del significato, non disdegnando espedienti retorici o fonici che senz’altro un esperto di linguistica noterebbe più di un ascoltatore medio. Le tematiche sono sempre le stesse del disco precedente, Le Dimensioni del Mio Caos, mischiando politica italiana, cultura generale “pop” e vita personale dell’artista, sviluppando così delle vere e proprie cavalcate rap che quasi nessuno si può permettere di fare come fa lui, e questo lo dobbiamo, per forza, ammettere.
Il primo singolo è la splendida “Goodbye Malinconia”, ballata anni ’80 dedicata all’Italia, con riferimenti alla “fuga dei cervelli” e alla rovina, effettivamente già avvenuta, del nostro paese, aiutato, nel ritornello, da Hadley degli Spandau Ballet, ospite perfetto per un brano del genere. Altro momento perfetto dal punto di vista commerciale è “Legalize the Premier”, reggae ballad che farà senz’altro scintille nelle date del buon Capa, mirata ad un target di pubblico che è lo stesso di molte band punk e reggae italiane (Alborosie, che infatti sono ospiti, Skardy, Sud Sound System, Punkreas, ecc.), con un ritornello che è un vero e proprio inno e un testo incredibilmente facile da memorizzare e cantare. L’approccio easy-listening porta Caparezza ad osare un po’ troppo con le basi ballabili, quei synth quasi techno che sentiamo in “La Fine di Gaia”, ottimo brano sulla bufala del 2012 che riprende per struttura “Abiura Di Me” e forma un’eccellente combinazione rock insieme a “Messa In Moto”, quest’ultima, però, leggermente meno efficace.
Un altro brano dal ritornello molto radiofonico è “Chi Se Ne Frega della Musica”, probabile futuro singolo, che parla dei problemi di una discografia che bada più all’immagine che al contenuto. Tema particolarmente caro a Caparezza, che citerà talent e reality show (es. “House Credibility”) anche altre volte all’interno di altri episodi. Il brano-manifesto del disco è “Il Tuo Sogno Eretico”, al primo ascolto uno dei pezzi più fragili insieme alla graffiante filippica “La Marchetta di Popolino”, ma con un impianto veramente molto “epico” che solleva un testo a suo modo troppo autoreferenziale per gli standard di Caparezza.
Il miglior brano a livello letterario è l’incredibile requisitoria contro la politica italiana, “Non Siete Stato Voi”, veramente una delle più belle mai scritte da Caparezza. Sconvolge, infine, la genialità nell’inventare una canzone come “Kevin Spacey”, vero e proprio inno al cinema (ma al contrario, spoilerando i finali di tutti i film più celebri) che difficilmente si dimenticherà: ascoltare per credere.

Per la forte qualità evocativa, questo disco, si potrebbe definire una filippica satirico-surreale. Ghigliottine, Andrea Doria, Sindona, citiamo e accostiamo di tutto e di più purché la finalità sia quella di desarrollar, come direbbero nella penisola iberica, concetti che arrivino a tutti con qualche riserva, perché dobbiamo pur ammettere che l’intelligenza con cui alcuni paragoni, metafore e similitudini sono costruiti ne riduce sensibilmente il target.

Facendo un bilancio, musicalmente questo disco perde terreno rispetto all’approccio rock che sembrava voler prevalere in Le Dimensioni del Mio Caos, costringendosi ad inserimenti elettronici che, a volte, sembrano un po’ forzati., seppur contribuiscano a rendere il disco sostanzialmente il più completo della sua carriera. In realtà la qualità delle basi è ancora in via di miglioramento, con alcuni espedienti che soprattutto dal vivo funzioneranno benissimo, sia per la resa tecnica che per il coinvolgimento emotivo e fisico del pubblico. I testi sono, come già dicevamo, perfetti dal punto di vista della costruzione e le tematiche di Caparezza continuano ad essere sviluppate con sagace coerenza e capacità di analisi. Il tema dell’eresia, che si concretizza citando anche personaggi come Giordano Bruno e Galileo (“Il Dito Medio di Galileo”), è forse piuttosto debole rispetto all’impianto molto godibile del disco, che mette in fila una serie di aspre critiche ma sempre con quel paragone a figure dell’immaginario culturale nazionalpopolare che le rende più “divertenti” che “piccanti”.
In ogni caso, questo disco è veramente l’essenza di quello che Michele Salvemini, come artista, può proporre nel duemilaundici, una straziante e malinconica visione del nostro paese dagli occhi di uno dei più brillanti musicisti che quest’ultimo ci può offrire.

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Uno secret show, annunciato pochi giorni prima e senza dichiarare il nome della band che suonava. Ma è troppo tardi: tutti sanno di chi è Wow!, e quindi il locale si riempie, oltre le sue capacità. Si perché l’Apartaménto Hoffman è un bel locale, adatto ad atmosfere intime, concerti acustici o qualche trovata underground, però andare a stipare 400 persone in uno spazio che ne contiene 80 di cui 40 non vedono il concerto perché il palco è praticamente interrato forse è stata una scelta “un po’ troppo” azzardata.
Detto questo, analizziamo la serata. I tre bergamaschi arrivano, con il quarto uomo proveniente dalla sua esperienza con il “vincitore morale” di X Factor Nevruz (che suona più del previsto), per circa 90 minuti di concerto che spolvera quasi tutto il disco nuovo, senza risparmiarsi qualche sporadica capatina dentro Requiem (“Canos”, “Non Prendere l’Acme, Eugenio” e “Muori Delay”, le ultime due eseguite magistralmente, la prima con qualche piccolo qui pro quo strumentale). Le nuove canzoni in concerto rendono benissimo, forse complice una varietà di sound che trova terreno fertile nei live: un problema forse sorge, e cioè l’apprezzamento del pubblico. La critica ha già dimostrato di trovare Wow! perfetto sotto ogni punto di vista, dichiarandolo già disco dell’anno o comunque una piccola perla, mentre il pubblico si divide, e le performance dei Verdena con questo esagerato numero di brani al piano che presentano un’atmosfera più soffice, spaccheranno l’opinione degli ascoltatori nella stessa maniera.
In realtà, bisogna ammettere che le canzoni nuove rendono ancora meglio dei pezzi di Requiem e Il Suicidio del Samurai, fiore all’occhiello della produzione verdeniana, e in particolare quelle più lente, suonate con una furia incredibile soprattutto da Roberta e Luca, hanno una resa che non si può definire se non altro che con il termine “aggressiva”. Fiumi di delay, poche distorsioni, tantissimi cambi di tempo che comunque si riconducono ad un set molto limitato di “mosse” alla batteria, e tante canzoni dal nuovo disco (praticamente tutto). Le migliori? Facile, “Scegli Me”, in apertura, “Loniterp”, semplicemente brutale, “Attonito” e “Badea Blues”.  Strumentalmente perfette, creando anche un’atmosfera contemporaneamente tesa e rilassata, riescono a proporre un set incredibilmente vasto, vario e, in sintesi, il concerto definitivo dei Verdena. Mancano all’appello i brani più blasonati (per fortuna), ma qualche sorpresa dai vecchi dischi (ad esempio “Onan”, oppure “Centrifuga”), ci sarebbe stata benissimo no? Il volume estremamente alto dentro il nuovo fiore all’occhiello della live music coneglianese si rende complice dell’ottima riuscita della performance, nonostante il rintronamento che naturalmente ne deriva. Il fonico fa comunque un ottimo lavoro, garantendo il sound perfetto.
Per definirlo ricorreremo, infine, all’etichetta full immersion, nella musica dei lombardi e anche nel sudore dei presenti. Lo ripetiamo per scrupolo, come invito al locale: vi prego non chiamate mai più band così famose all’Apartaménto Hoffman. Ne va dell’udito e della salute delle persone.

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