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Archive for the ‘GENERE: Garage Rock’ Category

ETICHETTA: Dischi Soviet Studio
GENERE: Garage, indie rock

TRACKLIST:
Figlio Illegittimo di Kurt Cobain
Apridenti
Retromania
12 Giugno
Il Nostro Paese Diviso in Due
Dr. Lennon
La Partita di Calcetto Infrasettimanale
Tasche Piene
Smaltire tra le Scimmie
Aiutaci Matteo
Scheletri Nascosti

Il primo full-length dei padovani MiSaCheNevica giunge così, di nuovo, come l’ottimo primo EP, per Dischi Soviet Studio, a segnare una svolta nell’ormai immobile scena veneta. Rispetto alla prima produzione, Come Pecore in Mezzo ai Lupi cambia passo e si fregia di un incedere più nineties e di sonorità più taglienti, garage e, in generale, più sporche. Il baricentro si è spostato, evidentemente, dai testi alla confezione intesa come un tutt’uno di ciò che suonano i tre musicisti, non intendendo, con questo, che le liriche non siano di grande qualità. Le parole del frontman Walter Zanon sono, di nuovo, intrise di una vivace ironia, in grado di mettere alla berlina molti dei luoghi comuni delle attuali generazioni sempre troppo impegnate a riconoscere la superiorità di quelle passate, incapaci di astrarre dal particolare e di trovare nuovi percorsi da inseguire. Il risultato, testualmente parlando, è superbo, e cerca la decadenza con spirito costruttivo riuscendo a destrutturare molte delle banalità dette da molti musicisti italiani con una caparbietà nel perseguire un messaggio che rende impossibile non riceverlo (Il Nostro Paese Diviso in Due, Figlio Illegittimo di Kurt Cobain), non tralasciando neppure venature di appariscente critica sociale e attenzione a tematiche più “serie”, come ben nasconde una delle canzoni più riuscite del disco, La Partita di Calcio Infrasettimanale. La nuova direzione, sicuramente più congeniale ad una certa urgenza comunicativa che la band non cela mai, lascia a margine le pur sempre percettibili influenze più brit in salsa alternative di Suede, Belle & Sebastien e Manic Street Preachers, ripescando da Pavement e Wire linguaggi senz’altro più ruvidi, nell’approccio chitarristico, e marziali in quello ritmico. Il livello del songwriting è in linea con il passato, pertanto la qualità è assicurata.

C’è poco da aggiungere quando si ascolta un disco così ben concepito e realizzato. In Veneto la musica coi coglioni esiste ancora, basta solo saperla cercare e ascoltare. Sarà una delle uscite del 2013, perlomeno nell’Italia settentrionale.

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ETICHETTA: Outside Inside Records, Wild Honey Records
GENERE: Garage, folk

TRACKLIST:
1. Behind the Trees
2. You Are The Reason for My Troubles
3. In The Meanwhile
4. Rain Is Digging My Grave
5. Don’t Talk To Me
6. You Don’t Give a Shit About Me
7. Yesterday is Dead and Gone
8. Feet in the Hole
9. Long and Lonesome Day
10. Ghost Story

Dove la melodia dello storico folk e rock americano (Bob Dylan, Bob Seger e la sua Silver Bullet Band) incontra i the Kinks e trasforma questo miscuglio in un country dal sapore garage e con forti inserimenti blues, nascono i Mojomatics, duo veneziano attivo da anni con numerosissime uscite discografiche qualitativamente molto buone (svariati EP e tre full length). Dentro You Are The Reason of My Troubles c’è tutta la cultura del jingle da cantare, del coro da stadio e del fraseggio facile da ricordare, esportata in questo mondo fatto di linee vocali e di chitarra pesantemente orecchiabili, non disdegnando neppure qualche stomp blues da saltare con tutta la forza che si ha in corpo, come la splendida “Feet in the Hole”. Sixties e seventies tornano alla ribalta con questa band dal sapore vintage, che si ripopola brano dopo brano di elementi dell’immaginario collettivo di quegli anni, dai Beach Boys ai Beatles, dai Byrds agli America. Il gusto per la semplicità dà corpo a brani veramente molto coinvolgenti, da subire in maniera piuttosto fisica sul piano live (“Her Song”), ma anche a ballad più sdolcinate e dotate di una vena malinconica à-la Crosby & Nash (“You Don’t Give A Shit About Me”).
La tendenza generale dell’album è quella di suscitare allegria, di creare l’atmosfera più adatta a divertirsi sotto il palco. Si danza, si canta e si riflette poco, l’importanza dei testi è marginale mentre sono chitarre e ritmiche a farla da padrona.
I Mojomatics non sono e non saranno mai la next big thing  ma con questa quarta uscita si confermano alfieri di questa scena garage rock che se non ha conosciuto un vero revival nei decenni scorsi lo sta senz’altro conoscendo negli ultimi tre. Le band di qualità, però, scarseggiano e a fare da contraltare a questa carenza c’è la sincerità e la genuinità di questi due veneti, che in giro per l’Italia stanno confermando quanto delle buone radici salde nel mondo del folk e del blues d’oltreoceano possano servire anche a creare dischi dove l’anima conta molto più della tecnica e dell’originalità. Ottimo lavoro.

TOUR 2012:
30.03 – AMIGDALA THEATRE, Trezzo sull’Adda (MI)
31.03 – INTERZONA, Verona
05.04 – BACK TO BEAT WEEKENDER AT JACOBS, Bergen (NORVEGIA)
06.04 – SPAZIO 211, Torino
07.04 – SONAR, Siena
12.04 – SURFER JOE’S DINER, Livorno
13.04 – CSO RIVOLTA, Marghera (VE)
20.04 – TIPOGRAFIA, Pescara
21.04 – KAREMASKI, Arezzo
27.04 – LOCOMOTIV, Bologna
28.04 – MAGNOLIA, Segrate (MI)
01.05 – HANDMADE FESTIVAL, Guastalla (RE)
05.05 – LOCANDA ATLANTIDE, Roma
18.05 – HONKY TONKY, Seregno (MB)
19.05 – APARTAMENTO HOFFMAN, Conegliano Veneto (TV)
24.05 – HANCOCK INTERNO 24, Cagliari
08.06 – SOUND VITO, Legnago (VR)
09.06  – VINILE 45, Brescia
21.06 – BACKGROUND NOISE FESTIVAL, Mestre (VE)
22.06 – WHITE TRASH, Berlino (Germania)

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ETICHETTA: Mexican Standoff Records
GENERE: Garage rock

TRACKLIST:
1. The Worst Is Yet to Come
2. The Getaway
3. Saturate
4. Indifferent
5. Walk Out That Door
6. Failure and Disaster
7. Static
8. Bunny Ears
9. Untitled
10. That’s Life
11. The Target

E’ arrivata l’ora del disco di debutto per i Silver Rocket, versatile formazione ferrarese che da qualche tempo imperversa on stage nei micro e macro-festival veneti ed emiliani, ma non solo. Old Fashioned, alla luce di precedenti esperienze d’ascolto live della loro prima produzione, è il loro punto d’arrivo, l’essenza di ciò che da sempre vogliono suonare: un garage rock assolutamente spietato, semplice e d’impatto, senza sgretolarsi in linguaggi complessi e spogliandosi di cliché punk e alternative rock che hanno portato al fallimento molti altri progetti analoghi. Punk e alternative, dicevamo, generi che frammentariamente ritroviamo lungo tutta la durata del disco (“Failure and Disaster”, “That’s Life”) , a ricordare da dove deriva il loro sound, sebbene fortemente allacciato a tentennamenti loureediani (“The Worst Is Yet to Come”), tensioni del primo glam di Bowie e Eno, ma anche degli Who (“Walk Out The Door”), con le evoluzioni post-punk del percorso Joy Division-New Order che non si devono, giustamente, dimenticare (“Indifferent”, “Static”, “Saturate”).
Tralasciando l’autocompiacimento di alcune sezioni più banali (“Bunny Ears” e “Untitled”), in generale Old Fashioned è un lavoro che nella dichiarazione d’intenti del suo titolo spiega tutto il perché del suo esistere: scandagliare retrospettivamente un insieme di scene tra loro connesse che nel termine “garage” trovano la loro definizione migliore. Noi in Italia questo genere non lo sappiamo suonare, e ancora meno ascoltare, ecco perché c’è bisogno di gente con le idee chiare come i Silver Rocket per imparare a riscoprirlo.

Un lavoro ben suonato, a suo modo originale, maturo e fresco. Peccato che sfiorirà presto, nella mente degli ascoltatori, conoscendo la mediocrità del listener italiota. Spudoratamente underground.

SITO UFFICIALE
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PROSSIME DATE
04.12.2011 Zuni, Ferrara
16.12.2011 Covo Cub, Bologna (with Versailles)

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Recensione pubblicata anche su IMPATTO SONORO
ETICHETTA: MadMan Records
GENERE: Post-punk, indie

TRACKLIST:
1. Apatica
2. Cravatte e Cucchiai
3. Solite Illusioni
4. Il Tuo Segreto
5. Canali e Spirali
6. Orano
7. Madre Universale
8. Plexiglass
9. Il Doo
10. Schiava

Rimpasti di indie, post-punk, frangenti più propriamente punk e soporifere ballad neo-post-qualcosa. I Violaspinto si presentano, più o meno, con una di quelle formule snob-pasticcio che ci piacciono poco, ma, per fortuna, lo fanno con un certo decoro.
Scartato il pacchetto e tentato il primo approccio critico privo di pregiudizi, troviamo effettivamente la vera natura di questa formazione lombarda: un’anima rock puramente garage, con velati riferimenti al punk più classico che ritornano sia a livello di sound che di strutture dei brani.
Non è facile capire perché, oggi, così tante band si stiano dando a queste soluzioni così “spinte”, eterogenee e che viaggiano ai mille all’ora contromano rispetto alla “pulizia del sound” che sembra essere una moda degli ultimi tempi: è proprio questo che definiamo più spesso “garage”, al giorno d’oggi, focosa e sfocata tendenza a sporcare i suoni, distorcere l’indistorcibile e ammorbidire poi il tutto in pretenziose ballatine dall’anima nineties. Beh, sembrerebbe proprio che Indivenire non mi sia piaciuto, ma non è così. Analizzando con una certa debolezza metafisica questo disco, mi sono venute in mente corse in autostrada che poi si arrestano, nervose, al pagamento del pedaggio, smielose dichiarazioni d’amore, amarezze alimentari che non si possono mandare giù. Beh, una specie di “piano-forte”, “dolce-amaro”, “agro-dolce”, un gioco delle contrapposizioni che nonostante prediliga quasi sempre gli aspetti più “duri” delle coppie antitetiche, fa sentire il peso di entrambe. Lo si sente in “Plexiglass” e “Apatica”, tra le più cariche, e poi in “Il Dono” che, insieme a “Il Tuo Segreto”, rivela la natura più (melo)drammatica, sentimentale e romantica della loro musica, per certi versi definibile come un indelicato tentativo di struggere l’ascoltatore con testi pseudo-poetici che verranno apprezzati soprattutto da fan di band molto “alterate” dal punto di vista letterario, come Verdena, Afterhours e Marlene Kuntz, diciamo quelle più classiche per noi degli anni zero, ma che comunque presentano sempre una stesura dei testi piuttosto impalpabile. Esercizi di scrittura, a volte, sembrano portare a riflessioni di natura molto intimistica (la sezione-reading di “Madre Universale”), mentre l’estatico alternarsi di roboanti distorsioni e dolci stacchi melodici culla l’ascoltatore al punto da creare, dopo qualche ascolto, una sensazione di distensione capace di rilassare e, contemporaneamente, spronare il listener a continuare la sua esperienza con i Violaspinto.
Strumentalmente la band se la cava anche se viene, qualche volta, penalizzata da alcune sviste alla produzione (che comunque si caratterizza per un certo morboso legame autoreferenziale al genere proposto dalla band, così come lo sa suonare). Per il resto, il disco è piuttosto completo e segnala la presenza di una formazione valida e che, con un minimo di personalità in più, presenta già evidenti tracce di una maturità che non tarderà ad arrivare.

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ETICHETTA: La Tempesta
GENERE: Punk, garage rock

TRACKLIST:
1. Realtà Cercami
2. Vesciche In Guerra
3. Il Cattivo Tenente
4. Facile Bersaglio
5. A Gambe Levate
6. Meglio Insabbiare
7. La Legge del Più Debole
8. Così Inguaiarono La Piramide
9. Nella Giungla
10. Soffiata
11. Sangue d’Africa

“Spa-spa-spa-spara alla gente”. E già hai capito di cosa parlano. Anzi no.
Gli Smart Cops si presentano così al pubblico, con un uniforme che li identifica fin da subito, entrando quindi IMMEDIATAMENTE in contatto diretto con l’ascoltatore che, come sempre, assorbe prima l’immagine che il contenuto. Per Proteggere e Servire, pubblicato da La Tempesta Dischi, è un disco fresco, dall’indole punk, il sound garage, l’anima che esplode di carica contestatrice. Al giorno d’oggi, visto che è un termine che va molto di moda, sarebbero etichettati dal premier come “dei poveri comunisti”. E io aggiungo: per fortuna che i gruppi continuano a seguire una certa tradizione politica, altrimenti la musica fallirebbe. Alcune volte dovrebbero preoccuparsi di seguire anche uno spirito “d’innovazione”, ma come vedremo di qui a poco, l’originalità in questo disco esiste talmente poco che ne delimita un target ben preciso, diventando di per sé un pregio dell’album stesso.

P.P.e.S. si presenta con una veste molto semplice: brani veloci, potenti, distorti, abbastanza corti in durata, in linea con la più classica tradizione garage punk. In alcuni momenti stai bellamente godendoti un’edizione italiana dei Ramones, ovviamente qualche decennio dopo (quindi con i dovuti aggiustamenti a livello di arrangiamento e scelta di suoni), in altri il tutto si sporca di indie rock molto melodico (“La Legge del Più Debole” mi ricorda i momenti più punkeggianti dell’esordio degli Arctic Monkeys o degli Strokes). Una cosa è certa: questi testi, a volte quasi truculenti (“Facile Bersaglio”), quasi sempre critici (“Il Cattivo Tenente”, “Meglio Insabbiare”, “Cosi Inguaiarono La Piramide”), hanno una caratteristica fondamentale per ottenere la giusta chiave di lettura dell’intero disco, cioè il nome del gruppo. Smart Cops, questo nome che potrebbe essere campato in aria ma che può anche essere una giusta antitesi in un paese dove i carabinieri sono famosi più che altro per le barzellette, e dove le forze dell”ordine sono quello che sono; Smart Cops, che è il giusto modo di criticare una categoria (e una società) sempre più basta sull’ordine militare, che esclude la meritocrazia per dare spazio alle gerarchie e alla sudditanza. Nei brani se ne parla, in una maniera a volte simpatica, a volte cruda, sempre con molta attenzione alle scelte lessicali. Musicalmente c’è poco da notare: punkettone da pogo sfrenato, mai un momento di stop, ritmi quasi sempre uguali, tutti espedienti che servono molto bene allo scopo comunicativo del disco.

Che dire, La Tempesta Dischi vince sempre, anche stavolta: un disco che molti troveranno più godibile di quello che in realtà dovrebbe essere. A noi sono piaciuti, freschi e perlopiù veneziani (più o meno come noi), cosa pretendere di più.

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ETICHETTA: Mia Cameretta
GENERE: Garage

TRACKLIST:
1. Beans
2. You’re Driving Me Insane
3. Waiting For The Summer End
4. 13een
5. I’m A Jerk
6. Hard Times
7. Helloweed
8. Me And You
9. Arizona

Avete mai sentito parlare di “garage pop”?
Mi è venuto un po’ voglia di mettere da parte il mio odio per le etichette ascoltando “Two Monkeys Fight for A Banana”, un po’ perché il termine “genere” indica una tipologia di classificazione che non sempre è appropriata a un pezzo d’arte come può essere un disco (e in questo caso, invece lo è), un po’ perché anche il genere mi ha indotto a riflessioni pseudo-filosofiche che, per fortuna, non mi va di condividere con voi.
Garage pop, dicevamo. Essenzialmente sono questo i Super Burritos, formazione veneta che stupisce per il suo piglio volutamente (ed esageramente) rock’n’roll vecchio stampo, incorporando una sorta di cattiveria che trova nel termine “garage” la sua espressione e descrizione più intensa e completa, con un minimo di ambizione che si esterna nelle sostenutissime ritmiche di brani come “Arizona” e “Me & You”, che di pop, effettivamente, hanno molto poco, vista la carica incredibilmente sixties che dimostrano.
A chiedersi cosa c’è di pop in un disco così si rischia di farsi del male, perché è solo così che spalanchiamo un varco nella carena della nave, imbarcando non solo acqua ma anche le tanto temute note dolenti: le voci troppo fiacche che ricordano l’indie rock di oggi, quello meno intensivo e meno specificamente rimarchevole per qualcosa che sia distintivo; le strutture dei brani, queste si, davvero pop, che ricordano di certo rock anni ’60 che non si fa certo apprezzare per l’originalità (essendo stato, peraltro, imitando talmente tanto da affossare anche le prime spudorate uscite pop/rock dei Beach Boys). Ok, avete letto questa parte e pensate che il disco mi abbia fatto schifo, e io, dopotutto, vi capisco: in realtà i Super Burritos si rendono protagonisti di un effervescente tentativo di resuscitare un genere che si è autoingerito e digerito, fino a distruggersi, non più riconoscibile in quella vera anima che solo negli USA degli anni ’60 è riuscita a far danzare la gente senza risultare gesto rivoluzionario di controcultura. Oggi, diremo che stiamo parlando di omologazione a vecchie virtus d’insorti e anticonformisti, ma non è così; questi vicentini ci mettono l’anima, ascoltate “I’m A Jerk”, “Helloweed” e la combo iniziale “Beans” e “You’re Driving Me Insane” e capirete.

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