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Archive for the ‘ETICHETTA: Domino’ Category

Recensione a cura di Andrea Marigo

ETICHETTA: Domino
GENERE: Rock, pop

TRACKLIST:
Do I Wanna Know?
R U Mine?
One for the Road
Arabella
I Want It All
No. 1 Party Anthem
Mad Sounds
Fireside
Why’d you only Call Me When You’re High?
Snap Out of It
Knee Socks
I Wanna Be Yours

Probabilmente qualcuno potrebbe definire questo sesto lavoro degli Arctic Monkeys come  il lavoro più completo ed esaustivo della band di Sheffield.
No.  Per me non è così.
Gli Arctic devono ancora farlo il “loro” disco, ci sono andati vicini più  volte, ma ancora non è questo, non fosse che AM parte abbomba con le prime 4 tracce, per poi afflosciarsi su di se.

Do I Wanna Know? è un gioiello di essenzialità, R U Mine? è una bomba, One for the Road ed Arabella si somigliano molto soprattutto per quello che concerne la parte ritmica, (anche se questʼultima riserva un bel riff molto Black Sabbath) parte ritmica che diventerà ripetitiva in diverse tracce tra lʼaltro.
Da qui in poi, tutto il disco prosegue alla ricerca di unʼessenzialità sonora inedita per Turner e soci.
Ripeto la parola essenzialità volutamente perchè a forza di cercare lʼessenziale ci si è giocato un album intero a mio avviso, brani come la conclusiva I Wanna Be Yours o Why’d You Only Call Me When You’re High, che presi singolarmente sarebbero anche ottimi pezzi, alla lunga (ma anche dal terzo ascolto) fracassano le palle nellʼinsieme del disco.
La ballata No.1 Party Anthem e la beatlesiana Mad Sounds, altri buoni brani ascoltati a random, in questa tracklist alla fine smosciano.
E poi sto falsetto in continuazione? ebbasta!

Detto ciò AM in sè racchiude 12 brani buoni, con una produzione molto curata, ma siccome un album va valutato nellʼinsieme io dico: mezza delusione, il loro miglior lavoro rimane ancora Humbug.

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ETICHETTA: Domino
GENERE: Indie pop, synth-pop

TRACKLIST:
1. Lion’s Share
2. Bed of Nails
3. Deeper
4. Loop The Loop
5. Plaything
6. Invisible
7. Albatross
8. Reach a Bit Further
9. Burning
10. End Come Too Soon

Destrutturare un impianto costruito e istituito con la delicatezza di uno scultore di cristalli non è certo un lavoro semplice. Soprattutto se era davvero fatto di cristallo.
Essenzialmente, ascoltare Smother significa trovarsi di fronte all’involuzione decisiva nella carriera di una band che ha fatto del pop un terreno da esplorare in maniera visionaria ed estetica. Abbandonandosi alle più caustiche delle scosse metaboliche, procedimenti che si intersecano tra loro senza volerlo creando un intreccio di art, synth e alternative pop come da tempo non se ne sentiva. Sempre con le dovute riserve.

Smiths & co. avevano lasciato un segno incancellabile nelle uscite discografiche precedenti, ma i Wild Beasts hanno pensato bene di mandare prematuramente in pensione le chitarre graffianti e tipicamente indie che hanno sempre caratterizzato il lato grintoso e vivace del loro sound, per trarre in inganno l’ascoltatore più mediocre con un impianto più melenso e pop, accelerando la rincorsa agli ingredienti che mantengono, salde, le redini delle classifiche sempre più spopolate. Ma scostando la porta socchiusa che cela la verità, si scopre che non è così: Smother è tutt’altro che commerciale, e svela scintillanti soluzioni romantic pop che protendono i propri fasci neuronali verso un rock energetico ma privo dei suoi aspetti più visibili. Mancano distorsioni possenti, componenti esageratamente ballerine, stereotipi indie e cantati da gorgheggiare come forsennati nelle popolari fashion disco da post-live degli ultimi anni: rimane il forte senso di evocazione e riflessione emanato dagli strumenti più particolari inseriti in questo lavoro, partendo dal glockenspiel per finire con il dulcimer e le pulsazioni elettroniche più intimistiche. Più art di così, non troverete granché.

Con perle di alt pop come “Albatross”, soporifera quanto seducente, e “Deeper”, rimasuglio di vecchie prostrazioni Talking Heads ma rigiocata in un ambito più moderno e radioheadiano, non si può certo parlare di dietrofront. Il passo in avanti c’è stato, forse con una falcata troppo poco ampia, ma si parla pur sempre di un disco di grande qualità. Maturo e completo.
Prova del nove al prossimo turno.

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ETICHETTA: Domino
GENERE: Indie rock, alternative

TRACKLIST:
1. She’s Thunderstorms
2. Black Treacle
3. Brick By Brick
4. The Hellcat Spangled Shalalala
5. Don’t Sit Down Cause I Moved Your Chair
6. Library Pictures
7. All My Own Stunts
8. Reckless Serenade
9. Piledriver Waltz
10. Love Is A Laserquest
11. Suck It And See
12. That’s Where You’re Wrong

“Suck It And See” ha già fatto discutere per il suo titolo, offensivo per gli americani, simpatico per gli inglesi. A fare chiarezza ci ha pensato anche Turner, ma a noi questo interessa relativamente: gli alfieri dell’indie rock del ventunesimo secolo, il revival del post-punk nato addirittura dai social network, hanno già dimostrato di voler cambiare sound con il precedente, mediocre ma fresco, Humbug, dal quale sono già trascorsi due anni. Sotto l’occhio vigile di Josh Homme, si profilava nelle scelte sonore della band un background stoner e grunge, che questa volta si ripropone, acutizzato in alcuni momenti, più pacato e sommerso in altri.
Sostanzialmente non c’è niente di originale o di nuovo dentro Suck It And See, un disco più pop/rock, leggero, catchy, interessante dal punto di vista radiofonico, ma forse un po’ meno da quello prettamente musicale; sono presenti, come dicevamo, momenti più stoner che sembrano i Black Sabbath meno doom con il sound modern British, a partire dal singolo “Don’t Sit Down Cause I Moved Your Chair”, alla più criptica “Brick My Brick”. Dai simpatici testi delle due citate, si passa anche a ballad strappalacrime che vantano ben pochi legami con i primi due dischi, più ballerini e festaioli, delle scimmie artiche: la title track e anche “Black Treacle”, danno la giusta dimensione di questa scelta di direzione, ma le reminiscenze beatlesiane che già introducevano certi eleganti momenti in Humbug rimangono in “Piledriver Waltz”, che poi già si era sentita nel disco da solista del frontman.

Le scelte pop fanno la loro figura, inquadrate in un contesto rock tipicamente inglese (Oasis, Beatles e Black Sabbath i punti di riferimento forse anche troppo evidenti) che si pone degli obiettivi concreti, in bilico tra la volontà di sfondare ancora nelle classifiche come agli inizi e fare qualcosa di “diverso”. Questa seconda sfida non sembra facile da vincere, ma la strada imboccata è quella giusta: anche Humbug sembrava l’ultimo capitolo della loro carriera, quello che ne prefigurava la fine, e quindi questo Suck It And See diventa un disco da rivalutare, stupefacente perché supera ogni aspettativa, regalando anche la possibilità di prospettare qualcosa di ulteriormente buono per il futuro. Sul resto, non si può certo gridare al miracolo e aspetteremo le versioni live, dove gli Arctic Monkeys davvero non hanno mai deluso.

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