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Archive for febbraio 2014

Intervista a cura della nuova collaboratrice Laura Piombi

Il 13 Marzo 2014 esce il loro nuovo disco “LEBENSWELT (il mondo della vita)”. Un disco della band perugina (o quasi) La Madonna di MezzaStrada, un disco che si preannuncia essere un album molto interessante.

-Siete una band pura o il progetto si sviluppa più attorno ad un’unica persona (quella che scrive le canzoni per intenderci)?

Il progetto era nato come duo acustico poi la svolta elettrica, due chitarre basso e batteria, poteva considerarsi una band pura. Tuttavia le canzoni sono state scritte da me (Fabio Ripanucci) musica e testi, l’arrangiamento poi era farina del sacco di Luigi Del Bello (chitarra solista), Fabrizio De Angelis ( basso) e Simone Sensoni (batteria). Il primo disco, “CANTICHE”, poteva considerarsi il disco di una vera e propria band. Poi però La Madonna di MezzaStrada fu completamente rivisitata.

Potrei quasi dire alla Flaubert che: “La Madonna di MezzaStrada c’est moi”. Ma senza le scelte stilistiche degli altri che godono di piena libertà negli arrangiamenti, non sarei La Madonna di MezzaStrada. Suono con amici/musicisti che oltre al sostegno tecnico dell’esecutore danno anche il sostegno umano dell’amicizia e della condivisione di una passione così forte come la musica.
-Da quanto tempo suonate insieme? Quando avete debuttato?

Io e Fabrizio suoniamo insieme dal 2008. Poi nel gruppo sono entrati a fa parte Damun Miri Lavasani (tastiere e sint), Luca Papalini (violino) e Michele Turco (batteria). Il primo concerto fu nel 2008 con la vecchia formazione, eravamo un quartetto. Poi per un periodo un trio che ci permetteva di suonare anche in piccoli locali, poi di nuovo un quartetto e infine e definitivamente un quintetto con tutte le difficoltà di trovare serate.

-Cosa fate nella vita a parte suonare?

Io sono laureato in filosofia e faccio l’istruttore di nuoto principalmente, per arrotondare il cameriere; Fabrizio è grafico ma al momento è senza lavoro; Damun è prossimo alla laurea in medicina ma anche lui senza lavoro; Luca da questo punto di vista è il più fortunato ha un lavoro con un vero contratto di lavoro ed è un tecnico dell’enel, quelli con la tutta blu e le righe arancioni; Michele è il più anziano del gruppo e purtroppo anche lui dopo vent’anni ha perso il lavoro. E’ proprio una pessima congiuntura storica da questo punto di vista, fortuna la musica.

-Cosa vi aspettate da questo secondo album?

Siamo soddisfatti di come è uscito il disco, era proprio quello che volevamo. Speriamo che ci dia più visibilità e che ci permetta di suonare in giro per l’Italia il più possibile. Ma questo è l’effetto traversale. In realtà le dinamiche che danno vita ad un qualsiasi progetto artistico sono più complesse e così anche più complesse sono le speranze che nutre. Sarei un idiota se dicessi di fare dischi solo per poter suonare in giro. C’è molto di più in gioco. LEBENSWELT (il mondo della vita) è la mia interpretazione del reale nel quale ci sono io stesso con tutto il mio essere; è insieme “io” “il mondo” e “la vita” in forma musicale.

-A chi vi ispirate?

A nessuno in particolare o almeno in maniera diretta. Sicuramente c’è da dire che l’influenza della musica che ascoltiamo gioca un ruolo di rilievo nel momento compositivo. Però penso che il limite di un artista sia proprio quello di cercare un punto di somiglianza con l’arte di un altro artista che apprezza, o anche cercare di collocarsi all’interno di un genere preciso. Io sono molto più soddisfatto quando il brano nato non riesce a farsi capire; somiglia a tizio, sembra caio… No! Sembra solo La Madonna di MezzaStrada.

Come ho detto le influeze però ci sono, siamo musicisti e amiamo la musica, ne ascoltiamo tanta, ed è normale che quello che ascoltiamo riemerga trasfigurato nel momento compositivo; così come quello che leggo riemerge poi nei testi. La letteratura mondiale e la filosofia occidentale appaiono continuamente nei miei testi, a partire dal nome dell’album.

-Voi vi siete autoprodotti giusto? C’è un’etichetta in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Si ci siamo autoprodotti. Non ne conosco molte di etichette è un vero e proprio calderone attualmente quello della discografia. Ce ne sono talmente tante che viene difficile individuarne di interessanti. Attualmente stiamo collaborando con La Fame Dischi del nostro amico Michele Maraglino che ci da una mano con la promozione… Poi in futuro si vedrà.

– Cosa pensate dell’attuale scena indipendente italiana? Quali gruppi italiani vi piacciono?

Tanta musica, troppa musica per un paese così piccolo. Molte proposte interessanti, ma anche tante cose inutili. Noi siamo affezzionati ai gruppi storici italiani come Marlene Kuntz, Afterhours, Massimo Volume, Diaframma. Ma oltre ai “big” ci sono interessanti artisiti che stimolano.

– Dove possiamo vedervi live?

Attualmente stiamo cercando diverse date nel centro Italia ma non ho l’ufficialità. Prossimamente faremo un breve live acustico al bar Chupito di Perugia il 16 marzo all’interno di una rassegna organizzata da La Fame Dischi per festeggiare l’uscita della seconda compilatione “Le canzoni migliori le aiuta la fame vol. 2°”.

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Saggio a cura di Claudio Milano. Il saggio include anche informazioni sullo show di presentazione tenuto il 5 Aprile 2013 all’FOA Boccaccio di Monza.

Etichetta: Vololibero Edizioni/BTF
Anno: 2013
Genere: Teatro musicale
Durata: 24’45”
Nazionalità: Italia

Formazione
Damiano Casanova / guitars
Franz Casanova / voice, keyboards
Andrea Dicò / drums, background vocals

Tracklist:
1 Danza Macabra (5:10)
2 La Pestilenza (3:35)
3 Il Ballo Mascherato (3:38)
4 Dodici I Rintocchi (5:43)
5 La Morte Rossa (1:58)
6 Dissoluzione Finale (4:37)
Contatti: www.myspace.com/ilbabauimaledetticretini; damiano.casanova@gmail.com; www.sirogarrone.it,

Voto: 8,5

Il concerto

Trovare il F.O.A. Boccaccio nell’iper-borghese Monza può essere un’impresa, sappiatelo. Che poi a condurvi lì vicino siano un’assurda coppia incontrata per strada, uno ultra-magro, l’altro obeso, il primo a parlare molto lentamente, l’altro in panico completo e alla guida, credo non capiti spesso. Salutati i due stralunati cocchieri probabilmente scappati dalle pagine di un booklet dei Massimo Volume, vengo immediatamente accolto da gente del Centro, assai gentile, che mi offre da mangiare e bere (non male eh?). M’imbatto presto con la band alla fine del soundcheck. Con loro, un’elegantissima Femina Faber, si discute a lungo, di due altri due dischi già pronti, di cosa io vedo nella loro musica, ma che nessun dei miei interlocutori pare conoscere, il che mi predispone anche meglio, annuso autenticità. A seguire performance cyberpunk con bolle di sapone (!), un’ora d’attesa e un paio di birre perché il concerto abbia inizio. Ovunque, per il Boccaccio, splendidi murales, sul soffitto è talmente bello da far sembrare il posto, un’autentica Cappella Sistina neo-espressionista e primitivista.

Poi il Babau dà suono al suo concerto.

Un trio che dispensa atmosfere lisergiche-ipnotiche (come per incanto mi rivedo vent’anni prima al Leoncavallo nell’ascoltare gli Ozric Tentacles), con suoni di tastiera analogici ma con riferimenti post-rock, assoluta l’originalità della proposta che si presenta con una fantastica intro dilatata e intervento di canto gregoriano di Femina Faber, sul palco con pergamena e maschera. La vocalità dell’artista, mezzo-soprano di gran lirismo e colore, è straordinaria, a seguirla in osmosi, gli interventi misurati della band a creare inedite fusioni tra il percorso dei Dead Can Dance e dei Popol Vuh di “Hosianna Mantra”.

Poi, la presentazione dell’album. Suoni naturali riprodotti in tempo reale, crescendo ritmico, assoluta intesa musicale. Un suono capace di accontentare tanto i seguaci dell’indie rock, quanto gli estimatori delle avanguardie nuove e antiche.

Eccezionale il contributo ritmico netto, deciso di Andrea Dicò (incredibile come l’assenza del basso non sia minimamente percepibile). Notevole intervento di teatro danza con bellissimi costumi, qualcosa di surreale, completamente distante da qualsiasi cosa possa accadere fuori. Il recitativo di Franz Casanova, anche alle tastiere, ha grande potenza comunicativa, la chitarra elettrica di Damiano Casanova disegna linee reiterate quanto efficaci, quasi ragnatele a sostenere l’intero impianto musicale. Torno a casa felicemente stordito.

Il disco

Parole d’ordine, ancora, teatro e visione, immediatamente dichiarati con l’opener “Danza Macabra” e riproposizione di belati onomatopeici a rendere una dimensione fortemente pastorale sostenuta da campanacci e un cristallino arpeggio di acustica. La ritmica marziale che ne segue dà enfasi, appoggiandosi ad un’elettrica dal suono sporco e marcatamente sixties. Così anche le tastiere, minimali ma come detto, analogiche. Tutto assai retrò ma gestito in maniera meticolosamente descrittiva e più che fiabesca, (come nella tradizione “progressive”, rinnegata di fatto solo da certo Rock in Opposition e qualche sparuto esempio) da cartoon direi. E’ proprio questa caratteristica che fa del Babau, qualcosa di “altro”. Ascoltarli è come sfogliare un fumetto di pregio, dove è solo lo scenario a presentarsi talvolta “antico”, ma mai la sostanza, essenziale, minimale quanto compiuta.

Con il secondo episodio, “La pestilenza”, ancora onomatopee, i readings di Franz Casanova sono fascinosi come pochi nell’impiego delle corde vocali false ed accentuata iperventilazione nell’aspirare aria quasi a voler consumare il fiato di chi ascolta. A sostenerlo una meravigliosa litania sussurrata dai cori di Dicò, abilissimo nel colorare di sfumature percussive assortite il variopinto quadro speziato di ossessione per il sublime neo gotico. Fiabe per adulti svezzati, ma anche per bambini educati alla consapevolezza.

Chi l’ascolterà all’estero avrà idea di un disco che affianca la tradizione di dischi come “Concerto delle Menti” dei Pholas Dactylus, i dischi dei Fiaba, quel “De la Tempesta l’oscuro Piacere” degli Aufklärung che tanto fece parlare di sé nei primi ’90 e soprattuto “Trans Vita Express (Racconto Psicofonico dall’Aldilà)” di Marcello Giombini, in una tradizione avant folk gotica, ben espressa in “Il Ballo Mascherati”. Paul Roland ne sarebbe davvero invidioso, lo sentisse di sfuggita. Chi l’ascolterà in Italia invece, non potrà non trovare elementi di quella teatralità incantata di Alessio Bonomo (chi lo ricorda a Sanremo con “La Croce”, Fausto Mesolella alla chitarra e video di Oliviero Toscani?), felicemente riemersa con Vito Antonio Indolfo degli AcomeandromedA, più apprezzata nella ben più banale (e dunque leggibile a forza di sottotitoli in bella evidenza) teatralità di Tre Allegri Ragazzi Morti e Teatro degli Orrori. Questo è si indie performativo, ma di lusso…

E’ sempre in presenza del racconto che la musica si fa irresistibilmente fascinosa, in “Dodici i Rintocchi” con impianto rumoristico di percussioni, sostenuto da un’efficace elettrica in reverse, bordone di synth, analogico of course. Splendido momento che collassa direttamente nella successiva “La Morte Rossa” e “Dissoluzione Finale” compendio ben più mesto a chiudere in modo inquieto (fantastici qui gli effetti su piatti, cassa – quasi grancassa – e voci).

L’intero racconto, o “fonodramma”, come sottolineato dalla band, va ascoltato d’un fiato, lungo i 24 minuti che lo definiscono. Non un EP, per carità, una performance non si definisce sulla base della durata, ma sulla base del suo essere compiuta e questo lavoro è assolutamente compiuto. Si può scegliere o meno di farsi suggestionare dalle meravigliose tavole di Siro Garrone che accompagnano il libro accluso come in una globale manifestazione felliniana traslata in un cupo Ottocento, oppure, di goderne a sé, perché i semi della visione sono parte attiva e costituente del suono, ma bisogna avere l’oggetto per assaporarlo, annusarlo, viverlo come in un teatro a portata propria e gelosamente esclusiva di ogni senso. Assoluto rispetto anche al Dr Mattia Scheller per aver investito nel progetto, non solo in termini di produzione, ma anche con una bizzarra quanto godibile prefazione e alla produzione artistica di Roberto Rizzo.

Per chi scrive, il disco italiano più interessante dello scorso anno assieme al triplice atto dei Deadburger. Ecco, una sola cosa mi resta da dire, che pur trattandosi di una fiaba noir, nel racconto del Babau, questo Poe, fa paura lo stesso tanto più suona come strana metafora dei giorni nostri…

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Luci spente a Sanremo
ovvero,
la farsa di chi vuole raccontarci che la bellezza non è un martello ma uno specchio.

C’è passato chiunque. Direttamente da altri lidi e con esibizioni non meno che memorabili, tanto in positivo che in negativo: Louis Armstrong, Ray Charles, Madonna, Peter Gabriel, David Bowie, Antony, Kula Shaker, Skunk Anansie, Rufus Wanwright, Dee Dee Bridgewater, Whitney Houston, Cat Stevens, Placebo, Elton John con Ru Paul (!), Phil Collins, Jamiroquai, Rod Stewart, Bruce Springsteen, i Blur, Jimmy Page & Robert Plant, i R.E.M.. Ma ancora Dire Straits, Queen, Kiss, Van Halen, Depeche Mode, Paul McCartney, Def Leppard, George Harrison, INXS, Joe Cocker, Paul Simon, The Smiths, Barry White, Grace Jones, Asaf Avidan, Caetano Veloso, Marianne Faithfull, Shirley Bassey, Dionne Warwick e qualcuno di loro si è persino prestato al gioco della “gara” (Graham Nash in gara con gli Hollies…).  Contrariamente a quanto si è sempre raccontato, i cantautori, non ne sono stati poi così distanti: Dalla, Battisti, Battiato, Modugno, Paoli, Tenco, Gazzè, Samuele Bersani, Finardi, Avion Travel, Roberto Murolo, Cocciante, Jannacci, Rino Gaetano e laddove non sono arrivati i piedi è arrivato l’inchiostro: De Gregori, Fossati, Conte, solo per fare qualche esempio, oppure la più serena possibilità d’essere ospiti: Bennato, Baglioni, Venditti, Luciano Ligabue.
Ennio Morricone c’è transitato trasversalmente come arrangiatore.
Si sa, ci sono state le grandi voci, soprattutto: Mina, Milva, Mia Martini, Alice, Giuni Russo, Elisa, Petra Magoni, Antonella Ruggiero, Giorgia ma anche i timbri “di carattere”: Carmen Consoli, Patty Pravo, Mannoia, Vanoni, Amalia Grè, Malika Ayane, Loredana Bertè, Rossana Casale.
Platea per il beat nostrano (Ribelli, Equipe 84, Rokes, Giganti), è stato campo di battaglia per urlatori: Al Bano, Claudio Villa, Renga, Anna Oxa, Fausto Leali, ma anche per l’art rock: Elio e le Storie Tese, Quintorigo, Le Orme, Delirium e per il post punk dei Decibel e Denovo.
Certo poi ci sono stati i “fenomeni di massa”: Celentano, Zucchero, Vasco Rossi, Ramazzotti, Pausini (e tra gli ospiti Duran Duran Vs Spandau Ballet, Take That Vs Spice Girls) ma per arrivare a un pubblico più esteso hanno avvicinato quel palco anche Afterhours, Marlene Kuntz, Bluvertigo (assieme a tutta la scena electro pop dei ’90, dai Soerba a La Sintesi ai Subsonica) e poi il jazz con Stefano Di Battista, ma se includiamo anche gli ospiti, Bollani, Danilo Rea…
Cos’è oggi questa mostruosità nei riguardi della quale Enzo Biagi e Pier Paolo Pasolini hanno lanciato anatemi? Cos’è questa cosa attorno a cui girano milioni di euro in tempi in cui “un giorno dopo l’altro” arrivano notizie di suicidi per crolli economici? Questa cosa dove ci si gioca la carriera, dove si va per dimostrare che si sopravvive, in politica, in spettacolo, in qualche modo… Una cosa assai seria. E seriamente ne tratterò.
Sanremo è l’ultimo, disperato avamposto S.I.A.E., una delle poche possibilità per il monopolio di alcune label di tirare i remi in barca in piena crisi, ma anche e proprio per questo, in una nazione così pigra come la nostra e disposta esclusivamente a lasciarsi indottrinare da un suono che attraversa senza (apparentemente) lasciar traccia, un ritrovo voyeurista attorno ai pochi pregi e ai tanti difetti del nostro nevrotico e scoraggiante “essere/apparire/sperare d’essere riconosciuti a guisa di una proiezione ideale di sè”.
Si, perché nulla di nuovo al di fuori di piccoli ricamini attorno ad una forma canzone secolarizzata è stato fin qui possibile, se non, grazie anche ad un signore di nome Fabio Fazio che importanti cortocircuiti rese possibili nelle prime edizioni da lui condotte, portando sul palco gente come i già citati Avion Travel, Quintorigo e il contestatissimo Fabrizio Moro di “La Croce”.
A Sanremo, come nel paese del “che rimanga tra noi”, piccoli cambiamenti sono possibili, purché piccoli siano, ma capaci di sedimentarsi nelle coscienze (ma quel cortocircuito dell’apparizione dell’allora band di John De Leo fu grande e pari la vittoria degli Avion Travel quanto quella “Croce” che si, era out of contest, ma davvero “contro”). Nell’Accademia di canto dove il sottoscritto ha insegnato a Monza negli scorsi anni, Antony e Asaf Avidan erano improvvisamente diventate “le” Voci da seguire e il cui carattere imitare e non certo per via di quello che noi insegnanti “passavamo” come messaggio ai ragazzi, ma come quello che loro portavano a noi. Un miracolo di “mamma TV”, ma di quelli benvenuti.
Mi chiedo dunque, quale peso possa avere un’edizione penosa come quella appena passata.
Per carità, Fazio ha centrato l’obiettivo appieno portando sul palco dell’Ariston un grandissimo Rufus Wainwright, con un’esecuzione da brivido di “Cigarettes and chocolate milk”, ma il pubblico (ridicole contestazioni a parte) non se l’è rifilato di striscio preferendo alla sua classe e a quella della direzione d’orchestra agilissima di Diego Matheuz con la Filarmonica della Fenice, un Renzo Arbore da siparietto, incapace di far ridere, banale, volgare. Ma non era questo Festival un omaggio alla bellezza?
Il monologo della Littizzetto, quanto quello di Crozza han fatto luce sulla questione, facendo sorridere, ridere, riflettere, ma si sa, la commedia imperversa e domina solo laddove gli imperi si sfaldano e non è certo bastato un Cat Stevens, duro e puro, maudit illuminato e commovente a riparare l’imbarazzo, trasformato in autentico terrore, davanti alla performance di una Franca Valeri che grande è stata, un tempo, ma… tant’è e non ci si può far più niente, duole dirlo.
La bellezza può trasformarsi in cenere, che onesta è, ma anche in uno specchio impietoso e vedere la Carrà che balla cantando delle idiozie mai udite prima non è neanche divertente, è terrorismo puro. Saperla a cavallo di una motocicletta a ricevere il testimone da Piero Pelù mi toglie il sonno, per favore fermatela! La RAI chiude (apparentemente) le porte a Mediaset e niente giovani da Amici, per fortuna, ma di fatto X Factor con la presenza del “giudice” Arisa e Noemi a rappresentare “il testimone” passatole a sua volta da donna Raffaella (anche l’appello per i Marò?… E poi?) per The Voice, ha portato un adeguato tasso di autoreferenzialità e di musica davvero vecchia e brutta. Non solo, questo come nessuno, è stato il Festival delle voci che si cantano addosso, imbevute di raucedine come se un cattivo orco fosse passato a seminar polipi sulle corde vocali vere e a lasciar vive solo le false, spinte all’inverosimile nel tentativo di imitare, ad esempio, Mia Martini, mentre le dita si rifiutano di suonare le note giuste di un piano, almeno loro, a dire “Noemi, per carità fermati anche tu, che non basta un viaggio a Londra a farti interprete”. Ma mica solo lei, ah no!  Si è dovuto aspettare Gino Paoli per ascoltare un interprete non vero, di più, con un impagabile Danilo Rea al piano. Per commuoversi, senza urla e merletti appresso ad una secchissima versione di “Vedrai, vedrai” e una ancora più bella di Umberto Bindi, “Il nostro Concerto”. Questa è classe che vive ancora, è bellezza, ma c’è bisogno anche di nuovo, c’è urgenza di nuovo per non affondare nella difesa della memoria anche quando è diventata stantia, maleodorante. E’ invecchiata anche la grande Ruggiero (Battiato scriverà mai qualcosa per lei? Una vacanza dalla penna ingiallita di Colombo non potrebbe che giovarle regalando classe su classe). L’ex Matia Bazar, dopo un’esibizione davvero scadente nella prima serata, terribilmente legata, attenta all’impostazione, si è saputa ricollegare all’anima e regalare una versione incantevole di “Una Miniera” dei New Trolls (come dire, tutto in famiglia, appunto…) assieme ai tablet dei Digiensemble Berlin. Il pezzo che ha portato in finale è cresciuto di sera in sera, ma l’arrangiamento… Tutto in famiglia ancora con Ron e la sua versione superba (davvero uno dei picchi dell’edizione) di “Cara” di Lucio Dalla e ancora tutto in famiglia con Cristiano De Andrè. Nella sua idea di bellezza sempre più chiara in quanto a “specchio”, Fazio, non ha mai negato la sua preferenza per un brano del Festival, quell’ ”Invisibili” di De Andrè Jr, a cui è andato, com’era ovvio, il Premio Sergio Bardotti come miglior testo e anche il Premio Mia Martini, ma che in quanto a musica … (un caso che la sigla del Festival fosse un brano di mamma Dori Ghezzi, con Wess? Tutto in famiglia, appunto). Il meglio che Cristiano ha fatto al Festival è stato cantare, alla stessa maniera del padre, “Verranno a chiederci del nostro Amore”, commovente, certo, ma davvero poco, anche se nessuno credo gli porterà via un Premio Tenco quest’anno, al quale, s’è detto, verranno dati più soldi dopo il rischio chiusura e che ormai dubito questo benedetto specchio di cui continuo a parlare potrà infrangere. Si, perché non basta “fare” i cantautori per esserlo, non basta “fare” i cantanti per esserlo, bisogna prima “essere” e il fare arriva naturalmente e nessuno ci ridarà De Andrè padre, nessuno ci ridarà Tenco, anche se il Premio a lui dedicato viene dato a “Baccini canta Tenco” (bah…), che monumento a quello specchio di cui sopra è e rimane. Ma il nuovo, accidenti, dov’è? Ad ascoltare i cantanti in rassegna sembra di essere ad un programma di Carlo Conti dove ognuno imita qualcuno e Conti imita sé stesso, ebbene, qui i cantanti recitano ciascuno il proprio ruolo senza lasciare trasparire un minimo di emozione vera, questa è imitazione di bellezza, ma la bellezza ha bisogno solo di manifestarsi, anche quando è buio profondo ed è sgradevole a guardarsi come un danzatore (Dergin Tokmak) che sfida il suo handicap volando sulle stampelle, punto. Ma non bastasse, ebbene si, ci sono anche gli imitatori di altri! Raphael Gualazzi che a sentirlo sembra Pino Daniele ad esempio, nonostante il brano portato in finale, sia a mio avviso il più centrato della rassegna (dopo “1969” di The Niro, comunque superiore) grazie all’accoppiata con un divertente e capace The Bloody Beetroots a cui molto auguro in termini di fortuna. Dovendo votare il brano opterei per un sufficienza piena, notevole arrangiamento e gran coro gospel, bel ritornello, quasi un Battisti americano in salsa techno. Curiosa la rilettura di “Nel blù dipinto di Blù” con Beetroots, ohps, “Sir Bob Cornelius Rifo”, questo il suo “non pseudonimo”, (qualcosa mi dice che il ragazzo, di solida formazione classica, possa conoscere Sir Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno ed è un bene), felicemente anche alla voce e un Tommy Lee (!! Da non crederci, ma è Sanremo…) davvero impacciato nel dover tenere uno swing senza dover sfasciare i piatti (e conseguente occhiataccia di Gualazzi ad un bel solo di piano). Ma in quanto ad imitatori, non scherza la band di Rossano Lo Mele, il neo-direttore di Rumore, gloriosa rivista rock (fondata dall’altrettanto glorioso Vittore Baroni), i navigati Perturbazione che in questa chiave, sinceramente inedita, sembra emulare alla perfezione (e non è un merito) l’ironia colta quanto leggera di Max Gazzè, con una voce meno interessante e un violoncello solo a far scena/specchio. Ovviamente, Premio/specchio della Sala Stampa… che dire? Che quantomeno la band poteva fare a meno d’ammazzare De Gregori assieme a Violante Placido. Le band si sciolgono e ci lasciano in eredità i cantanti, perché così, in tempi di crisi si risparmia a fare un tour ed eccoci qui, dopo il crollo di Giovanardi dei La Crus nel 2011, eccoci ancora con l’ex Timoria Renga e il suo birignao (lontani i tempi di “Sangue impazzito” eh?) a massacrare Bennato con Kekko (si, proprio così) dei Modà a colpi di urla, mentre Francesco Sarcina (ex le Vibrazioni) non resiste alla tentazione del “selfie” durante tutte le sue esibizioni… una pippa no? (No non mi riferisco ad Arisa, per carità!) Sarebbe stato più istruttivo. C’è spazio anche per Riccardo Sinigallia, in passato strettamente legato ai Tiromancino che viene eliminato per aver cantato il suo brano in una sagra (ma cos’è? Dietro Sanremo ci sono anche i Servizi Segreti?). Dolcissimo come sempre, l’autore porta brani assai intimi, quasi respingenti, che sarebbe il caso di tornare ad ascoltare anche in merito ad un coraggiosa rielaborazione di “Ho visto anche Zingari Felici” del grande Claudio Lolli, con al seguito Marina Rei e Paola Turci. Ma comunque vi prego, qualcosa di nuovo… E questo qualcosa non è la pur piacevole leggerezza di Giuliano Palma, nè tantomeno il celebrato Renzo Rubino. Un mix tra l’ironia svenevole di Denovo (che probabilmente non sa neanche chi siano), con un cantato nazional popolare desunto dal maestro elettivo Modugno. Comico il mod0 di aggredire pianoforte, corde vocali e brani quasi a voler superare l’inconsistenza dei pezzi. Ecco lui, pur nella mancanza di riferimenti culturali che non siano istituzionali e nell’essere così “povero”, sembra abbastanza vero da poter durare e diventare una star italiota, ma non chiedetemi di riascoltarlo, per favore. Centra appieno e con eleganza assieme a Simona Molinari “Non arrossire” di Gaber. I giovani? Rocco Hunt e “a Gennar cc’ avut ‘o criaturo” e pescivendoli assortiti, mamme e papà in lacrime? Ma vaff… Il premio della critica a Zibba, in virtù di che non s’è capito? C’era, l’ho anticipato prima, un pezzo che ad ascoltarlo davvero, lontano dal carrozzone avrebbe ben figurato, ma che nessuno ha neanche avvicinato. Quel “1969” di The Niro, che ha portato una coraggiosa ventata baroque pop, con arrangiamento di gran classe, per niente scontato (la cosa migliore ascoltata in assoluto e un bel 7’5 pieno), testo d’interesse e bella voce da controtenore appena offuscata da una presenza scenica non felicissima in un mondo dove l’immagine è tutto. Per lui dov’erano la “Giuria di qualità” e la “Sala Stampa”? La struttura davvero semplice dei pezzi di questa edizione, la mancanza di sostanza che li ha accompagnati, l’ossessiva ricerca del “ritornello felice e della personalità rimarcata a pieni sottotitoli” (Stromae incluso), pur con confezioni sonore spesso di gran prestigio ha rimandato agli anni ’60, ma in un periodo storico in cui l’intrattenimento leggero sembra un paradosso.
In qualche caso l’arrangiamento diventa così “nobile” da far sorridere, c’era proprio bisogno di cercare eleganza con un clarinetto ad anticipare le strofe del brano di Arisa?
C’è da dire che quando non sostenuti da ritmi incalzanti non si è distinto un pezzo dall’altro, ma tanto poi saranno le tante radio figlie delle lobby (ormai in misura più o meno maggiore, TUTTE, radiozine a parte) a martellarci per un anno con queste miserie fino a renderle “classici”. Si, perché defunto il Festivalbar, non rimane altro specchio su cui arrampicarsi e le label con denaro da investire ben lo sanno, per la gioia della S.I.A.E., dei suoi massimi contribuenti ed eredi. Si, perché molti lettori non sanno che per ogni disco venduto, per ogni passaggio televisivo e radiofonico, solo una minima percentuale entra nelle tasche di autori e arrangiatori, il resto viene diviso tra quelle dei massimi contribuenti, intesi come “fidelitari” e dunque Celentano, Mina, Ramazzotti, Pausini, Zucchero, Bocelli, gli eredi di Modugno. Ogni volta che acquistate un disco dei Deadburger, dei Massimo Volume, di Kurai, Butcher Mind Collapse, ma anche degli Ulver, di Scott Walker, dei Current 93, i vostri soldi finiscono nelle tasche dei signori prima nominati e così è SEMPRE Sanremo, nei vostri cd dei Metallica c’è un fantasmino della “Signora di Lugano”, sappiatelo!.
Gentile Fazio, perché tale sei, tu che ti lamenti del sentirti dare del “buonista” e reagisci dicendo che ti sei “rotto le palle”, sapessi noi! Vuoi fare un Sanremo che attragga? Fa qualcosa di nuovo e accetta che partecipino al TUO Festival anche (non dico “solo”. Il fenomeno napoletano strappalacrime, la canzone per le casalinghe e quella per i bimbiminchia te li lasciamo) i musicisti che non hanno alle spalle etichette con migliaia di euro a disposizione e che la giuria di “qualità” non sia composta al 50% da starlette e nella sala stampa figurino webzine e radiozine attente alla musica a 360 gradi. Su 20-30 canzoni non potremmo sentirne una di indie non renziano? Una metal (ho detto una bestemmia)? Una avantgarde (solo una, su! Anche tuoi amati Beatles, hanno scritto “Tomorrow Never Knows”)? Una di hip hop non contaminato da populismo da seconda elementare? Una dark, psichedelica, progressive, punk, elettronica, folk, grunge, post rock, di jazz vero, baroque pop (grazie ancora The Niro), dubstep, impro… guarda i generi te li trovi in rete e se hai bisogno di qualcuno che ti passi dei nomi scrivi al caporedattore di una webzine a caso, ti farà uscire dal tuo mondo dorato per farti capire che la bellezza da te tanto decantata è viva e vegeta in Italia quanto nel mondo e può far veramente male.
Non abbiamo nulla da invidiare a nessuno in questa nazione in quanto a creatività, ma quelli come te sono un’offesa a chi ogni giorno fa fatiche indicibili in ambito musicale per pagare l’affitto, perché quello che manca è visibilità e tu hai il POTERE (dichiarato da te stesso a “Che Tempo che fa”) di darla. Perché tu, ne sei consapevole, in tempi come questi, non c’è più spazio per chi fa ricerca vera, quella gente di giorno fa il cameriere e di notte scrive ed è un delitto. Perché anche l’indie è ormai un “vorrei ma non posso” e un faretto puntato addosso alle microlabel e le piattaforme di crowdfunding, certo mostrerebbe che la maggioranza di loro sono associazioni culturali nate per spillar soldi, che aggirano come possono la S.I.A.E., ma che almeno un po’ di freschezza la porterebbero. Perché dunque, è tristissimo dirlo, ma più passa il tempo più si assottiglia il margine tra mainstream e musica “alternativa” in ossequio al Dio Denaro e non si può più relegare il “caso” Sanremo in un angolino, visto che fra un po’ non ci resterà null’altro che omologazione sonica in questo Paese.
Perché a Sanremo c’è scappato il morto e un altro stava per arrivarne nel ’63, lo stesso che tu hai invitato quest’anno a celebrare i trapassati per stento, quel Paoli che scrisse “Ogni suicidio è diverso, e privato. È l’unico modo per scegliere: perché le cose cruciali della vita, l’amore e la morte, non si scelgono; tu non scegli di nascere, né di amare, né di morire. Il suicidio è l’unico, arrogante modo dato all’uomo per decidere di sé. Ma io sono la dimostrazione che neppure così si riesce a decidere davvero.” Beh, quell’uomo poi di scelte ne ha fatte, dimostra tu di poter decidere di far meglio, piantandola di fare il verso a Baudo, dal quale tanto diverso non dimostri di essere. Si può ridere con l’Aria di Leporello cantata (bene, quasi benissimo) da Crozza, ma qui c’è gente che del “Voi/Germania prendete la Maestosa/Italia, a noi rimane la Mafiosa/Italia”, non riesce a ridere con compiacimento e darebbe volentieri indietro l’intero lotto dei presenti all’Ariston, ricchi spettatori/presenzialisti, giuria “di qualità” e “sala stampa” inclusi.
Non basta raccontare la storia dell’“omosessuale” Michelangelo per parlare di bellezza, vogliamo vederla sui palchi, perché la bellezza in arte è una luce che sposta quello che gli altri hanno tracciato, un passo più in là e può dare anche fastidio, ma se non le si dà spazio, muore, punto.
Chi come voi Fazio e Littizzetto, ha lo scettro per decidere a chi dar spazio o no e mostra il vecchio, senza saperlo è complice diretto di un continuo e vergognoso assassinio del quale volente o no DEVE rendere atto.
Così come la bellezza, “l’arte non è uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo” affermò con convinzione Majakovskij e ci ricordarono gli Henry Cow di “In Praise of Learning”.
In attesa che si faccia davvero luce su chi ha passato un lettino di denaro salvagente a proteggere un volo di due operai, che non ci sarebbe mai stato, ogni risposta è gradita, anche quella di una Luciana Littizzetto, che, si, dice cose intelligenti e tiene in piedi da sola baracche, ma ancora non s’è capito da che parte stia.
Ossequi.

Qui la mia e-mail: nichelodeon@gmail.com
Attendo.

Lunedì 24 Febbraio 2014
Claudio Milano

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Saggio a cura di CLAUDIO MILANO

Band: Deadburger Factory
Titolo: La Fisica delle Nuvole
Etichetta: Snowdonia
Genere: Avanguardia
Anno: 2013
Durata: 33:19 / 28:32 / 37:37
Nazionalità: Italia

Formazione:
Alessandro Casini – chitarra, vibroplettri, graphics
Vittorio Nistri – elettronica, tastiere, manipolazioni sonore
Simone Tilli – voce, tromba
Carlo Sciannameo – basso

e con:
Pino Gulli, Ivan Broccardo, Giovanni Prosdocimi, Irene Orrigo, Odette di Maio, Paolo Ciotti, Giulia Nuti, Viola Mattioni, Enrico Gabrielli, Giorgio Saviane, Marinella Ollino (Lalli), Jamie Marie Lazzara, Simone Petri, Mario Fani, Emanuele Fiordellisi, Enzo Scalzi, Nicola Vernuccio, Nicola Cellai, Massimo Giannini, Paolo Benvegnù, Emanuele Fiordellisi, Giulia Sarno, Marina Mulopulos, Tony Vivona

Tracklist:
CD 1 – Puro Nylon:
1. Madre
2. Variazioni su un Campione di Erik Satie #1: Re
3. Variazioni su un Campione di Erik Satie #2/3: L’Inganno/Il Poeta
4. Oltre
5. Obsoleto Blues
6. Variazioni su un Campione di Erik Satie #4: Ciò Che la Pelle Spiega
7. In Ogni Dove
8.  Ancora Più Oltre

CD 2 – Microonde/Vibroplettri:
1. La Mia Vita Dentro il Forno a Microonde
2. Strategia del Topo
3. Magnetron
4. Micronauta
5. Il Dentista di Tangeri
6. Cuore di Rana
7. Dr Quatermass I Presume
8. Arando i Campi di Vetro

CD 3 – La Fisica delle Nuvole:
1. La Fisica delle Nuvole
2. Amber
3. Bruciando il Piccolo Padre
4. Cose Che Si Rompono
5. Wormhole
6. Il Mare E’ Scomparso
7. Deposito
8. C’è Ancora Vita Su Marte

Contatti: http://www.deadburger.it/band/?page_id=5 ; http://www.snowdonia.it
Voto: 8,5

Prologo:
Era Febbraio 1998 (il disco non era stato ancora pubblicato ufficialmente), quando mi sono imbattuto per la prima volta con una produzione Snowdonia, grazie a Dario Antonetti, degli allora Kryptasthesie. La doppia compilation si chiamava “Snowdoniani Baccelloni Invadono Megaton 4”. Da allora la curiosità per l’etichetta Snowdonia mi ha accompagnato giocosamente, fino al capolavoro dei Maisie “Balera Metropolitana”. Oggi, c’è del nuovo, merita grandissima attenzione ed ha un nome: Deadburger Factory.

(Alla domanda “Come vorrebbe morire?”)
Da vivo.
(Antonio Moresco)

Non è un caso che questo lavoro sia presentato tra le pagine del libro accluso con una citazione del più grande scrittore italiano contemporaneo (assieme all’ indimenticato Matteo Galiazzo), autore di quei “Canti del Caos” (Mondadori, 2009) che tanto hanno fatto discutere per la capacità di centrifugare idiomi più di Raymond Queneau, in salsa acida alla Louis- Ferdinand Céline e non è un caso che la citazione sia proprio quella ad aprire questa recensione, perché quest’opera che di vita e morte, transizione, passaggio, istanti addentati con ferocia e gustati con fame vera tratta, ha il gusto di un testamento.

In un’epoca in cui tutto viene consumato con distrazione, lasciando che gli stimoli ci accolgano lateralmente, come per inganno, le canzoni lunghe un giorno dei Flaming Lips e opere come “Have One on Me” di Joanna Newsom, hanno aperto una nuova strada, quella che obbliga ad usufruire lontano da un mp3 low-fi e un paio di cuffie su un bus mentre si va a scuola. E’ con gusto e consapevolezza che i Deadburger a questa strada fanno riferimento.

E’ con un capolavoro “1940/Madre” che il primo capitolo di questo triplo album, si apre, un brano, a sua volta tripartito con diretto riferimento all’estetica del ready made di Marcel Duchamp, giustamente associata al cut-up che da i primigeni esperimenti di Wyatt (The End of an Ear), Hammill (The Future Now), “My Life in the Bush of Ghosts” dell’accoppiata Eno/Byrne, fino al Beck di “Mellow Gold”, qui unisce readings ad elettronica, un arrangiamento per archi ad alto tasso emozionale. Ancora meglio però si sviluppa Variazioni su un campionamento di “Erik Satie#1:RE”, con archi ancora più ficcanti ed un reading ad opera di Paolo Ciotti che ti fa mancare l’aria. Tutto è perfetto qui e lo sono anche le parti 2 e 3 del brano, l’ultima con la voce di Giorgio Saviane che fa muovere corde emozionali anche spente. “Oltre” si muove con grazia “post tutto”, Lalli alla voce come non l’avevamo mai sentita e una coda di Nistri raccapricciante. Fa specie ascoltare quanto il collettivo sia capace di trattare una materia sonora di massima nobiltà con un fare minimalista che attinge tanto alla musica classica ed elettronica contemporanea che alle avanguardie rock più estreme, “Obsoleto Blues” sembra far ricorso quasi ad espedienti desunti dall’industrial dei Nine Inch Nails prima di schiantarsi in una coda finale tribal-psichedelica con la batteria di Pino Gulli in grande evidenza e le chitarre di Alessandro Casini ad incendiare anime adeguatamente ricettive. La Factory frigge il concetto di post-modernismo ed integra alla Romitelli, ogni cosa intraveda in un substrato inconscio di cultura globale collettiva, celebrando al tempo stesso morte e rinascita dell’estetica europea per come la si è intesa per decenni. Un disco come questo finalmente inizia a fare un po’ di luce in mezzo alle nebbie di un’estetica musicale italiana che ripete noiosamente e penosamente sé stessa dagli inizi degli anni ZERO, in attesa di un chissachè che è sempre stato qui e che non si è manifestato perché non si è mai avuto il coraggio, ma probabilmente neanche la cultura necessaria (ce ne vuole un’enormità in un mondo in cui a passare il tempo su internet tutto il giorno non basterebbe una vita per fruire di tutto quello che l’umanità ha prodotto e che ora è a portata di tutti) per muovere un passo verso il “nuovo” autentico. Ma ci vuole anche genio e questa gente ne ha a sufficienza da essere ignorata dai più e apprezzata da qualche salotto che non mancherà di associarli a “Massimi Volumi” e CCCP, senza neanche avere una minima dose di consapevolezza che anche quelli i loro precursori li hanno avuti eccome. Dal primo Battiato (tra i solchi di questi tre dischetti in qualche modo rievocato nel modo di assemblare i linguaggi, ma senza la stessa prosopopea e soprattutto un passo “oltre”), ad oscure band e oscuri personaggi che hanno attraversato l’Italia dagli anni ’70 (Pholas Dactylus, Marcello Giombini) ad oggi senza sosta (il mai dimenticato omaggio “The Beat Generation” con un grande Massimo Arrigoni ai readings, Federico Sanesi e Vincenzo Zitello), ai deliri di certi laboratori di fine ’60 (le performance di una tardiva – ancora una volta – beat generation, associata ai suoni “nuovi”, anche in Italia, che più di qualsiasi altra nazione grazie all’eco vicinissima dei lavori di Berio e Nono, ha lavorato alle manipolazioni di nastri magnetici, anche con quelle Stelle di Mario Schifano che meriterebbero “qualcosa” in più dall’esser considerati un oggetto per collezionisti). Qui c’è un omogeneizzato di cultura che supera il concetto di citazione ancora in atto col post rock di band anche grandi, grandissime come gli Aidoru e i Rosolina Mar, o i patchwork di Transgender e Mariposa (sarà un caso che tra questi solchi compaia un sempre più illuminato Enrico Gabrielli?). Un “Il Leonardo – Almanacco di Cultura Popolare” targato 2013, come la geniale impaginazione del libro accluso riesce ad evocare, tra “Forse tutti non sanno che”, foto al limite di un cyberpunk rivoltato in chiave patafisica e i disegni non meno che unici di Paolo Bacilieri, capaci nel loro immaginario di risultare iperrealisti anche quando portano lontano con la mente. Fascino immutato e lirismo oltre confini in “La Pelle”, con clarinetto di Mario Fani trasfigurato e orchestrazioni a muoversi dove i Rachel’s e gli Aranis non sono mai arrivati. Tinte jazz per “In Ogni Dove”, ma sempre con dosaggio alchemico, nelle spire della ispirata tromba di Enzo Scalzi e i rapidi fraseggi del piano di Nistri (chi ricorda i Bark Psychosis di “Hex” e i Talk Talk di “Laughing Stock”?), sinistri presagi d’archi a sottolineare uno scenario tra Lynch e Wenders e ancora Lalli alla voce, lontana anni luce da “giardini, pietre e relative numerologie”. Geniale la sospensione finale di marimba. In “Ancora più Oltre” compare anche il fantasma di un canto, il brano è scritto da Nistri con Lalli (qui dalle parti di Black Tape for A Blue Girl) e le corde di un contrabbasso sfregate da Nicola Vernuccio raggelano una melodia evocativa.

L’elettronica più estrema abbraccia attraverso sospensioni e improvvise accensioni la prima parte del secondo capitolo, la cui natura apparentemente concettuale (tutti i suoni sono stati ottenuti a partire da campionamenti tratti da un comune forno a microonde, acceso, spento, accarezzato, percosso e attraverso rielaborazioni in studio) viene trasfigurata da Vittorio Nistri in materia emozionale a la Burri. Un groviglio sonico industriale, che affascina senza risultare mai autenticamente sadico come nella tradizione del genere (Foetus). Solo appena un po’ prolissa “La strategia del Topo”, ma il resto non è meno che eccellente, con su tutto la stratificazione sonica di “Magnetron”, esempio di rumore bianco che trova in Maurizio Bianchi suo possibile padre putativo.

Ben altra materia a dar forma alla seconda parte del CD 2, “Vibroplettri”, realizzata dal chitarrista Alessandro Casini con chitarre, un bizzarro “stomp set” auto-costruito e plettri vibranti. Materia sonica ben più variegata nelle dinamiche, lucidamente psicotropa e radicalmente più “tagliente” (Dr Quatermass, I Presume). Un “Ballet Mecanique” per connessioni neuronali in stato di grazia ricettivo e rasoi affilati (Arando i Campi di Vetro).

Il terzo Capitolo riconduce alla dimensione acustica, o meglio, elettro-acustica del primo album, con band al completo e più marcato impiego di mezzo, archi, fiati, recitazione, a sostenere un impianto rock più tipico (chitarra, basso, batteria, tastiere). L’incipit di “La Fisica delle Nuvole” commuove fino alle lacrime, complice un testo che vìola senza retorica alcuna: “eccomi qua, a togliere merda da quasi ogni cosa” e “nessun dolore” a parlare di memoria, vuoto e malattia e l’abrasiva declamazione di Simone Tilli. Grazie. “Amber” è ferita dalle scariche della viola di Giulia Nuti e vede per la prima volta (e poi per il resto del disco) un cantato “tradizionale”, o meglio ben vicino alla tradizione italiana del recitarcantando che da Bene e Testa in poi ha tracciato un’intera schiera di “studi matti e disperatissimi” nell’impiego di false corde e suoni fischio. Da brivido il testo (che parla di mercificazione del corpo, intesa come status sociale, svalutazione del sé, malattia collettiva) e il solo di tromba conclusivo, anche questo appannaggio di un Tilli da encomio senza riserve. Splendido il trattamento sulle ritmiche di “Bruciando il Piccolo Padre”, probabilmente però, il brano meno interessante del lotto per la vicinanza assai dichiarata ad un indie rock ben metabolizzato, alla “Negrita in acido”. Non faccio fatica ad immaginare che questo dal vivo sia il pezzo cult della Factory. “Cose che si Rompono” vede Benvegnù alla scrittura e alla voce. Strepitoso Giannini a percussioni assortite ed ottima orchestrazione. Bene la linea melodica. Questo è indie nuovo, non se ne legge mai troppo facilmente il divenire, tanto negli slanci più fisici e sanguigni che nelle orchestrazioni più dolci, affascinante. Torna la poesia del primo brano con “Wormhole” e i suoi spasmi di Casini alla chitarra, Tilli alla tromba e Sciannameo al basso. Un’autentica meraviglia, tutta italiana, ma dal respiro assai vasto. “Il Mare è Scomparso”, trova un’orchestrazione da urlo che rievoca il Zappa esotico di “Hot Rats” e incontra nella teatralità del vocalese di Tilli una cifra stilistica tutta sua. Qui Gabrielli ai fiati è sensazionale, entusiasmano theremin e synth, ma tutto nel complesso non è meno che per-fet-to. Capolavoro assoluto dell’album e migliore brano italiano del 2013 per chi scrive, con una coda non meno che agghiacciante dopo tanta grazia. “Deposito 423” è diretta e ficcante quanto “Bruciando…” ma trova una poetica tutta sua, che solo nella vocalità e nelle ritmiche trova similitudine quasi impressionante (talvolta davvero le idee sono nell’aria) con un altro capolavoro assoluto degli ultimi anni, “Assurdo” dei Garden Wall dei fratelli Seravalle e William Toson. Davvero impagabili qui Nistri, Irene Orrigo al flauto traverso e Alessandro Casini alla chitarra acustica. Tantissima grazia ancora in “C’è ancora Vita su Marte”, melodia bellissima, bell’intreccio di voci tra Benvegnù, Giulia Sarno, Tilli (a kanzat kargyraajodel e screaming di tutto rispetto), bellissimi interventi di fiati di Gabrielli a rievocare i primissimi King Crimson, theremin in gran spolvero… ma… la chiusura con canto in inglese e immediata sospensione/cesoia, suonano come una piccola forzatura. Solo uno, tra i pochissimi peccati veniali dell’opera… perché di questo si tratta: un’Opera contemporanea. Poesia che evoca teatro, teatro che evoca musica, musica che evoca spazi, scenari….

E se vi dicessi di ascoltarlo tutto d’un fiato? Non sono mai stato a teatro per fruire di un’Opera in chissà quanti momenti diversi. Un’ Opera Contemporanea dicevo, in milioni di atti/“quanti”, che a livello mondiale in termini di schizofonia può avere (sulla base delle affinità che la mia mente, per entusiasmo e non per necessità effettiva, cerca, a pescare tra le proprie conoscenze) come referente un solo disco, quell’assurdo oggetto non identificabile che è “Kaddish” dei Towering Inferno. In un anno straordinariamente fortunato per la musica indipendente italiana come è stato il 2013, chissà che questo disco, che per il sottoscritto rimane e rimarrà una delle PIETRE MILIARI del nostro underground, non riceva il giusto e DOVUTO riconoscimento. Si, “Si muore un pò per poter vivere”, affermava Paolo Conte nel 1968. Che la rinascita sia rapida, perché la fame per il “nuovo vero” della Factory è già grande.

Da vedere: http://www.youtube.com/watch?v=GiOSHIjlygA

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Articolo a cura di Enrika S.A. Scream

ETICHETTA: Hopeless Records, Ambush Reality
GENERE: Post-hardcore, elettronica

TRACKLIST:
The Paddington Frisk
Radiate
Rat Race
Radiate (Shikari Sound System Remix)

Gli Enter Shikari sono una delle band più strane che potete sentire. Fanno un po’ di electro, un po’ di trance, un po’ di metalcore, e un po’ post-hardcore. Tutto insieme.
Il primo lavoro è del 2007 e hanno già pubblicato 4 EP e 3 album, uno più bello dell’altro.

“Rat Race” è l’ultimo uscito. E, da amante di questa band, vi dico: è fatto un po’ a caso.
Ma vediamo bene il motivo (anche se non c’è un granchè da dire…).
La prima traccia è “The Paddington Frisk”: l’apoteosi del niente. Già dal primo secondo ti esplode nelle orecchie; bello sì, finchè non ti riprendi e non ti rendi conto che è tutta una accozzaglia di suoni messi lì a caso, per far casino e basta. E allora che canzone è?!?!
Con ‘Radiate’ le cose si sistemano un po’. Se non altro, la canzone ha un senso. I cori accompagnano la voce in screamo, la clean precede un solo di voci bianche, o di quelle sembrano bianche. La canzone funziona piuttosto bene, è la migliore dell’album.
Bene, arriviamo alla title track. Da qui in poi torna a non avere senso nulla. Non c’è una continuità, gli strumenti suonano a casaccio, dal niente si passa da scream estremo a clean perfetta. Non capisco questi passaggi.
Come ultima traccia è posto un remix di “Radiate”; non so neanche come commentarla, perché si sente praticamente un solo suono e delle voci flebili. Solo la band sa da dove è uscita questa cosa. Personalmente, non l’avrei neanche inserita nell’EP.

Sono rimasta molto delusa dal lavoro: mi aspettavo una bomba, visti gli standard della band. D’altronde è quasi un anno che non usciva nulla di loro, qualcosa dovevano inventarsi.

Adesso non ci rimane altro che sperare in un album con i fiocchi.

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Saggio a cura di Claudio Milano

ETICHETTA: Charisma Records
GENERE: Avant Rock

TRACKLIST:
1. Lemmings (11:39)
2. Man-Erg (10:21)
3. A Plague of Lighthouse Keepers (23:04)

Bonus tracks sul CD remaster (2005):
4. Theme One (original mix) (3:15)
5. W (first version) (5:04)
6. Angle of Incidents (4:48)
7. Ponker’s Theme (1:28)
8. Diminutions (6:00)

Voto: 9,5

A volte non basta un aggettivo per dare nome a un volto.
Questo album di volti ne ha così tanti che a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione risulta impossibile metterlo a fuoco del tutto. Ogni analisi critica rischia di diventare dunque un anello essenziale per la sua identificazione, nessuna può essere considerata in alcun modo esauriente.
Come per Red dei cugini elettivi King Crimson, c’è ben poco della corrente approssimativamente definita progressive che possa contenerlo.
Di certo una cosa è chiara, che si tratta di un capolavoro e di un disco nato per essere tale.

In un’epoca come quella odierna in cui quasi nessuno incide con l’idea di lasciare un segno e l’uscita di un album ed il conseguente riscontro di critica non sono più minimamente sufficienti a garantire la diffusione dell’opera musicale, un disco come questo appare irripetibile. Oggi chiunque può scrivere di o fare musica e lo fa, senza avere alcuna competenza in materia, alcuna consapevolezza di ciò che è stato. Quarant’anni fa e per i responsabili diretti di questo piccolo-grande crimine musicale di nome Pawn Hearts le cose funzionavano ben diversamente. Lo afferma Iggy Pop in una delle sue più recenti interviste, se all’album pubblicato seguiva un adeguato riscontro, gli artisti avevano la chance di esibirsi, altrimenti questo non accadeva. Non bastava il miglior produttore, né adeguate distribuzioni e agenzie di booking (non erano nate, esistevano gli agenti come unici responsabili e risultavano figure a dir poco pittoresche, spesso improvvisate e non sempre attendibili). Non esisteva il videoclip come canale promozionale e le uniche fonti d’informazione erano le riviste musicali, abitate da gente che aveva reale conoscenza della materia musica e i negozi di dischi, a prezzi più che popolari, che diventavano luoghi di scambio di idee, di discussione e talora persino, scontro. Internet non era lontana anni luce e con essa la possibilità di poter accedere ad ogni fonte, cosa che oggi, paradossalmente (quanto è stupido l’essere umano) ha annullato il valore dei progetti che vengono consumati in fretta in file iper-compressi, al limite dell’ascoltabile, senza alcun elemento grafico ad accompagnarli che renda il senso della storia che li identifica, senza più alcun misticismo, solo un prodotto da consumo dietro il quale aleggia, più grande del valore musicale, l’immagine del musicista studiata, quella si, ad arte. Quarant’anni fa ai musicisti toccava essere a conoscenza del passato musicale e del presente più immediato, perché l’oggi era già futuro ed era indispensabile essere lungimiranti, spostare l’angolo di lettura del fare musica, almeno un po’ più in là, tanto nella forma che nella sostanza (da qui viaggi rocamboleschi in terra d’Albione o Oltreoceano per respirare l’aria più vitale che c’era). Questi quattro poco più che ventenni con un’immagine asciutta, lontana da ogni lustrino, agitatori di movimenti studenteschi universitari, attenti ascoltatori di tutto quello che il termine avanguardia era in grado di offrire, la passione dichiarata per Messiaen, Ligeti, Penderecki, per la musica concreta di Schaeffer e per il free jazz, da Coltrane ad Ayler a Coleman, la conoscenza del percorso vocale di Cathy Berberian (indagata in contemporanea dal genio vocale di Tim Buckley) quanto l’amore per il canto teatrale di Arthur Brown, la passione per l’elettronica. Quell’elettronica che i Beatles avevano impiegato con l’uso di nastri magnetici (Tomorrow Never Knows, Strawberry Fields, A Day in the Life…), come dal percorso di Berio e Nono e che porta l’organista della band, Hugh Banton a diventare costruttore egli stesso dei suoi strumenti e tra i massimi conoscitori mondiali della possibilità di applicare ad esso inaudite distorsioni, approssimativamente campionate oggi da illustri e più giovani colleghi con effetti che rasentano il ridicolo e centrano la freddezza più asettica. Quella stessa elettronica che porta il sassofonista David Jackson ad impiegare distorsioni ed effetti di ogni natura ai suoi sassofoni, usati spesso in contemporanea, alla maniera d Roland Kirk (non esisteva ancora “aulochrome”, né l’EWI e  l’esperimento del ’41 “One Man Sax Section” di Billy G. True si era rivelato troppo farraginoso, unica chance la doppia ancia) e diffusi in sala tramite amplificatori per chitarra elettrica. Stessa cosa per la batteria di Guy Evans, amplificata con riverberi che sembrano stati settati almeno 10 se non 20 anni dopo, buco nero che non solo attrae e ingloba, ma ferisce, come solo qualche anno dopo avrebbe fatto l’heavy metal più ispirato e tecnico (i Tool?), ma con la stessa enfasi timbrica di un John Bonham. Psichedelia, classica contemporanea, ispirati lied contemporanei, free jazz, prodromi di heavy estremo, punk, suono e tematiche oscure e riff ossessivi che avrebbero fatto da prologo al linguaggio dark di Bauhaus ma anche e soprattutto Virgin Prunes (quanto il primissimo Gavin Friday) e Public Image Limited (dell’amore dichiarato di Rotten per la musica di Hammill si è scritto tanto) ma davvero la lista degli epigoni, più o meno dichiarati potrebbe essere interminabile). Il tutto alternando un’asciuttezza minimale, già figlia della tanto decantata reiterazione minimalista del post punk, qui ben meno approssimativa, ad un pieno gotico claustrofobico, che trova analogie col proprio tempo esclusivamente per il brulicare inquieto dell’organo. Poi… una voce schizofrenica, quella del genio Hammill, memore di studi vocali gesuiti, indagatore di drammi interiori senza pudore alcuno e seminatore di occasioni per una catarsi collettiva che ancora oggi non cessa di avere adepti. Una voce capace di carattere angelico e praticamente indistinguibile da quella di una languida sirena quanto di grotteschi ripieghi su colori rochi ottenuti con l’uso contemporaneo di corde vere e false. Un autentico strumento, capace di scalare ottave, ripiegarsi su stesso, districarsi tra intervalli improbabili (il finale di Pioneers Over “C”), ammaliare quanto diventare sgradevole in una frazione di secondo. Tra sussurro e tuono, cavaliere di un’Apocalisse che “profetizza disastri e poi ne calcola il costo”, “l’Hendrix della voce”, così nominato per l’inspiegabile duttilità e varietà di suoni prodotti. Strumentista modesto ma assolutamente funzionale alla band, quanto compositore tra i più geniali del ‘900, poeta, perché il carattere musicale delle liriche esposte rivela una tale ispirazione visiva da fare impallidire Blake ed un’intimismo nudo e crudo che  parte dall’indagine spietata di una propria condizione esistenziale per divenire universale e chiedere il confronto, umile ma diretto con il maestro dichiarato Shakespeare. La consapevolezza di una raggiunta maturità porta, dopo un iniziale tentativo di produrre alla maniera dei Pink Floyd di Ummagumma un doppio album con registrazioni in studio e live in studio, a realizzare un unico disco tra le mura dei Trident, composto da tre soli brani e registrato nell’arco di tre mesi. L’ambizione viene completamente ripagata dall’esito. Del resto la band si era già dimostrata maestra nella gestione di lunghe partiture, come nel caso del disco che l’aveva preceduto, H to He who am the only one (il più venduto della band, ad oggi due milioni di copie), appena più appesantito dalla produzione, dove brillava un’eccellente Lost, autentico preavviso a quanto sarebbe accaduto appena un anno dopo tra questi solchi. Qui i tecnici del suono sono addirittura tre (Robin Cable, David Hentschel, poi coi Genesis, Ken Scott) e definiscono una delle rese più significative di sempre. Non da meno l’impianto visivo che accompagna il vinile, a cura di quel Paul Whitehead che sarebbe diventato celebre di lì a poco grazie alla sua collaborazione (e qui il nome dei tanti compagni d’avventura sul palco torna ancora) con i Genesis in Trespass, Nursery Cryme e Foxtrot. Ispirazione, maturità, ambizione e la giusta dose di fortuna dovuta alla stima incondizionata nei riguardi della band da parte del produttore John Antony della Charisma e del rimpianto conduttore radiofonico (certo termine assai limitativo per il più grande talent scout e mecenate musicale del rock) John Peel, crea l’equazione chimica che fa seminare al generatore scariche elettromagnetiche capaci di traghettare in un trip a basso costo (economico), dagli inferi agli spazi cosmici più indecifrabili. La progressiva successione dei due riff dell’introduttiva Lemmings, accompagnata da Hammill che esordisce con un timbro in maschera e di testa, inquietantemente femmineo per passare poi a canali di emissione più bassi e divenire di petto con risonanze di corde false, è dichiarazione d’intenti senza possibilità alcuna d’errore. E’ qui che la batteria di Evans raggiunge l’apice, ottenendo una spazializzazione tra i canali mai ascoltata prima. Il brano cresce, s’arresta, esplode in un succedersi di eventi che raggiunge l’apice in una sezione centrale dove le armonizzazioni violentemente dissonanti di sax baritono e tenore (entrambi distorti), le ulteriori distorsioni dell’organo e gli intervalli esatonali della chitarra di Robert Fripp (prossimi all’atonalità schoenbergiana e alle armonizzazioni aperte che avrebbe applicato Derek Bailey qualche decennio dopo), più che ospite quinto membro della band nel disco, con in aggiunta un Hammill che alterna dinamiche di timbro e potenza in una frazione di secondo, fanno impallidire ancora oggi qualsiasi band di metal estremo. Sciolto il groviglio di nervi in una fuga jazz, riprende il secondo riff che fa da leitmotiv del brano per cedere il passo ad un finale psichedelico atonale e rumoristico, al confine con la musica concreta più organizzata. Dal vivo il brano diventerà dichiarazione d’intenti di puro delirio sonico (tanto più nel biennio 1975-1976), come soltanto Killer, da H to He e Gog, da In Camera, ispirato quarto disco solista di Hammill e da cui saranno presi in prestito molti pezzi per le esecuzioni dal vivo della band, sapranno essere. Lemmings non ha le stimmate di un brano progressive, preannuncia invece con grande anticipo le derive più estreme del math rock (le diverse incarnazioni di Mike Patton pre “Mondo Cane”) e nell’uso impervio delle armonie e degli intervalli atonali, quanto nella frammentazione, alcune cose del Rock In Opposition (Living in the Heart of the Beast degli Henry Cow, le composizioni meno ambientali degli Univers Zero). Il brano che segue, Man Erg, per contenuti tematici (le dicotomie angelo-demone, dittatore-salvatore), per atmosfere e struttura, diventerà il classico per eccellenza del combo. Eppure la curiosa ambivalenza che lo caratterizza avrà riflesso anche sulla sua capacità di resistere all’usura del tempo. La prima parte, di grande impatto lirico, suona infatti oggi un po’ retrò se confrontata col resto dell’album, prevalentemente per via dell’arrangiamento. Un pianoforte si minimale ma neanche troppo distante da quello di una buona ballad a firma Sir Elton John, con alle spalle un organo didascalicamente chiesastico. E’ la violenta frattura ritmica che segue, paragonabile ad una crepa dovuta ad una scossa tellurica magnitudo 12 a lasciare impietriti e a cambiare completamente registro. Un suono sinistro apre ad un ossessivo martellamento di tasti e fiati che rimbalza da un canale all’altro sovrastato dalla chitarra di Fripp a disegnare geometrie impossibili e armonie più che aperte demoniache fino a trovare unisono ritmico con la batteria. Heavy-punk a casa di Béla Bartok. Quando il canto urlato di Hammill, stregonesco, compare, si ha la sensazione di essere anzitempo anni luce. La stessa sensazione la si avrà qualche anno dopo con quella Disengage da Exposure del chitarrista dei King Crimson che suonerà trash metal con un anticipo profetico ed enfasi espressionista, complice l’urlo primordiale hammilliano in qualità di additivo. Come un martello pneumatico che esaurisce la sua forza, l’ossessivo ribattuto (in confronto qualunque ritmica Zeuhl appare una marcetta) scarica lentamente le sue pile e lascia il posto ad un’elegantissima soluzione jazzy, che trova spazio in un solo di sax memorabile, prima carico di potenza evocativa, poi come in preda ad un esorcismo, mosso da singulti e movenze epilettiche che riportano al tema iniziale, questa volta assai più convincente perché irrobustito, elettrificato. Inaspettatamente e qui, autentico colpo di genio, le armonie della strofa vedono un’improvvisa stratificazione col riff marziale creando un senso di straniamento che risolve nel finale, trionfale. Ancora oggi ed in particolare nelle due ultime tournée della band, ridotta a trio, senza l’apporto di fiati, Man Erg emoziona e lascia senza fiato per l’organicità di sviluppo dei singoli temi ed il naturale risolversi di uno nell’altro, anche nelle fratture più drastiche. Tra l’altro, la secchezza esecutiva con cui negli ultimi anni viene eseguita la prima sezione, sono riuscite a portare il brano in una dimensione tanto più contemporanea. Memorabile un’esecuzione di Hammill solista nel 1980 a Torino, Stadio Comunale, come spalla a Peter Tosh. Davanti ad un pubblico inferocito, in attesa di “good vibrations” (nessuna citazione in questa caso alla geniale band di Mr. Brian Wilson), Hammill regala una versione esemplare, densa di pathos, asciutta, uno psicodramma in chiave post punk che si arrovella feroce su se stesso come un’invettiva beckettiana al pubblico, che alla fine, applaude.

Infine, la suite. Ogni band degli anni ’70 alle prese con la definizione “avant”, “prog”, o anche semplicemente “rock” (all’epoca il benedetto e tristemente dimenticato termine musica leggera esisteva ancora, serenamente, a caratterizzare quello che era concepito per piacere ad un pubblico vasto, il resto, tanta roba, cercava il nuovo e non pretendeva d’essere compiacente a tutti i costi) doveva cimentarsi con un brano che copriva l’intera facciata di un vinile. A Plague of Lighthouse Keepers non era stata concepita in origine per essere un unico pezzo, ma una sorta di successione di brevi brani legati tematicamente che sarebbero figurati sulla stessa facciata. Un’ alchimia di Hugh Banton, assolutamente inaspettata, regalò, al resto della band il risultato che noi oggi conosciamo. Da qualcuno accusata di frammentareità, la suite si muove invece sinuosamente e coesa nella sua schizofonia, a disegnare uno dei quadri più intensi e drammatici della musica del ‘900, degna ispiratrice dell’ultimo Scott Walker. La centralità del cantore/attore Hammill nel brano, trova eco adeguata in una scenografia sonica che appassiona e inquieta ancora oggi, dal coro fanciullesco (neanche a dirlo, ottenuto con savraincisioni vocali del leader) della prima sezione, al suono raggelante delle navi fantasma in Pictures/Lighthouse, per giungere attraverso le convulsioni di canto e sax (talvolta tutt’uno in osmosi assoluta), i vortici percussivi, le geometrie organistiche, mai così gotiche e distorte all’occorrenza ai gemiti di Presence of the Night e… Kosmos Tour. Questa sezione è il punto più alto dell’opera. Hammill esordisce sardonico con un “Would you cry if I died?” per avviare una progressione vocale sincopata che risolve in arpeggi d’ottava rapidi fino al paradosso, cantati su registro tenorile. Ben lontano da essere un esercizio di stile virtuosistico, il canto di Peter lascia presto posto ad un cacofonico sovrapporsi di tracce minimali di chitarra, organo e pianoforte che creano una poliritmia stupefacente, ottenuta attraverso decine di sovraincisioni e un lavoro di mixing creativo quanto laborioso. Raggiunto il massimo climax di saturazione armonica rientra la voce autorevole del cantante ad aleggiare sul tutto atonale e sancire la fine del caos con “The maelstrom of my memory is a vampire and it feeds on me, now, staggering madly, over the brink I fall”, in sincrono su “fall”, un fortissimo sui tasti d’avorio. La bellissima melodia di (Custard’s) Last Stand fa da oasi col suo lieve incresparsi di tanto in tanto nel presagire nuove tempeste che non si lasciano attendere a lungo. The Clot Thickens è manifesto assoluto di atonalità, percezione di dissoluzione nel magma (“WHERE is the God that guides my hand? HOW can the hands of others reach me? WHEN will I find what I grope for? WHO is going to teach me?”, canta Hammill) questa volta guidato da un mellotron che precipita attraverso un’intera gamma tonale provocando sensazioni di malessere come risucchiati in un maelstrom dal quale voci filtrate emergono come fantasmi nella memoria. Gioco di nastri ad accelerare l’incedere di batteria e finalmente si è fuori dal vortice con un finale che a definirlo elegiaco si è avari. Artaud avrebbe applaudito. Hammill, angelico, citando T.S. Eliot, canta di redenzione con timbro asessuato, tanto caro al Bowie che sarà di lì a poco, mentre la chitarra di Fripp intesse un assolo di rara bellezza per sviluppo armonico, fantasia nell’uso di intervalli e suoni, lirismo. Scariche elettriche prodotte dall’organo di Banton chiudono un’autentico poema dark in musica. La suite viene eseguita una sola volta dal vivo nella sua interezza, assieme allo strumentale Theme One, trionfalistico side A del singolo associato all’album, su tema di George Martin (il “quinto Beatles” nonché loro produttore), ben distante dalle tipiche atmosfere della band e per questo ben accolto da un’audience più ampia (side B la favolosa e ben più oscura W), per la televisione belga, nel 1972, in più take diversi, compatibilmente con esigenze visive. Il filmato, storico, è parte del dvd Godbluff live, indispensabile documento video on stage della formazione che include un ulteriore meraviglia, come dal titolo, l’intero album Godbluff eseguito al Palais des Expositions, Charleroi, nel 1975. Per quanto a partire dal 1977, tanto Hammill nei suoi show in solo o in duo con il violinista Graham Smith, che i Van Der Graaf (orfani di parte della storica sigla quanto di Banton e con Jackson un po’ dentro un po’ fuori dal progetto, ma con agli archi il prima citato Smith e poi anche il violoncellista/tastierista Charles Dickie) abbiano eseguito il brano in medley con la sezione conclusiva di The Sleepwalkers, da Godbluff, medley noto col nome A Plague of Sleepwalkers (celebri la versione di Hammill nel bootleg Skeletons of Songs, datata 1978 e quelle dei VDG, una incisa per la BBC, anch’essa reperibile solo su bootlegs vari e l’altra alla Hull University, entrambe del 1977) bisognerà aspettare quarantadue anni per ascoltarla dal vivo nella sua interezza, quando l’acronimo tornerà ad includere la “G” di Generator. E’ accaduto nel recente “A Plague tour” (Luglio 2013) dove la suite, con intatto spirito lisergico/drammaturgico e accurata veemenza è stata eseguita in ogni data con l’organico ridotto a power trio dopo l’allontanamento di Jackson. Impagabili le rese di Bilston, Trezzo sull’Adda, Amsterdam, Londra, Dresda. L’attualità del linguaggio della band ed il patrimonio che ne derivano rimangono assai importanti, fa specie, tra l’altro, sapere che in ogni data  dell’ultimo tour di Lady Gaga, la performer/dj Lady Starlight, abbia impiegato brani della band e di Hammill solista, come colonna sonora per le sue esibizioni. Pawn Hearts non ricevette particolare accoglienza in patria, tantomeno negli Stati Uniti, che avrebbero riservato tutt’altra accoglienza al più terreno Godbluff, fu l’Italia ad attribuirgli il giusto merito accogliendolo nella classifica dei dischi più venduti al primo posto per 12 settimane, nonostante le accuse di nazismo per la foto interna alla copertina ad opera di Keith Morris, che molto più innocentemente ritrae la band mentre gioca a Crowborough tennis, un gioco inventato dalla band stessa e qui descritto: http://www.vandergraafgenerator.co.uk/pawnhearts/crowborough_tennis_rules.jpg. Hammill tornerà spesso sull’argomento con grande serenità affermando (e oggi davvero questo suona così lontano nel tempo da mettere da parte ogni ricordo dell’epoca delle rimostranze studentesche che preannunciavano gli anni di piombo) “voi in Italia siete abituati a politicizzare tutto”, rispondendo poi alla domanda “ma sei di destra o di sinistra?”: “diciamo più di sinistra”.

In un anno il disco avrebbe venduto duecentomila copie soltanto nella nostra nazione, un milione e mezzo di copie ad oggi, la band avrebbe intrapreso un lungo tour nella nostra penisola tra il 1971 e il 1972, raccogliendo cifre da capogiro, finite in ben poca misura nelle tasche dei diretti interessati, oltre a disordini di dimostranti presenti ai concerti più che per la musica, per ragioni politiche, l’antica protesta della cultura da diffondere gratuitamente, ora realtà che grazie al free download la musica la sta uccidendo. Riuscite ad immaginare tutto questo nel 2013 per un disco d’avanguardia?

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Esce finalmente la compilation digitale legata al concorso“Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame SECONDA EDIZIONE”,organizzato ogni anno dall’etichetta indipendente La Fame Dischi. La compilation racchiude i migliori brani scelti fra tutti i partecipanti al concorso (oltre 130 band iscritte quest’anno).

La compilation “Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame VOL.2” si può ascoltare e scaricare gratuitamente dalla nuova pagina bandcamp www.lafamedischi.bandcamp.com

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Recensione a cura di Claudio Milano

Etichetta: Esoteric Antenna
Genere: Avant Rock

Tracklist:
1. Spinning Coins
2. Some Kind of Fracas
3. Of Kith & Kin
4. Cash
5. Built from Scratch
6. Attar of Roses
7. This is Showbiz
8. Reboot
9. Black Ice
10. The Kid
11. Glass
12. 2 Views
13. Means to an End
14. Slippery Slope

Voto: 6,5/10

Come portare Roy Harper e Jimmy Page a casa di Scott Walker con David Lynch a curare la regia del tutto.

Con onestà ammetto, mi aspettavo ben poco da questo album. L’interazione tra i due musicisti si presentava dai primi comunicati stampa e dai sample distribuiti in rete, come una delle infelici avventure soniche hammilliane nei sentieri di un ambient minimale e sbiadita spacciata per “avanguardia” così come era accaduto per prove di ben poca levatura come Unsung, The Appointend Hour (con Roger Eno), Alt con i Van Der Graaf Generator (più votato ai percorsi di musica concreta e jazz improvvisativa) e agli appena più sostanziosi Spur of the Moment con Guy Evans (pessimo su disco, decisamente più intrigante nelle poche prove dal vivo del duo), Loops & Reels, Sonix.

Devo ammetterlo, Hammill mi ha spiazzato ancora e lo fa con un album che abbraccia la tradizione di una scrittura per voce e chitarra ispirata e personalissima come in Chamaleon and the Shadows of the Night e Clutch, colorata con suoni che trovano in Lucas il perfetto interprete (e spalla tecnica di rilievo) di quell’astrattismo sonico “a la Pollock” che ha caratterizzato, sulla scia del quasi capolavoro di fine ’70 The Future Now e dei grovigli claustrofobici di In Camera, l’oscura trilogia post infarto da Singularity a Consequences.

Questa ricerca, qui trova una nuova dimensione, assai piacevole e decisamente contemporanea che analizziamo nel dettaglio.

Questi suoni dall’altro mondo, non si presentano di primo acchito necessariamente ostili, ma esplorano una vasta gamma di emozioni soniche.

Già dalla prima traccia, Spinning Coins si ha la percezione di una scrittura limpida, cristallina, vicina al migliore cantautorato folk, colorato da una chitarra sognante.

Some Kind of Fracas, rende la materia assai più scura e tagliente, a tratti demoniaca con i suoni chitarristici di Lucas ed Hammill, a disegnare asperità vicine ad un’avantgarde minimale, satura nelle stratificazioni fino a creare un muro del suono/drone pari a un buco nero. Intrigante.

Una pioggia di suoni luminosi di Lucas, accompagna, la fervida scrittura, le pennate e la voce baritonale di Hammill nel terzo brano del disco Of Kith & Kin. Le sovraincisioni ed armonizzazioni vocali multiottava, tipiche del sistema compositivo del cantore britannico, sono ridotte qui, stranamente, come nell’intero disco al minimo, ma risultano sempre efficaci e mai sopra le righe Una canzone bellissima.

E’ con Cash che arriva il brano capolavoro. Hammill trova la sua consueta energia carica di livore e non celato sadismo, con fraseggi vocali sincopati, rapidi come scudisciate, un riff che sembra provenire direttamente dalla produzione dei primi Soundgarden. Le chitarre dei due musicisti si intrecciano a definire arabeschi sonici di tutto rispetto. Brevissima, quanto intensa, un bel modo di lasciare il segno.

Primo brano strumentale con Built from Scratch, connubio di suoni tra psichedelia contemporanea e ambient. Sinceramente nulla di che. A seguire, altro strumentale con Altar of Roses e la sensazione rimane immutata, (peraltro con un inglorioso campione ad emulare lo scorrere di acqua) e cioè che lontano dal connubio suono e forma canzone, esplosa, contratta, rimasticata, esternata in innumerevoli varianti, tanto il duo, ma in particolare Mr Hammill nel tentativo di “compositore”, o meglio di “non compositore”, proprio non regga neanche vagamente il confronto con la folta schiera della sua generazione che dal Wyatt di The End of an Ear, è transitata per Fripp, Eno, Harold Budd, Moebius, Rodelius e l’intera propaggine kraut più space.

Con This is Showbiz, Hammill torna invece in forma smagliante a disegnare, complice non solo una fortunata linea melodica, ma bellissime e mai stucchevoli trascolorazioni armoniche, un brano tra i più belli della sua carriera recente.

Con Reboot si ha la sensazione di essere in presenza ancora di uno strumentale, ma la maggiore presenza di dinamiche, prepara alla partecipazione di una linea vocale, probabilmente non memorabile ma mesmerizzante. E’ il delirio sonico che ne consegue ben stratificato e disegnato come in un arazzo variopinto di soluzioni per chitarre che si dipanano in un ossessivo riff ed estetica glitch, a rendere il brano nel suo complesso, di gran fascino.

La forma canzone pura di Black Ice con venature blues folk abrasive centra ancora il segno grazie ad armonizzazioni di tutto rispetto una melodia ficcante e intrecci sonori efficacissimi, con il ritorno di suoni glitch in una sorta di riattualizzazione dei deliri dei primissimi Velvet Underground. Eccellente. Altro brano perfettamente a fuoco e probabilmente la cosa più nuova alle orecchie di chi conosce i percorsi di entrambi i firmatari del disco.

Il virtuoso intreccio di arpeggi di Lucas, che rimanda ai lavori con Buckley Jr., non è adeguatamente supportato da una prestazione vocale di Hammill in The Kid per quanto la linea melodica presenti anche spunti di interesse, rimandato alle esibizioni dal vivo del duo.

Direttamente nella Loggia Nera con Glass, assai meno presuntuosa degli episodi strumentali che la precedono. Fascino e anche un pò di sostanza, ma soprattutto, sintesi.

Hammill trova puro lirismo con 2 Views ma l’estrema dilatazione delle trame sonore a tratti stimola, ad altri annoia (come era già successo con l’episodio conclusivo di This, The Light Continent).

Torna lo splendido riff di Cash con Means to an End, questa volta in chiave strumentale, praticamente un outtake, di cui in tutta onestà non si sentiva particolare bisogno.

A chiudere, l’unico brano strumentale di autentica sostanza, Slippery Slope, memore di certo krautrock e soprattutto del connubio berlinese tra Bowie e Eno in Low, con i fantasma di Hugh Banton all’organo in più sezioni. Un bel viaggetto.

In conclusione, un disco che sarebbe stato bellissimo se ben più corto e avesse rinunciato a sbiadite scenografie senza l’attore principe del racconto vocale. Il tutto, sarebbe stato a favore della presenza dello straordinario legame tra suono, poesia (anche se in questo disco le liriche appaiono un po’ meno interessanti del solito nel ricercare un approccio diretto) e canzone colta che rende Hammill compositore tra i più grandi del nostro tempo e Lucas chitarrista tra i più straordinari che il rock abbia mai conosciuto sin dall’indimenticata collaborazione con Captain Beefheart.

In attesa del meditatissimo album solista hammilliano in uscita a fine anno, che ha richiesto più di due anni di lavoro, cosa assai rara per il prolifico autore britannico, qui, un altro segno della fervida vena ispirativa che qualche live di troppo a parte e il brutto Alt del gruppo di cui è leader, lo accompagna senza alcuna caduta di tono dal 2002, anno di pubblicazione di quel Clutch, di cui come detto, questo Other World è degno epigone di continuità evolutiva.

Assolutamente da vedere dal vivo.

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Recensione a cura di CLAUDIO MILANO

Etichetta: Esoteric Antenna
Genere: Avant Rock
Durata: 60’42”

Tracklist:
1. Earlybird
2. Extractus
3. Sackbutt
4. Colossus
5. Batty Loop
6. Splendid
7. Repeat After Me
8. Elsewhere
9. Here’s One I Made Earlier
10. Midnite Or So
11. D’Accord
12. Mackerel Ate Them
13. Tuesday, The Riff
14. Dronus

Voto: 4,5/10

Solo un pretesto per  dare senso ad una tournée, dove in alcuni momenti improvvisativi questa esperienza ha trovato un’effettiva e gradita collocazione (“Lemmings”, meravigliosa come non mai nella data di Sellersville, l’inedita “Fligth”, da “A Black Box”, disco cardine nell’enorme repertorio hammilliano, splendida nella serata al Nearfest). Diversi gli spunti di interesse (la coesione strutturale e sonora di “Colossus”, le analogie con armonie ed architetture sonore ligetiane in “D’Accord”) ma poco di  davvero conclusivo, tantomeno di  interesse paragonato con quanto in circolazione in ambito “avant”, per quanto possa essere salutato con interesse il frequente abbandono dell’organo di Banton a favore di suoni più contemporanei e il ritorno di Guy Evans in alcuni momenti ad alcune sonorità percussive che grandi hanno fatto il K Group di “The Margin”.

Hammill parla nella cartella stampa di “musique concrete”, ma in queste tracce non c’è nulla che possa essere paragonato al percorso di Schaeffer (per questo rimandiamo a “Magog” da “In Camera” del cantante/autore). Che la band abbia capacità improvvisative lo si sa da sempre, basti ricordare le virulente performance degli anni ’70 e alcuni momenti del capolavoro assoluto “Pawn Hearts” (o dagli outtakes pubblicati sui remaster dello stesso disco, “W” su tutti e da quelli pubblicati sul remaster di “H to He”), ma che in questo disco si segua una direzione anche soltanto vaga, NO. Hammill non è il Wyatt di “The End of An Ear”. Non c’è mezzo disco di suoni prodotto da lui e dai VDGG, dalla lontana ed inedita colonna sonora (rigettata dal regista John Hough, perchè ritenuta “autenticamente inquietante”) di “Sudden Terror” (in italiano “Il ragazzo ha visto l’assassino e deve morire”… ) ad oggi, che meriti interesse, eccetto forse per qualche momento di “Loops and Reels” e “Sonix” dal repertorio solista del leader della band.

Hammill e soci sono una branca di grandi, impagabili, innovatori del suono associato alla forma canzone, paurosamente espressionista, un suono che a sé non è mai riuscito ad affascinare, come band al completo, se non per qualche breve momento del secondo cd di “Present” (escludendo, a ragione, i diversi episodi “canterburiani” della serie “The Long Hello”).

Inutile è la definizione più propria per un album come questo, che certo incontrerà il favore più diretto di chi, da sempre, ha identificato nei VDGG il verbo dell’innovazione e non a torto. Unica contestazione… qui di nuovo, non c’è un beato accidente, solo aria fritta, cose già sentite e riproposte in una forma incompiuta, priva di ogni interesse e incapace di lasciare alcuna traccia nella memoria. Un disco a pari merito di insignificanti opere della discografia hammilliana, come “Unsung”, “The Appointed Hour”, “Spur of The Moment”. Un peccato dopo lavori di gran rilievo come il recente “Consequences” dello stesso Hammill, “A Grounding In Numbers” dei VDGG e l’affascinante “Live at Metropolis”, ancora della band, in versione doppio cd + dvd, a prezzo “quasi” scandaloso, che, a pochi giorni dall’uscita di questo album, fotografa in maniera diretta il nuovo percorso della band, con scarsa indulgenza nei riguardi di un passato mai rinnegato, ma tantomeno condotto a sterili celebrazioni, a fronte di un’ispirazione compositiva e sonora eccezionale per dei signori che mostrano orgogliosamente le proprie rughe (esteriori ed interiori) con la consapevolezza di chi ha fatto la storia di un rock che, ancora oggi, non trova alcuna definizione e continua ad offrire motivi di accese discussioni.

Il peggior album nella discografia dei Van Der Graaf Generator.

Ci si augura di contro che allo scorso eccezionale “Plague Tour 2013”, segua un live capace di porre un focus autentico sul meglio della band, quello capace di violenza inaudita e un’attimo dopo di dolcezza infantile e spaurita, espresso in date di assoluta eccezione come quelle a Bilston, Amsterdam, Trezzo sull’Adda, Londra e in parte, Berlino. Un modo per rendere giustizia al meglio della loro produzione che possa allontanare il ricordo della celebrazione fine a sé stessa di Real Time (2007) e di un live completamente fuori fuoco come il Live at the Paradiso (2009).

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Top Records
GENERE: Cantautorale, rock

E’ passato così poco dal disco precedente, eppure il miglioramento è così evidente. Il nuovo lavoro della cantautrice Teresa Mascianà, “Shine”, non così posteriore al comunque apprezzabile “Don’t Love Me”, mette in evidenza le radici che l’artista ha piantato in un terreno, quello della musica d’autore, che pullula talmente tanto di continue nuove entrate da risultare ormai da tempo marcescente. Dal marasma di musicisti stampino Teresa si dissocia ampiamente, spiccando il volo verso lidi diversi, contaminando il suo blues rock di elettronica, beat, pop ad alto dosaggio e qualche eccesso di ballabilità, come in “Have a Good Time”, che davanti al giudizio complessivo dell’album sicuramente non stona. Le esperienze statunitensi e britanniche, ma più in generale i viaggi in tour dentro e fuori l’Italia, hanno lasciato nell’artista un tocco quasi internazionale che sicuramente produrrà ulteriori ottimi frutti nell’avanzare di questo percorso. Impossibile dare un verdetto sulla bellezza di queste canzoni senza passare per i testi, spesso storie di una donna (forse la stessa protagonista?) che ha a che fare con la brutalità del maschilismo e dell’ignoranza, senza troppe valutazioni morali né pesantezze bigotte, soppesando le parole in maniera da farne più che altro una storia dotata di un verismo quasi verghiano. E poi c’è “Carry Me On”, che dietro ad un apparato noise-friendly nasconde lontani echi noise e addirittura trip-hop, a rappresentare l’eguale importanza di parole e musica in questo possente Shine, opera di realismo quasi interartistico che se anche la pochezza dell’italiota media vorrà dimenticare in fretta, sicuramente non dimenticheremo noi.

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