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Archive for the ‘ETICHETTA: Venus’ Category

ETICHETTA: Venus
GENERE: Grunge rock

TRACKLIST:
1in2 a Bombay
Toilet
Vivi Veloce
Luna Bar
La Soluzione
Pubblicità
Chanel
L’Attesa
Z-149

Il Marchese non è un nome così nuovo per chi bazzica l’alternative rock italiano, specie in area lombardo-piemontese. Le tracce di una devozione particolare ai primi Afterhours, così come a certo hard rock più melodico (e da classifica) stile Negrita o Timoria, sono un po’ ovunque nei nove brani che compongono Carnivoro, e si distinguono a fatica i momenti in cui la band ha tentato di dare il suo approccio personale alle canzoni. La derivazione, comunque, in particolare in questo genere, da anni è il succo del discorso: usare, sostanzialmente, linguaggi che già la scena reputa appropriata, per arrivare a proporre qualcosa che sicuramente piacerà. Non è necessariamente così, certo, e infatti si tenta di selezionare una buona vena testuale dal meglio della musica italiana, carburandola con qualche accenno di Cristiano Godano, che non stona mai.
Tra il nitore dei Verdena più moderni e la graffiante vena chitarrista dei Ritmo Tribale più pulsanti stanno questi lombardi, che senza produrre nulla di nuovo accontentano comunque un numerosissimo pubblico. Per questo non si può dire molto altro, ma neanche stroncarlo, questo Carnivoro. Lo si ascolta, tutto qui.

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ETICHETTA: Infecta Suoni&Affini, Venus Dischi, Face Like a Frog Records
GENERE: Indie rock, new wave, alternative rock

TRACKLIST:
1. Helsinki
2. Non Preoccuparti Bambina
3. Vendere i Soldi
4. La Provincia (con Andrea Appino)
5. Dettagli
6. L’Individualismo vi Farà Morire Soli (con Matteo Dainese e Ceskova Midori)
7. Il Figlio Gaio!
8. Padre la Smetta
9. Una Lega di Matti
10. I Pezzi di Merda Non Muoiono Mai
11. Mente Animale

Si potrebbe recensire questo disco citando qualche frase a caso, per comunicare il mood generale. Lo faremo:
E’ lui (il tuo vecchio, ndr) che ti ha detto che tutto sommato è solo una questione di testa. 
Sento di avere qualcosa di rotto in me, mi si son rotte le palle. 
Ed è il più furbo è chi ne sa approfittare e ti consiglia pure di fare uguale.
Tu guardi Helsinki con gli occhi di chi ha gli occhi stanchi di stare qui


L’individualismo-o-o vi farà morire soli
, che è anche il titolo di una delle canzoni più catchy del disco, introduce uno degli argomenti portanti del disco: la stanchezza disillusa di questi giovani ragazzi, i Nu Bohemien, verso l’italiano medio, verso quell’ipocrita egoista che non conosce sentimenti di morale comune, di vero patriottismo equo e altruista, di legalità o perlomeno di coerenza personale. Solidi e chiari i messaggi convogliati, la disgrazia delle nuove generazioni con solo un pezzo di carta igienica come laurea, metafora abusatissima ma in momenti di lucidità come quelli dell’intero spettacolare La Consuetudine del Sentito Dire sempre buona a far capire il pensiero di fondo. Ce n’è per tutti, dal Vaticano ai luoghi comuni di una società sempre più in affanno per il senso di perdita dell’identità nazionale o semplicemente di una società troppo tradizionalista (impeccabile in questo senso la logorrea velatamente politicizzata di “Una Lega di Matti”). La qualità dei testi è mediocre, con espressioni talvolta ridondanti seppur dolcemente macabre, ma l’acerbità è presto ricambiata da un sentimento post-cantautorale tipicamente folk che ricorda molto gli artisti di strada oppure i trovatori, vogliosi di raccontare storie al popolo come veri menestrelli dell’ogni giorno. Una tenuta da buskers, gonfia di chitarre acustiche e ritmi danzerecci, che gli fa certo onore.

Chi se la prende sempre in culo sono gli operai, dicono qui, loro che forse, come tanti giovani italiani, in fabbrica non ci sono andati e non ci andranno mai, ma è facile capire perché questo disco può trovare successo: si infila in una sequenza di dischi socialmente impegnati che dopo aver iniziato a stufare tempo fa sono tornati in voga tra folk rock e cantautorato, dapprima con una nuova linfa, poi con cliché che si sono riverberati fino a qui, fino a questi Nu Bohemién che pur ripetendo gli stessi schemi riescono a rompere la banalità quasi triviale di una scena stagnante. La stessa scena che dopo gli Zen Circus (anch’essi peggiorati ultimamente), il cui Andrea Appino è presente in questo disco alla sei corde, aveva perso la sua carica narrativa di una quotidianità che era stata ormai troppo sviscerata da quell’ironica opacità che li contraddistingueva per permettere nuove imitazioni.
Razionalmente non diremo che è un capolavoro, ma la musica è anche cuore ed energia. Istintivamente è emerso un vero impulso ferino, animale, selvaggio, nell’ascoltare questo disco, quasi un sentimento riottoso di prepotenza ribelle, come a dire “hanno ragione, scendiamo in piazza e spacchiamo la faccia a tutti”. Ma la terribile realtà è che l’errore nostro di italiani sta proprio lì, nel lamentarci sempre, in maniera poco costruttiva, talvolta abbassando troppo i toni fino ai livelli infimi di certa volgare musica di protesta. I Nu Bohemién, fortunatamente, non appartengono a questa categoria, ed è per questo che li apprezziamo.

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ETICHETTA: C.P.S.R./Venus
GENERE: Hip hop italiano

TRACKLIST:
1. La Creazione
2. La Nascita (Lifetime)
3. Sequenze
4. L’Osservatore
5. Quello Che Sono feat. Lu Marra
6. Nobody Knows (lifetime)
7. Rap Tributo
8. Che Vita (feat. Dominique)
9. Non Ti Preoccupare
10. Come Fai (feat. Dominique)
11. Occhi (feat. Iyah Ranks)
12. Colpo Sicuro
13. Che Cavolo dici Willies
14. La Tempesta
15. Rouge (feat. Naty)
16. Anche Se (lifetime)
17. La Fine è Solo L’Inizio (lifetime)

Doppia Erre, ennesimo hip hop act italiano (anzi italo-svizzero), sbarca sulle scene con un album lungo e interessante, diciassette brani che tentennano tra il rap più classico e le più recenti inclinazioni dub e dancehall, vagheggiando tra testi intensi ed impegnati, e qualche accenno più generalista, riempitivi che in album del duemilaundici non possono mancare.
Si sente la necessità, in un genere come questo, di attivare il ricircolo dell’aria, estirpare i cliché del rapper americano gangster pieno di collane d’oro, sospensioni idrauliche, donne in bikini nei video e parolacce a profusione, insieme di elementi che l’Italia ha pensato bene di importare senza neanche chiedersi se ce ne fosse il bisogno. Ma c’è dell’altro, artisti come Doppia Erre (o guardando in altri angoli Frankie Hi Nrg, certe uscite di Babaman, il rap anti-rap di Caparezza, Uochi Toki, ecc.) che decidono che le rime sono il modo giusto per dire qualcosa, non necessariamente nel sociale, ma anche lì. Ed ecco quindi un disco completo, dove i testi non sono semplicemente un’accozzaglia di parole sparate a cento all’ora con l’ultima sillaba coincidente, ma anche un insieme di significati da scoprire ed approfondire.
Forse la pecca del disco risiede nelle basi, vagamente mosce, tipiche di un rap più blando come gli italiani tendono a fare quasi sempre (basta guardare Mondo Marcio); inoltre l’immancabile presenza di numerosi featuring, ormai cliché diventato necessario, rischia di togliere protagonismo al vero personaggio principale dell’Osservatore.

L’album scorre liscio in tutta la sua durata, con un paio di episodi particolarmente interessanti dal punto di vista lirico, metrico e musicale (“Quello Che Sono”, “La Fine è Solo L’Inizio”), decenti spunti fuori dall’hip hop (“Quello Che Sono”, orientaleggiante cataclisma dance) e ghiribizzi in rima che prendono spunto dal linguaggio più consono al genere (“Rap Tributo”). In generale, non si può gridare al miracolo, ma senz’altro un disco così si può apprezzare soprattutto in virtù della sua attitudine anticonformista nel perseguire un genere che il mercato ha voluto stravolgere e privare della sua natura: quella di raccontare storie. Dategli una chance.

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ETICHETTA: My Place, Venus Dischi
GENERE: Rock elettronico, rock italiano

TRACKLIST:
1. Livido
2. Da Dietro il Vetro
3. Semplicemente Attenta
4. Come Cera
5. La Canzone dell’Amore Perduto
6. Quindici Agosto
7. Electrowest
8. L’Impossibilità
9. Vestirti di Me
10. Tramonto Petrolchimico

Gli Alchera non sono gli ultimi arrivati. Il terzo disco, Discarica di Sogni, giunge con il pubblico preparato alle loro tematiche sempre molto “poetiche” nel modo di porsi, che ricordano le malinconiche empatie narrative di De André (di cui coverizzano “La Canzone dell’Amore Perduto”), e che in questo nuovo lavoro raggiungono, se vogliamo, l’apice dell’evoluzione stilistica dal punto di vista letterario. I sogni infranti, i desideri che non vengono mai tradotti in realtà, la nostra vita che è “una discarica di sogni”, come diceva Samuel dei Subsonica, che tra l’altro sono una delle più evidenti influenze di questi Alchera. C’è del rock con frangenti elettronici, soprattutto grazie ai sintetizzatori, ma in generale l’attitudine del disco è pop, quasi come fosse ripreso dalle eventualità cantautorali che gli si possono ancora riconoscere dentro (“Livido”). I momenti strumentali, pochi ma eccellenti, come “Electrowest”, sono delle vere e proprie deflagrazioni introspettive, affidate in toto alla capacità espressiva del loro solare songwriting, maturo e deciso, con un sound che non manca mai di sentirsi figlio dei già citati Subsonica, dei Bluvertigo o dei Depeche Mode (“L’Impossibilità”) . La pesantezza di alcuni arrangiamenti rischia di rendere l’album meno fruibile sul lungo periodo, minandone la sua caratteristica fondante: l’essere radiofonico. Non è facile uscire dai momenti in cui la voce ricorda Renga o Casale (entrambi nel loro periodo migliore, dal punto di vista tecnico e compositivo), perché in questo genere si apprezzano più facilmente le sferzate più velate à-la Morgan.

Gli Alchera sono ottimi musicisti e compositori, vicini ad un sentire pop che è tipico della tradizione italiana. Il loro punto forte è la parola, che utilizzano per descrivere sentimenti che evidentemente al nostro popolo piace sia ascoltare che esprimere in versi o in musica. La parte suonata ricorda troppo da vicino i già citati nomi del nostro panorama, e per questo si può parlare di assenza d’innovazione e originalità, però c’è anche da dire che in Italia l’imitazione sa anche trasformarsi in vera e propria sintesi, fotografando, come in questo caso, uno stato d’essere più personale che si può solo definire come Alchera. Discreto, ma particolare. Pertanto, consigliato.

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ETICHETTA: Venus
GENERE: Noise, rock, alternative

TRACKLIST:
1. Intro
2. El Cura
3. Preghiera per Artaud
4. Tornerai
5. No Soi Sante
6. Il Volo della Paloma
7. In Fondo al Mare
8. O Le Pridi
9. Dos Pesos
10. Une Bugade Di Vint

Sono già sette, incredibile.
Gli Arbe Garbe, una band di cui davvero ci sarebbe da chiedersi quanto ami suonare visto che resiste negli anni ad ogni forma d’urto tipicamente italiana riaffermandosi ed evolvendosi in maniera evidente a volte, più subdola in altre, ma sempre preoccupandosi che quest’aspetto sia rilevabile dai più.
In Arbeit Garbeit l’anima “popolare” da banda folk torna prevalente con il mescolare linguistico, e quindi anche d’indole, dell’italiano e dello spagnolo proveniente dal mondo argentino, creando già una sorta di prodotto creolo che si può apprezzare per le sue virtù, perdonatemi il termine, etniche. Aggiungiamoci che a livello musicale stiamo assaggiando un disco perfetto, dove noise, vecchie forme di jazz, alternative rock classico, folk ed elementi più tipici della nostra tradizione cantautorale si fondono senza lasciare poi tante tracce del loro iniziale esprimersi, ed avremo una vera e propria sorpresa.
Percorrendo l’intero disco, dall’intro e il primo brano “El Cura”, arrivando alla conclusione affidata a “Une Bugade Di Vint”, c’è la sensazione che un senso d’inquietudine post-rivoluzionaria sia alla base di alcune scelte stilistiche e lessicali, che sia un po’ anche il tema dei testi (come quello di “Dos Pesos”) il traino di una “maniera” di comporre che si era persa dopo De André e che la band, davvero, ci sappia fare. Serve a poco citare i Figli di Madre Ignota e i Radio Zastava, che hanno impreziosito il disco con le loro ospitate, perché Arbeit Garbeit sarebbe stato perfetto in ogni caso.

Sincerandoci che chi legge questa recensione sia anche un fan di band analoghe, lo consigliamo; non è detto che piaccia a tutti, per questo lo specifichiamo. Che poi ogni disco non è fatto per piacere a tutti, e questo è un bene tenerlo in considerazione, negli anni in cui questo concetto sembra essere scomparso. Gran prova di una band giunta ad un punto di svolta che nonostante non sia mai arrivata davvero ne attesta la maturità.

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