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Archive for the ‘GENERE: Cantautorato’ Category

ETICHETTA: Ara Music
GENERE: Pop, cantautore

Raffaele-tedesco-che-mondo-sei

Raffaele Tedesco viene da Moliterno (Potenza), Che Mondo Sei è il suo quarto sforzo discografico e per individuare meglio il fulcro dell’opera occorre dare un’altra coordinata biografica: Raffaele è stato collaboratore di Mogol, e ha mutuato da questa esperienza moltissimi tratti in comune con la musica d’autore italiana di stampo classico, a cavallo tra anni ’60 e ’90. Bruno Lauzi, Gino Paoli, Bobby Solo, qualcosa di Buscaglione e di Battisti, a questi ammiccano i testi del lucano, mentre gli arrangiamenti, fortunatamente affidati ad una squadra di musicisti molto validi, sono più moderni, sporchi di rock e di jazz, blues e black music, ma sono solo venature superficiali che rigano una piattaforma fatta di riferimenti agli anni settanta e ottanta, con il piano (di Franco Frezza) al posto dei synth. I trascorsi musicali di Raffaele Tedesco, in verità, lo vedono congiungere il suo estro creativo, di cantante e chitarrista, ma anche compositore, con nomi del calibro di Arisa e Umberto Tozzi, anche questi in piena coerenza con il percorso intrapreso in Che Mondo Sei.

Tecnicamente, a livello vocale, non c’è veramente nulla da dire. Estroso, versatile, abile nel coniugare messaggio veicolato con il testo ed emozioni comunicate con la voce, Raffaele riesce a rendere un disco se vogliamo pesante, più che altro per la reiterazione di stilemi appartenenti a determinati momenti della storia della musica italiana, attuale con la sua voce, particolare, di classe. E’ la profondità con cui analizza le tematiche scelte per le liriche che riesce ad innalzare anche il contenuto testuale e letterario, rendendo giustizia al maestro Rapetti.
Di fatto, questo disco dimostra come senza innovare niente si possa pubblicare un lavoro onesto e di grande dignità artistica, una volta preso coscienza di quanto questo possa frazionare il pubblico e destinare l’opera a chi ha un’età media superiore a quella di chi compone. Ma magari è pure un bene.

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ETICHETTA: VOLUME! Records
GENERE: Canzone d’autore

Denis Guerini è un cantautore, o meglio uno scrittore di canzoni, già conosciuto per lavori a cavallo tra musica e teatro, finiti anche nella sua discografia recente. Con Vaghe Supposizioni, l’indagine di sé stesso che diventa anche indagine dell’uomo in genere, tipica della sua produzione passata, viene estesa lungo nove tracce, toccando venature ermetiche e freudiane. Le tensioni etiche e morali, la difficoltà di dover prendere una scelta e gestirne poi le conseguenze, il bagaglio di esperienze che si accumula ma non è mai sufficiente a vivere senza commettere errori, sono tematiche che traspaiono in maniera piuttosto evidente e che con uno sguardo da osservatore privilegiato, quasi distaccato e per questo imparziale (che ricorda un po’ il narratore onnisciente in letteratura), vengono raccontate tramite canoni da noir metropolitano. L’analisi delle realtà urbane è approfondita un po’ come un James Ellroy o, in Italia, un Loriano Macchiavelli (che ha pure trasformato molti racconti in radiodrammi per la RAI), della musica.
Il contento musicale è incredibilmente variegato, ma rimane nell’ambito delle tinte scure, raramente schiarite da qualche uscita più lieta, magari swing o jazz, mentre in generale prevalgono la tradizione cantautorale italiana, qualche salto fugace nel rock e i primi germi di una contaminazione elettronica che potrebbe farsi più presente nei lavori futuri, visti gli ottimi risultati. In linea di massima, i vari generi toccati vanno a sottrarre coesione al disco, ma la coerenza tra musica e apparato testuale è fuori discussione, a livello di tonalità, colorazione, sfumature sonore e atmosferiche.

Denis Guerini, con questo album, dimostra ancora una volta come in Italia ci sia una radicata tradizione cantautorale, in grado di associare musica e testo – sempre con maggiore importanza alle parole, sia chiaro – con la consapevolezza della restituzione di un messaggio complesso e artisticamente rilevante. Di nuovo, un bel disco italiano di cui c’era bisogno.

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Recensione scritta per Music Opinion Network

ETICHETTA: Novunque
GENERE: Musica d’autore

Poetry, titolo dell’ultimo lavoro del cantautore casertano trapiantato a Roma Valerio Piccolo, trova questo suo nome proprio dal materiale che ha originato il disco che stiamo recensendo: nove poesie che l’artista ha fatto comporre per il progetto in questione da autori letterari e musicisti americani. I nomi non sono certo sconosciuti poiché parliamo della storica cantautrice californiana Suzanne Vega, l’autore del best seller The Fortress of Solitude (in italiano La Fortezza della Solitudine) Jonathan Lethem, il critico musicale del New Yorker Ben Greeman e molti altri. I consensi raccolti dall’artista in ambito musicale ma anche teatrale lo hanno visto legarsi più volte a doppio filo con il mondo newyorkese e collaborare con tantissimi esponenti della scena italiana e non (Paola Turci, Andrea Costa dei Quintorigo, Neri Marcoré e un’infinità di altri) e si può certo dire che tutta questa esperienza in ambito di collaborazioni gli ha permesso di scegliersi in maniera molto accurata anche le figure di cui si è attorniato stavolta. 

Nel disco, che per la cronaca è in lingua italica tradotta direttamente da Valerio, riappare anche il già citato Marcoré nella splendida “Maledizione”, filippica contro un innominato destinatario carica di una tensione in equilibrio tra il comico dei poeti giullareschi del trecento (come l’aretino Cenne de la Chitarra) e l’insulto velato, mai volgare. “Chiacchiere da Bar” ci porta nel mondo della quotidianità, dove la banalità delle giornate porta a dare significato alle dicerie e ai cicalecci più che a ciò che realmente si conosce o dovrebbe importare. Logicamente, bar e osterie, ma anche barbieri e saloni di bellezza, sono il luogo ideale per questa pratica talvolta vicina alla diffamazione. Non è un caso, di conseguenza, se il concetto del locale ritorna anche nella conclusiva “Un Barman all’Inferno”, distesa e melodica conclusione di un disco che si configura più come un mosaico di armonia ed proporzione, mentre discordia, dissonanza e cacofonia rimangono solo nel contenuto dell’universo lirico. La poetessa Sarah Manguso (autrice di una delle poesie ispiratrici del progetto), del resto, aveva scritto sei anni fa (e qui parliamo di prosa) The Two Kinds of Decay. Il mondo della recitazione entra a pié pari nell’entourage artistico di cui si circonda l’artista campano grazie agli attori che mettono in scena il video del singolo, “Ordine”, tra cui citiamo Lucia Ocone, Maya Camerini e Arcangelo Jannace. 

Che dire, “Poetry” non è certo un disco consueto per il panorama dello Stivale. Attingendo da fonti letterarie composte appositamente per essere poi musicate, di fatto, stravolge le mode del citazionismo che stanno iniziando a diventare davvero anacronistiche ed arcaiche, più che altro per il senso di vissuto che evocano o la poca cultura “reale” di chi se ne avvale. Bene ha fatto dunque Valerio ad inventarsi questo stratagemma, completando poi l’opera grazie a un songwriting che non trascura mai gli arrangiamenti e la costruzione dei brani. Nessuno di questi, difatti, risulta convenzionale, dozzinale o insipido, sorvolando o evitando di affrontare tutte le classiche dinamiche del cantautorato dei “quattro accordi”. Quando un disco passa ad essere un’opera d’arte e non solo un album, si può dire un successo. 

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Articolo a cura di CLAUDIO MILANO

ETICHETTA: Leo Records
GENERE: Songwriting

TRACKLIST:
1. Glad To Be Unhappy (R.Rodgers/L.Hart) – 6’05”
2. Brighten (for Teresa) (A. La Volpe) – 5’17”
3. The Solitude Of Things (A. La Volpe) – 3’55”
4. The Crisis (S.L. Mangia) – 5’40”
5. Rush (S.L. Mangia) – 4’04”
6. Is This Your Time? (S.L.Mangia) – 4’50”
7. Is Love An Illusion? (S.L.Mangia) – 4’34”
8. Purple, Lavender, Black (A. La Volpe) – 7’39”
9. Unhappy To Be Glad (S.L. Mangia) – 5’44”

Voto: 8

Web:

http://www.stefanoluigimangia.it/

Suoni elettro-acustici estranei ad ogni tradizione italiana introducono con dolcezza alla materia dell’album. No, la copertina di Maria Teresa De Palma come poteva ingannare?
Un’opera incantevole, che anche se solo fotografata, riesce a comunicare una morbidezza fanciullesca, nonostante ritagli di reticolati metallici, sagomati ad alberi e sole/luna, affiancati da cartoncini di diverso colore e forma, la scritta “viens avec moi”. Elettronica, dicevamo, a ricreare fanciulleschi glockenspiel affiancati ad una chitarra acustica appena sfiorata, ad una melodica altrettanto accennata, il notevole timbro della tromba di Giorgio Distante e… la voce. Quella di Stefano Luigi Mangia, didatta ed interprete, che solo l’ascolto del disco saprà chiarirvi perché, ad oggi, non alla ribalta di cronache e classifiche di sorta. Per paradosso. Si, proprio per paradosso.
Stefano, assieme a Dalila Kayros e John De Leo, è per chi scrive la voce più importante del panorama italico a latere e non. Quello che fa della scuola della Nuova Vocalità humus fertile per chiunque a livello mondiale voglia avvicinarsi ad una nuova estetica del canto. Perché si, se si eccettua l’ultima decade, in Italia “saper cantare” è stato sempre importante.
Mangia, conosce il linguaggio del jazz, tradizionale e non, della lirica, da quella “classica” a quella strettamente “contemporanea”. Ma è anche esperto in emissioni “estreme”, armonici, subarmonici, suoni aritenoidei, fischi (whistle register intendo, non il “fischiare”). Il tutto ottenuto in assoluta leggerezza, senza mai impiego di troppa aria e “proiezione”. Stefano è eleganza, grazia, ma non è mai mellifluo. E’qui che troviamo l’interprete, oltre che al cantante. La sua emissione sa essere carezzevole, fragile, ma sempre estremamente intima, profonda, cosa che lo rende adatto tanto ad un repertorio brillante che ad uno drammatico. Mangia non è un’esperto di beatboxing come Savoldelli, Hera, De Leo, ma se affronta un pezzo sa portarti dagli inferi alle stelle, accarezzandoti l’anima fino a commuovere. Nella sua voce c’è la “pasta” del jazzista vero, non del funambolo d’intrattenimento, per quanto colto. Nina Simone, Chet Baker, Tim Buckley, Paolo Saporiti, emergono dalle sue corde creando paralleli improbabili con l’amore per Stratos (studiato, rimasticato, ma MAI citato), la frammentazione linguistica di Phil Minton, il candore del canto da tenore leggero tardo medievale. Il suo è un canto fatto di sensi in costante seduzione, già a partire dall’iniziale Glad to Be Unhappy, emozionante ed emozionata rilettura del brano di Rogers/Hart. In Brighten (for Teresa) del compagno di viaggio e chitarrista Adolfo La Volpe, è l’elettronica a creare un substrato etereo e tremulo su cui s’appoggia un canto di gran levità, perfettamente “centrato” nell’emissione, anche sulle frequenze più gravi, dove mai viene cercata potenza superflua. Anche il solo di tromba, s’adagia su una materia fatta di cotone inumidito di umori tristi e si muove trasversalmente. Ecco, l’armonia in questo disco è del Novecento rinnegato, ma non suona mai disturbata, andando a lambire le grandi riletture degli standard classici nella stessa edificazione del nuovo. The Solitude of Things, di Volpe, ha questo sapore, quello di un nuovo standard. Nel finale, suoni di “prevocale”, giochi dal sapore infantile echeggiano sapori della psichedelia barrettiana. Non avesse la stessa fame acida, il parallelo naturale di Mangia sarebbe la, vergognosamente dimenticata Patty Waters. The Crisis ha il sapore delle melodie crimsoniane di Discipline, ma presenta improvvisi “crolli” microtonali, che affiancati ad un’estetica da musique concrete e a un’estetica glitch, non possono suonare null’altro che portatori di un’identità inequivocabile.
Il sistema armonico misto della superba Rush, le sue armonizzazioni aperte per elettrica, sembrano portare il Sylvian di Blemish e Manafon a casa del Buckley Sr. di Anonymous Proposition, tra colori di un’elettronica pari a pulviscolo alchemico che letteralmente stordisce. Un gioiello.
Ancora la penna di Mangia su Is This Your Time, dove, per la prima volta nel disco si ascoltano dei “fortissimo” vocali associati a escursioni impressionanti, che da subarmonici sull’ottava 0, superano progressivamente l’estensione del piano emulando e battendo in possibilità timbriche elettronica e chitarra elettrica. Fumettoso, teatrale, intenso, qui, tanto più, unico, sorprendente, conturbante, gli altri aggettivi trovateli voi, non vi mancheranno. Is Love an Illusion si apre con una pioggia rumorista che mai però conduce ad una vera disintegrazione della forma, tant’è che presto appare il canto, con una melodia non meno che splendida. Per chi scrive, altro gioiello del disco, essenziale nel suo svolgimento lineare. Purple, Lavender, Black, ha il colore di certa saudade, accarezzata tante volte dalla voce di Wyatt ed è un altro episodio a firma La Volpe. Dopo il solo di tromba, sorprende il deragliamento su lidi acidi con voce in aspirazione, funzioni detune ed esplorazioni dello spettro sonico in salsa avant-psych. Unico momento autenticamente terrifico dell’opera. Si torna su momenti di una morbidezza assai più rassicurante con Unhappy to Be Glad.

Conclusione: L’anti-indie italico, ma anche l’anti jazz italico, qui non c’è puzza di paraculismo, fighettismo, scazzo, accademismo, snobismo, autocompiacimento nell’essere “bravi”. Piacevole ma non confortevole, estremo ma intimissimo e accarezzato da melodia vera, avvincente, non è un caso che Glad to Be Unhappy sia stato pubblicato da un’etichetta straniera illuminata come la Leo Records, che stia trovando casa tra radio di tutto il mondo, ma che le recensioni italiane ad esso dedicate, abbiano colto il suo essere “sfuggente” non come stimmate artistica, ma come limite, brancolando nel buio.
Per chi scrive, il disco di cantautorato nobile italiano più bello da tanto tempo a questa parte, assieme a The Restless Fall di Saporiti, L’Abito di Alessandro Grazian, Tutta la Dolcezza ai Vermi di Pane, al migliore Capossela e Humpty Dumpty, ma si sa, appena subentra qualcosa che non sia immediatamente e unilateralmente codificabile come minima variante sul tema, critica e pubblico oggi, fanno spallucce e relegano in un cantuccio.
Figuriamoci se Stefano lo merita, a lui, solo assoluto rispetto e gratitudine.

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Recensione a cura di RITA GRASSI

ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Cantautore

La prima cosa che viene in mente quando si ascolta “Estro ci Vorrà”, il disco di esordio del cantautore campano trapiantato a Perugia Tito Esposito, è di sicuro “peccato la produzione”. Un vero peccato perchè siamo di fronte a ottime canzoni di stampo puramente italiano come non se ne sentivano da tanto e la produzione un po’ scarna e artificiale (pochi gli strumenti suonati davvero nel disco e tanto computer) forse penalizza un po’ la resa finale. Il rammarico è doppio perchè viene automatico pensare “chissà come sarebbe stato questo disco con una produzione adeguata, chissà dove queste canzoni sarebbero potute arrivare”. L’attenuante è che siamo di fronte al primo disco, alla prima esperienza, alla prima vera prova sulla lunga distanza di un autore giovane ma dal talento innegabile. Attendiamo quindi il secondo disco con la speranza che l’esperienza aggiunga quel tassello in più in grado di restituirci un grande protagonista della musica italiana degli anni avvenire, così come questo primo disco al momento lascia solo intuire.

Rita Grassi

SCARICA “ESTRO CI VORRA’”
http://www.mediafire.com/download/oqqb19fijpmwq85/Tito+Esposito+-+ESTRO+CI+VORRA.rar

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https://www.facebook.com/pages/Tito-Esposito/159814734045386?fref=ts

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Top Records
GENERE: Cantautorale, rock

E’ passato così poco dal disco precedente, eppure il miglioramento è così evidente. Il nuovo lavoro della cantautrice Teresa Mascianà, “Shine”, non così posteriore al comunque apprezzabile “Don’t Love Me”, mette in evidenza le radici che l’artista ha piantato in un terreno, quello della musica d’autore, che pullula talmente tanto di continue nuove entrate da risultare ormai da tempo marcescente. Dal marasma di musicisti stampino Teresa si dissocia ampiamente, spiccando il volo verso lidi diversi, contaminando il suo blues rock di elettronica, beat, pop ad alto dosaggio e qualche eccesso di ballabilità, come in “Have a Good Time”, che davanti al giudizio complessivo dell’album sicuramente non stona. Le esperienze statunitensi e britanniche, ma più in generale i viaggi in tour dentro e fuori l’Italia, hanno lasciato nell’artista un tocco quasi internazionale che sicuramente produrrà ulteriori ottimi frutti nell’avanzare di questo percorso. Impossibile dare un verdetto sulla bellezza di queste canzoni senza passare per i testi, spesso storie di una donna (forse la stessa protagonista?) che ha a che fare con la brutalità del maschilismo e dell’ignoranza, senza troppe valutazioni morali né pesantezze bigotte, soppesando le parole in maniera da farne più che altro una storia dotata di un verismo quasi verghiano. E poi c’è “Carry Me On”, che dietro ad un apparato noise-friendly nasconde lontani echi noise e addirittura trip-hop, a rappresentare l’eguale importanza di parole e musica in questo possente Shine, opera di realismo quasi interartistico che se anche la pochezza dell’italiota media vorrà dimenticare in fretta, sicuramente non dimenticheremo noi.

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Recensione scritta per il circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Volume! Records
GENERE: Cantautorato

Di domande è obbligatorio porsene molte di fronte ad un prodotto del genere. Le canzoni, l’album, il progetto del cantautore astigiano Massimo Lepre stesso, necessitano tutti perlomeno di una spiegazione. Per questo la redazione di The Webzine rimanda all’ottima intervista realizzata su Grandi Palle di Fuoco.
Focalizzando la propria attenzione sulla musica, Il Prefagiolismo non è certo del livello di stranezza che promette il suo titolo, e questa di per sé è una piacevole sorpresa. Pretendere particolarità, spesso, garantisce un certo grado di delusione. Lepre in realtà ci regala, con un velo di integerrima semplicità, un onestissimo disco di cantautorato italiano. Le somiglianze si possono tranquillamente lasciar perdere, vista la personalità dei brani, tutti molto caratterizzanti. Si scolpisce così l’immagine del progetto, un leggero e soffice collage di canzoni che non chiedono altro che essere ascoltate per lasciar trasparire che cos’è Marrone Quando Fugge. Tuttavia, degli ascolti più volte citati da Massimo Lepre, si riconosce immediatamente una vena di Capossela, ma anche qualche striatura di un altro artista ammesso come influenza, ovvero Daniele Silvestri. Molti sono gli ospiti e sebbene non contribuiscano in maniera notevole alla buona riuscita del lavoro, danno l’idea anche di una certa ambizione dell’artista, un senso che si avverte ascoltando il disco, e che contribuisce a renderlo qualcosa di degno di nota. Per questo, ci arrendiamo ad un altro disco di buon cantautorato, uno dei pochi generi su cui si fallisce molto raramente.

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Recensione pubblicata sul circuito Music Opinion Network

Il nuovo lavoro di Benny Moschini esce come un fulmine a ciel sereno da una scena musicalmente non molto fervida, negli ultimi tempi: quella napoletana. Lontano dal folk, dalla neomelodica e dalla musica pop dai toni patriottici, Benny, giovane cantautore di soli 31 anni (non molti nel nuovo millennio in cui non si sfonda più da minorenni se non sei un prodotto per ragazzine) che ha intrapreso un percorso non dissimile da altri in Italia, anche se comunque rivissuto con una personalità notevole, ovvero quello del rock americano, un orientamento internazionale solo a malapena sporcato da un’impalpabile italianità. Il lavoro di Droghetti, celebre produttore di Bennato e altri, è molto raffinato, così come la scelta dei suoni che vivacizza una musica aggressiva al punto giusto, senza mai sfociare nel tagliente, mantenendosi nei limiti che si confanno a una venatura da musica d’autore. Non mancano ballate e influenze elettroniche che ricordano il suo passato nel DJing e nel soul, anche se testualmente è difficile incasellare l’artista in definizioni di sorta. Il modo di narrare delle privazioni e delle emozioni, delle conquiste, delle metafore che rappresentano l’autore e il suo scrivere, è assolutamente personale e imparagonabile, a meno che non tiriamo in ballo artisti che esulano dal contesto musicale, come un certo Foscolo o un certo Saba. I toni sono talvolta giocosi (“Matta”), altri più grigi e cupi, ma di nuovo riferendosi alla follia come nel pezzo precedente (“Amaro”), collerici e sporchi di bile (“Rabbia”), meno lucidi ma pur sempre ficcanti (“L’Amore E'”), pezzo di un’evidente scontatezza ma che sorprende sulle lunghe distanze.

L’album è concepito in maniera congeniale al suo apprendimento ed è un lavoro più apprezzabile sulle singole tracce che nel complesso. La visione d’insieme perde un po’ del collante psicologico che si avverte in certe sue sezioni, in taluni momenti, sebbene sia più che gradevole, nonché palpabile ed evidente, l’impalcatura ideologica e letteraria su cui i testi sono composti. Le tesi dell’autore sono sempre ben riconoscibili, malgrado qualche espressione macchinosa o troppo banale, e questo aiuta nella comprensione dell’emozionante viaggio cui ha voluto rendere partecipi i suoi ascoltatori. Un disco sincero ma da capire per non rischiare di sottovalutarlo.

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la recensione sarà pubblicata sul circuito Music Opinion Network

ETICHETTA: Tomato/CNI
GENERE: Cantautorale, soul

Da Davide Geddo si sapeva già cosa aspettarsi. Artista di qualità tra le realtà migliori della scena ligure, ritorna con un nuovo lavoro che trasuda frizzante inquietudine e dotato di un’urgenza comunicativa di cui si fregia in maniera intelligente. Non Sono Mai Stato Qui è un album completamente a sè stante rispetto al contesto storico in cui è stato partorito e pubblicato, appartiene ad un estro creativo di natura intimistica che volge il suo sguardo all’arte bohemièn così come a certi romanzi satirici, fumettistici, dall’aria, quindi, ironica. Ironia è, per esempio, una delle parole che reggono l’impalcatura dell’impianto testuale, fatto di un’apprezzabile quanto beAn creata atmosfera di particolare rabbia, rabbia motivata dall’appartenenza a una generazione che tanto ha sbagliato, rabbia nell’accusare i danni di un modo di vedere il modo che ha prodotto solo effetti negativi. Realtà appiccicata ad una giusta collera dentro un contesto letterario sito su un piano comunque personale, dove non mancano riflessioni sulle proprie esperienze, intelligenti digressioni e autocritica. Musicalmente si tasta una certa voglia di ribaltare il tenore malinconico ma pizzicante dei testi, per passare a qualcosa di più raffinato e ballabile, gradevole all’orecchio allenato, in una fusione estremamente ben realizzata di jazz, atmosfere gitane, folk e accordi di base che, detta così, ci stanno sempre.

Non un disco facile digeribile dal primo ascolto, ma neppure uno di quei pesanti macigni che le star dell’autoreferenzialità italiana ci propinano a ogni pié sospinto. Rientra in un’ottica di diffusione della buona cultura testuale italiana, in una nazione di gente che sa pensare e sa scrivere, ma che si occupa principalmente di cose diverse dalla musica. Geddo ha coniato tutto questo con un solido background di formazione musicale che, vista la qualità di questa sua seconda creazione, ripaga, mostrando la via da seguire ad uno degli elementi principali di una scena, quella ligure, che può esplodere in un immediato futuro, grazie anche a questo prodotto.

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ETICHETTA: Controrecords
GENERE: Cantautorato

TRACKLIST:
1. La Rebellion
2. Amore Amore Amore
3. Dal Carcere
4. Il Ragazzo e la Città
5. Dimenticata
6. A Night at Holiday Inn
7. L’Ultima Parola
8. Un Nome Che Sia Vento
9. Il Concerto
10. Sol Major para Comandante
11. Opera du Sahel

Su Paolo Andreoni, cantautore bergamasco, si potrebbe speculare e dissertare a lungo. Che genere faccia, che direzione voglia dare al disco, quale sia il succo o il filo comune di queste undici tracce, tutto ciò sembra sfuggire. Una cosa innegabile e certa c’è: non siamo di fronte ad un personaggio normale, piuttosto all’incarnazione di una fenomenologia cantautorale tutta italiana che muove i suoi passi distinguendosi a pieno titolo da tutta la superficie mainstream (Brunori Sas, Dente, Vasco Brondi, ecc.) per stropicciare spartiti delle vecchie glorie di Santercole, Lauzi e, perché no, Paoli e Dalla, ricoltivando quella passione per la musica di contenuto che, diciamoci la verità, ultimamente si è persa.
Tradizionale, comunque, lo è poco questo Un Nome Che Sia Vento, mélange di ogni cosa si possa immaginare suonata, dal blues alla musica etnica, dal folk a De Andrè. La title-track e “Il Concerto” hanno molto del genovese, ma la perdita di identità del disco continua lungo tutta la sua durata, sterzando a destra e a manca, un po’ alla deriva, assestando duri colpi al concetto di semplicità d’ascolto. Fluttua un po’ qua un po’ là Andreoni, tra la semplicità spontanea ma a suo modo lirica di “Dimentica” e gli anni ottanta di “Dal Carcere. Ci sono poi quei brani, come “Il Ragazzo e la Città”, che ti fanno pensare a Dylan e Springsteen, ma con un respiro più italiano, come una sorta di quest cavalleresca aggiornata ai nostri tempi, con l’America deludente di Fitzgerald che diventa la Lombardia (senza mai citarla). La libertà, sicuramente fondamentale per questo disco a livello testuale, si traduce comunque in una sorta di attitudine free jazz, non dimenticando neanche le derive etniche/tribali degli ultimi lavori dei CSI (e non a caso è il primo disco del Consorzio Suonatori Indipendenti ad essere citato dall’autore stesso come una sua influenza, Ko De Mondo; c’è poco invece di un altro disco citato, Kid A dei Radiohead), pur se distante da un’ispirazione politica o un respiro caldo d’impegno sociale. Intimismo e platonismo, più che altro.  

Una volta sprecate tutte queste parole lo possiamo dire: questo disco è un toccasana per questa scena, un vero, piccolo, cristallino capolavoro.

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ETICHETTA: Controrecords
GENERE: Cantautorato

TRACKLIST:
Venire al Mondo (Prima)
E’ Successo
La Lingua
Facciamo Pace
Quasi Quasi
English Soup
Uomo Bianco
La Via Lattea
Un Diritto Mio
Fuori di Me
Cambiare Musica
Venire al Mondo (Dopo)

In passato The Webzine trattò già l’ironia tagliente e pulsante di Paolo Rigotto, nel suo ottimo Corpi Celesti. E’ passato poco tempo e Uomo Bianco è un’altra eccezionale prova di humor crudo e poliedricità come volevamo sentire nuovamente. Da “Venire al Mondo”, nella versione (Prima), iniziale, e (Dopo), conclusiva, fino alle impegnate “Quasi a Quasi” e “E’ Successo”, brandelli di espressionismo e quotidianità si fondono per raccontare con pratico realismo la concretezza di alcuni problemi, sociali o politici, nei quali trova sempre il modo migliore di riversare su traccia quella mordacità quasi satirica che lo contraddistingue. Anche religione in “Un Diritto Mio”, mentre “Cambiare Musica” e “Fuori di Me” mostrano un po’ di più della concezione personale di Rigotto nel fare musica, senza mai dimenticarsi una certa soggettività delle liriche. Difficile etichettarlo, questo oceano di pop, rock, elettronica e testi che talvolta schizzano in una sorta di rappato d’oltreoceano, e ci piacerebbe, pertanto, definirlo con una frase di Paolo:

Sono bianco quindi con imbarazzo riconosco di essere io stesso l’Uomo Bianco

E’ così che si riporta questo disco a tutti noi, come fosse un manifesto di una civiltà corrotta e a suo modo caotica. Caotica come la musica di Rigotto, un pot-pourri di generi mescolati con così tanta attenzione e originalità che al ventesimo ascolto può ancora stupire. Siamo ancora qui ad ascoltarlo, chissà per quanto tempo ancora.

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Cantautorato

TRACKLIST:
1. La Migliore che Ci Sia
2. Il Mio Rumore Bianco
3. Il Male Minore
4. Complicitè

sassi caduti dal cielo altro che fabbriche di desideri, altro che simbolo di educazione
sassi sparati da dentro un cannone

sassi tenuti lontano, sassi che a volte ti scappan di mano
sassi che portano rivoluzioni

“La Migliore che Ci Sia”, il brano inaugurale di questo EP, ci spiega subito a cosa si riferisce il titolo del disco. Questi sassi dal forte valore metaforico e allegorico, che ci guidano ad un album pieno di simbologie e di testi da digerire a fatica, dopo averli studiati bene. E’ cantautorato fatto con una certa cura, musicalmente impreziosito da una raffinatezza di toni e di maniere che lo rende quasi lo specchio lucido e luccicante della bellezza delle sue liriche. “Il Male Minore” e “Il Mio Rumore Bianco” serpeggiano verso direzioni più languide e malinconiche, dalle parti di certo grande dream-pop d’oltreoceano e oltremanica, e “Complicitè” regala all’album la veste candida e semplice che il suo bilinguismo (italiano-francese) tende ad appesantire. La tristezza rabbiosa di alcune parti dei testi non basta a mettere di malumore: questo disco è veramente una spiazzante sorpresa, incipit, si spera, di una sua espansione che derivi verso territori sempre così originali e intensi, con la possibilità di raccontare più cose con una durata maggiore.
Lo sbigottimento non è mai troppo, di fronte alla musica ben fatta che latita sempre di più nei nostri stereo. Ascoltare questo EP è la sconvolgente prova che la nostra scena cantautorale è finita: il capolavoro-eccezione che conferma la regola che, non a caso, proviene da Pisa. Squisito.

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ETICHETTA: Red Birds
GENERE: Cantautorato

Nella mente di chi ha pensato il progetto Il Sogno Il Veleno deve esserci stati tanta cultura musicale. Il risultato è un temibile ma azzeccatissimo incrocio tra Celentano e Capossela, tra gli anni ’60 e gli anni ’90, tra la cautela della forma canzone popolare e il cantautorato leggermente più lavoricchiato di Guccini, Jannacci e Buscaglione. Cinque decenni fa succedeva molto, e non ci si stanca mai di ricordarli: Piccole Catastrofi è un manifesto di questo sentore di passato migliore, tra riferimenti storici e politici e semplici racconti che da quegli anni traggono i loro colori e le loro ombre.

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ETICHETTA: Reincanto Dischi
GENERE: Cantautorato italiano
http://www.andreagianessi.it/

Canzone d’autore con le ali. Originalità che sprizza in ogni inserimento percussionistico, nella tensione sformata del riferimento al quotidiano e della polemica, con la centralità della voce che batte intensamente il territorio ambiguo della politica. Un disco intriso di poesia, di flauti, di strumenti particolari che gli donano anche multietnicità. Forse troppa, ma non è certo smodata la maniera in cui si cerca di renderlo internazionale.
Il modo più aggraziato di dire la propria senza risultare il classico cantautore con la chitarrina acustica.

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ETICHETTA: Infecta Suoni&Affini, Venus Dischi, Face Like a Frog Records
GENERE: Indie rock, new wave, alternative rock

TRACKLIST:
1. Helsinki
2. Non Preoccuparti Bambina
3. Vendere i Soldi
4. La Provincia (con Andrea Appino)
5. Dettagli
6. L’Individualismo vi Farà Morire Soli (con Matteo Dainese e Ceskova Midori)
7. Il Figlio Gaio!
8. Padre la Smetta
9. Una Lega di Matti
10. I Pezzi di Merda Non Muoiono Mai
11. Mente Animale

Si potrebbe recensire questo disco citando qualche frase a caso, per comunicare il mood generale. Lo faremo:
E’ lui (il tuo vecchio, ndr) che ti ha detto che tutto sommato è solo una questione di testa. 
Sento di avere qualcosa di rotto in me, mi si son rotte le palle. 
Ed è il più furbo è chi ne sa approfittare e ti consiglia pure di fare uguale.
Tu guardi Helsinki con gli occhi di chi ha gli occhi stanchi di stare qui


L’individualismo-o-o vi farà morire soli
, che è anche il titolo di una delle canzoni più catchy del disco, introduce uno degli argomenti portanti del disco: la stanchezza disillusa di questi giovani ragazzi, i Nu Bohemien, verso l’italiano medio, verso quell’ipocrita egoista che non conosce sentimenti di morale comune, di vero patriottismo equo e altruista, di legalità o perlomeno di coerenza personale. Solidi e chiari i messaggi convogliati, la disgrazia delle nuove generazioni con solo un pezzo di carta igienica come laurea, metafora abusatissima ma in momenti di lucidità come quelli dell’intero spettacolare La Consuetudine del Sentito Dire sempre buona a far capire il pensiero di fondo. Ce n’è per tutti, dal Vaticano ai luoghi comuni di una società sempre più in affanno per il senso di perdita dell’identità nazionale o semplicemente di una società troppo tradizionalista (impeccabile in questo senso la logorrea velatamente politicizzata di “Una Lega di Matti”). La qualità dei testi è mediocre, con espressioni talvolta ridondanti seppur dolcemente macabre, ma l’acerbità è presto ricambiata da un sentimento post-cantautorale tipicamente folk che ricorda molto gli artisti di strada oppure i trovatori, vogliosi di raccontare storie al popolo come veri menestrelli dell’ogni giorno. Una tenuta da buskers, gonfia di chitarre acustiche e ritmi danzerecci, che gli fa certo onore.

Chi se la prende sempre in culo sono gli operai, dicono qui, loro che forse, come tanti giovani italiani, in fabbrica non ci sono andati e non ci andranno mai, ma è facile capire perché questo disco può trovare successo: si infila in una sequenza di dischi socialmente impegnati che dopo aver iniziato a stufare tempo fa sono tornati in voga tra folk rock e cantautorato, dapprima con una nuova linfa, poi con cliché che si sono riverberati fino a qui, fino a questi Nu Bohemién che pur ripetendo gli stessi schemi riescono a rompere la banalità quasi triviale di una scena stagnante. La stessa scena che dopo gli Zen Circus (anch’essi peggiorati ultimamente), il cui Andrea Appino è presente in questo disco alla sei corde, aveva perso la sua carica narrativa di una quotidianità che era stata ormai troppo sviscerata da quell’ironica opacità che li contraddistingueva per permettere nuove imitazioni.
Razionalmente non diremo che è un capolavoro, ma la musica è anche cuore ed energia. Istintivamente è emerso un vero impulso ferino, animale, selvaggio, nell’ascoltare questo disco, quasi un sentimento riottoso di prepotenza ribelle, come a dire “hanno ragione, scendiamo in piazza e spacchiamo la faccia a tutti”. Ma la terribile realtà è che l’errore nostro di italiani sta proprio lì, nel lamentarci sempre, in maniera poco costruttiva, talvolta abbassando troppo i toni fino ai livelli infimi di certa volgare musica di protesta. I Nu Bohemién, fortunatamente, non appartengono a questa categoria, ed è per questo che li apprezziamo.

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ETICHETTA: Contro Records
GENERE: Cantautorato

TRACKLIST:
1. Terra
2. Ali
3. 22:47
4. Dove Andiamo
5. Il Lento Disgelo
6. Poco Alla Volta
7. Patriota
8. Ogni Uomo
9. Scintille

Il lento disgelo potrebbe essere quello che sta accadendo alla nostra musica. Dove il ghiaccio, però, deve rappresentare l’originalità e la voglia di esprimere qualcosa senza attaccarsi alle mode. Dove sciogliersi significherebbe, pertanto, perdere la bussola e andare alla deriva in un oceano inquinato e impersonale, dove i trend si presentano puntuali sulla scena salvo togliere il disturbo poco dopo. Davide Tosches non sale a bordo di nessuno dei blocchi di ghiaccio stabili rappresentati dai fenomeni del momento, e non proclama neppure il possesso di qualche iceberg già distaccatosi. Questo disco è la pura e semplice essenza del suo pensiero di musicista: produrre ciò che si vuole produrre, comporre ciò che si vuole comporre, in sintesi suonare quello che si vuole suonare. Dalla prima bellissima perla “Terra”, passando per la strumentale “22:47”, quasi incarnante un’entusiasmante pastorella musicata, ma senza i dialoghi, e toccando l’apice espressivo, nei linguaggi cantautorali, con la tipicamente italiana “Poco Alla Volta, questo disco è un variegatissimo miscuglio di tutto ciò che la buona musica nazionale ci ha insegnato ad apprezzare, dentro e fuori i suoi confini. Fossati, Battiato, Gazzé, Guccini, Tenco, De Gregori, la tradizione classica, il jazz (“Dove Andiamo” ma anche gli altri inserimenti di fiati sparsi lungo il disco), le piccole venature noise in salsa acustica. Non mancano gli ospiti d’onore, in primis Dan Solo, ma non è per questo che questo album rappresenta qualità e sicurezza d’impatto. A stregare l’ascoltatore è una folgorante semplicità che non perde mai la sua attenzione al dettaglio testuale né la genuinità del discorso pittorico, quasi a voler dipingere, con ogni brano, una tela diversa di una storia che non necessariamente tutti devono interpretare allo stesso modo.

Musica per tutti che non si sentirà dovunque, ma che rappresenta l’eccezione alla regola del disgelo collettivo.

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Recensione a cura di CLAUDIO MILANO
ETICHETTA: Dischi Obliqui
GENERE: Nuovo cantautorato

TRACKLIST:
1. Morton
2. Blues Morto
3. Whodunit!
4. Vangelo Secondo Alessandro
5. Interludio a Forma di Croce
6. Il Terzo Stile
7. Madonna con Cilicio
8. Beba la Moldava
9. Non Lasciarmi Mai

Voto: 7

Tutti i giullari del mondo

Buffo periodo eh?
Politici sempre più involontariamente comici e comici volontariamente politici, musici che agiscono alla corte di questa nave dei folli, come gli antichi giullari, dicendo quello che
pensano tra frizzi e lazzi, senza sporgersi mai in maniera troppo sconveniente nelle forme musicali (sarebbe di “cattivo gusto”, si dice…), ma agendo con ironia pungente nelle parole.
Eppure, tanto più abbiamo voglia di ridere (e ne abbiamo, altroché!), tanto più sembriamo, profondamente tristi, “vuoti”.
I Casa tornano ad agire in quest’alveo culturale con Crescere un figlio per educarne cento e ne sono specchio fedele attraverso un cantautorato artsy certo vero e di quello che “butta
oggi”. Morde poco e quando lo fa lo sa fare con discrezione e attraverso un gioco maturo. Il segno però, badate, piccolo, ma rimane. Suonano vivi, sensuali e mostrano perizia tecnica, ma non si lasciano mai andare, mostrano personalità nel rimescolare formule, ma non se ne allontanano granché. Eppure non sono qualunquisti, la loro la dicono tra questi solchi, in un dischetto che parla di un argomento tanto caro alla nostra vecchia Italia: il sentimento religioso, ben legato nelle sue contraddizioni ad un profano che a ben vedere ha si del grottesco. Il tutto in contrapposizione, in una sorta di concept, a quell’ ateismo tanto invocato ma negato dal fiorir di bestemmia della terra alla quale questi quattro musici appartengono, il Veneto. Del tipo, “non ci credo perchè odio”.
Morton esordisce con un canto declamato con fare impetuoso, ma non senza ironia teatrale su testi-racconto dalla metrica ondivaga, mentre il sax di Giampaolo Bordignon impazza in maniera dichiaratamente free e slegata dal resto, bella intuizione. Bisbigli elettrici accompagnano il tutto come il rumore di fondo in una città ci rende insonni senza farci sapere il perchè.
Blues morto gioca ancora con l’ironia in modo noir appoggiandosi al racconto e alla voce. Chitarre elettriche e armonica aggiungono il colore fumettoso di un film di Tarantino. Whodunit! è brano di grande rilievo, il migliore del disco, per la capacità di staccarsi completamente da una forma-canzone più lineare, trovando invece nella perfetta aderenza tra racconto, canto e strumentazione il suo punto di forza, senza risultare mai “pesante”. Si tratta di una canzone/composizione semplicemente perfetta e suggestiva. La voce tenorile e volutamente nasalizzata di Filippo Bordignon figlia del Tim Buckley più fortunato (musicalmente, s’intende), di John De Leo, dell’Alan Sorrenti di Aria, ma sardonica quanto quella del primo Alberto Fortis e non aliena alle bizzarrie di Lorenzo Esposito Fornasari dei Transgender, incontra evoluzioni di grande effetto spingendosi sulle sue frequenze più acute, dove trova personalità e incanto di armonici. Notevole anche il contributo percussivo, qui di grande impatto emotivo. Interludio a forma di croce è un soffuso e tradizionale bozzetto jazz.
Davvero fascinoso il rumore bianco di Il terzo stile, incatena l’ascolto attivando la soglia percettiva, senza necessità di sorprendere alcuna e suscita per voluto effetto paradosso, l’effetto opposto.
Bello il racconto di Madonna con cilicio con una piacevole progressione strumentale conclusiva.
Beba la moldava gigioneggia in maniera interessante sull’ironia del testo, grazie alle evoluzioni teatrali della voce, il muro d’impatto delle chitarre, qui anche con un solo degno di gran nota, ad opera del nuovo acquisto Marco Papa e ritmiche assennate a cura di Filippo Giannello e Ivo Tescaro. Gran pezzo davvero.
Degno di nota anche il finale, la ballata Non lasciarmi mai, con il flauto traverso di Marco Girardin, il contrabbasso di Marco Penzo e il vibrafono di Irene Bianco a lasciare traccia nella memoria.
Per quanto chi scrive preferisca nettamente la band alle prese con gli eccessi tanto nel tutto pieno che nel vuoto, questo è un disco completo e assolutamente equilibrato, compatto, con personalità (tranne qualche debito di troppo al primo De Leo, nel canto), maturo e a lungo meditato, ottima anche la produzione artistica di Andrea Santini. Un disco, che piaccia o meno, assolutamente figlio del suo tempo, con tutte le sue contraddizioni, anche nell’uso dei vocaboli “avanguardia”, “arte”, “nuovo”, con cui si pone a chi ne fruisce.
Un solo dubbio, che a furia di voler essere tutti burloni, non ci si stia pigliando per i fondelli deliberatamente finendo per non attribuire valore più a nulla?

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ETICHETTA: Novunque/Self
GENERE: Cantautorato italiano

TRACKLIST:
1. Come Ieri
2. Caos
3. Non Capiranno
4. Retrocattiva
5. L’Ultimo Giorno Che Ho
6. Stanze Vuote
7. Io Qui Ci Sono Già Stato
8. Cercando Un Senso
9. Via di Qui
10. Senza Una Ragione
11. Non Ci Sono Altre Domande

Passare dai tour con la Nannini agli album solisti non dev’essere proprio automatico. Sarà che spesso fare il “turnista”, insomma quello che interpreta canzoni altrui senza metterci mano, induce un certo sopore creativo che ha anestetizzato molti grandi; sarà che uno non riesce a farsi l’idea veramente di cosa girare con Pelù ti possa suscitare nel cervello; per questi e altri motivi, noi il debutto di Davide Ferrario ce lo immaginavamo diverso.
Pensavamo fosse un disco fragile, commerciale e banale; pensavamo fosse un disco insipido e up-to-date, avvezzo all’orecchiabilità di coretti da stadio e liriche melodrammatiche e scontate. Davamo anche per certo che non ci sarebbe piaciuto. E invece no.
F, l’iniziale del suo cognome, è una piacevole sorpresa, un bunker esplosivo di pop italiano come pochi ancora fanno, abile nel mescolare la pesantezza lirica di Bianconi con le schizofrenie del suo ex compagno di palco Franco Battiato, senza disdegnare Zampaglione, Tenco, Morgan, e non passando neppure tanto al largo dell’influenza impalpabile dei nuovi cantautori, soprattutto Brunori SAS. Si raccontano storie che per intensità assumono una compostezza più folk-indie (“Non Capiranno”, “Io Qui Ci Sono Già Stato”), ma anche ballad un pochino più downgraded, maggiormente radio-friendly, come l’introversa “Senza Una Ragione”.
Musica italiana vera e propria, che attinge dal suo universo e dallo stesso vuole fuggire. Che si compone di aria ogni giorno respirata pur volendola rigettare e distruggere. F è un esordio più che discreto, che se non altro, nella gradevolezza che il suo ascolto produce, induce anche il cauto ottimismo di chi pensa ancora che in Italia si possa fare musica senza farsi fagocitare dai meccanismi ben oliati dei talent e dei gradi network radiotelevisivi. Il pollice? Verso l’alto, naturalmente.

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Cantautorato

TRACKLIST:
1. Spreco Spazio
2. Depurazione
3. Bangkok Blues
4. Memorie Underground
5. Forme Lese
6. Annullami
7. Capovolti
8. Gelo di Gola
9. Notte d’Inganni
10. Parlami del Mare
11. DogVille

Salvo Ruolo, tra le diverse alternative che la rosa dei giocatori in campo nella squadra del cantautorato italiano ci propone, è la scelta “concettuale”, quella dall’animo malinconico ma riflessivo, che può raccontarci storie di viaggio e di meditazione come Bob Dylan, ma anche come Robert Clark Seger, senza la banalità del nuovo esercito dei qualunquisti e con il giusto spessore sia musicalmente che letterariamente. E in lingua italiana, che non è poco.
Vivere Ci Stanca è un disco che tende all’eccesso, dilungandosi soverchiamente, ma solo dopo ripetuti ascolti di tutti e dodici i suoi bei capitoli se ne coglie quella splendida essenza che malcela anche una semplicità nei linguaggi, una certa orecchiabilità e una distensione nei toni che non è solo estensione, ma anche profondità. Accollandosi anche il rischio di osare. Geometrie sonore a parte, le atmosfere sono scure, nell’orbita del blues personalizzato di certe produzioni di Van Morrison, Johnny Cash e Neil Young, con tutte le venature folk del caso. Gli arrangiamenti sono però gonfiati, nell’ambito di una musica popolare che sia facilmente fruibile pur mantenendo una certa rilevanza, contenutisticamente parlando; a dare colore e tono partecipano anche influenze di stampo psichedelico, come il periodo sydbarrettiano dei Pink Floyd, le schizofrenie meno celebri dei Beatles (alcuni momenti di Magical Mystery Tour e Sgt. Pepper’s) e i novelli Flaming Lips. Ma i condimenti più tangibili vengono dal mondo elettrico, sempre blueseggiante ma con trattamenti americani molto tiepidi e roboanti, sostenuti nelle ritmiche e nel biascicare intrepido del “capobastone” di questo progetto (“Memorie Underground”, “Bangkok Blues”), spingendo l’acceleratore in maniera particolarmente evidente solo in “Depurazione”, mentre si frenano gli istinti più impulsivi della narrazione ferrettiana/godaniana (più concretamente visibile/udibile in “Spreco di Spazio” e nella title-track) in “Parlami del Mare”.

Il valore di questo progetto è già ampiamente percepibile, palpabile anche grazie ad una dinamicità molto corporea che ne tramuta l’indolenza nostalgica in una fisicità complessa e diretta, che raggiunge chiunque anche a pochi istanti dall’ingestione. Dandone anche per scontata l’ulteriore maturazione, non ci resta che darci ad una comoda attesa.
Se “vivere ci stanca”, ascoltare buona musica come questa non lo farà tanto facilmente.

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ETICHETTA: Discodada
GENERE: Cantautorale

TRACKLIST:
1. Terzetto nella Nebbia
2. La Luce Cinerea dei Led
3. Metafisica
4. Café Chantant
5. La Marcia dei Basilischi
6. Aloha
7. Luce del Mattino
8. La Controra
9. Acchiappasogni

Ad un personaggio come Umberto Palazzo è giusto tributare il dovuto rispetto, per il suo percorso artistico lungo e coerente come pochi, concretizzatosi negli anni in una serie di scelte sempre dirette e portate a termine in grande stile: DJ set, la direzione artistica di un locale (il Wake Up), dischi con Il Santo Niente e Il Santo Nada, altri progetti che circa venti anni fa arrivarono anche ad incrociare la strada dei nascenti Massimo Volume. Nel duemilaundici è l’ora del primo disco interamente solista, Canzoni della Notte e della Controra, testimonianza ultima di questo tracciato veramente completo, indice di una maturità raggiunta già da molto tempo e che in queste nove tracce di puro cantautorato, snellite al punto giusto da sterilizzarle dal recupero della tradizione che tanto piace ai modaioli degli ultimi anni, condensa lo stile e il senso di tutta la sua carriera.

Zero omaggi e zero citazioni in questo album, fatto principalmente di strumenti a corda e qualche synth, quasi privo anche di una sezione ritmica che esiste sotterraneamente ma emerge prepotentemente solo in “Terzetto nella Nebbia”, dagli echi beatlesiani. La batteria, consegnata a Gianluca Schiavon, è solo per un pezzo. Il folk più etnico di “La Controra” e la vecchia gloria “Aloha”, ripescata da Il Fiore dell’Agave, chiudono la cerchia dei brani più mossi, lasciando l’altra metà del disco ad una concezione più minimale ed eterea, una dimensione quasi anti-fisica che parte dalla strumentale “La Marcia dei Basilischi”, interessantissima prestazione artistica dall’incedere insicuro quanto originale.
L’unico brano veramente “già sentito” risulta l’ammiccante “Café Chantant”, conforme ad un folclore tipicamente italiano che da qualche decennio tanti imitatori esortano a ritornare in auge, ma senza successo. Tutto sommato, un brano onesto ma che non regala niente di più ad un ottimo album, letterariamente, musicalmente ed esteticamente pari o superiore a moltissime delle migliori realtà cantautorali degli ultimi anni (Brunori Sas e Vincenzo Fasano, per citarne un paio). Tutto questo senza che Palazzo sia un vero cantautore.
Il lascito di uno dei più grandi artisti italiani.

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AAVV – GENERAZIONI: TRIBUTO AL SANTO NIENTE 

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ETICHETTA: Malatempora, La Grande Onda Publishing
GENERE: Rock cantautorale

TRACKLIST:
1.  La Spirale delle Formiche
2. Grune Linie
3. Il Lattaio
4. Hiroshima
5. Laura
6. E Così Sia
7. Una Risata Ci Seppellirà
8. Il Corso degli Eventi
9. Teoria del Piano Zero

Giunti al secondo lavoro, i Lemmings iniziano a scavarsi la loro nicchia nel panorama nostrano, grazie ad una miscela ormai riconoscibile di alternative rock, cantautorato e melodica italiana che punge l’ascoltatore con elementi presi a piene mani un po’ da tutti gli ultimi tre decenni. In Teoria del Piano Zero, il sound è più livellato, studiato ed equilibrato; nulla è lasciato al caso, a partire dalle liriche, gonfie di cinismo e intrecci malinconici dalle tinte scure, con un grigiore che regna soprattutto nelle tracce più intime (“Laura” e “Hiroshima”, che dondolano nei testi tra le atmosfere di Giulio Casale, Fabrizio de André e Mauro Ermanno Giovanardi). E poi c’è “Grune Linie”, una sorta di soft punk alternativo che si dinoccola tranquillamente tra il languore dei CSI e alcune sferzate più corpose à-la-Massimo Volume. L’angolo cantautorale più classico, diversificato nelle trame rock delle band già citate, si riverbera soprattutto in “La Spirale delle Formiche” e “Il Corso degli Eventi”, ma anche “Il Lattaio”, per lasciar comunque intendere quanto questa ispirazione letterariamente, consona a mostri sacri come il Guccini più poetico, sia cosparsa a piene mani tutto il disco. La maturità nel songwriting è evidente, con scelte mai banali che dimostrano una costruzione intelligente, certo superiore a molte “seconde prove” nel genere, perlomeno in Italia.

L’oscurità velata delle soluzioni melodiche, delle linee vocali e dei testi è la chiave di lettura per tutto l’album, il motivo di un interesse palese che questo lavoro assumerà in maniera più precisa nel corso degli anni, quando ai Lemmings sarà certificato un riconoscimento per i due primi ottimi lavori.

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ETICHETTA: GB Produzioni, Atracoustic, Wondermark
GENERE: Cantautorato, folk

TRACKLIST:
1. Buone Nuove
2. Noi
3. L’Alchimista
4. Riesci ad Imbrogliare il Tempo
5. Podere 41
6. Dalla Marea
7. Sinfonia di Maggio
8. Il Motore e’ L’Amore
9. Mediacrazia
10. Galleggiando in Provincia
11. Che Ne Diresti

“Gli anni del cantautorato”.
Una volta lessi questo titolo in un blog online, riferito alla scena più mainstream capeggiata da Vasco Brondi, Iosonouncane, Brunori Sas, Dente, Bugo ecc. e fui portato a fare una riflessione un po’ diversa riguardo questa categoria: il cantautorato è utile perché porta all’estremo l’importanza dei testi nella musica, se il cantautore in questione è un bravo paroliere. Il problema è che tanti non lo sono, e l’eccesso di finti autori di testi in Italia sta provocando molti problemi. Uno di questi è la scarsa attenzione che viene rivolta a scrittori più bravi (non solo a livello letterario, ma anche musicale) come Giorgio Barbarotta ed un’altra lunga serie di artisti con base soprattutto nel Meridione.
Snodo è un album liquido ma diretto, intenso, con il duplice pregio di essere attuale in maniera non banale ed essere contemporaneamente ironico (“Galleggiando in Provincia” sintetizza queste due anime del disco). In bilico tra un romanticismo folk contaminato di rock e cantautorato più classico, la commistione di genere funge da background a tematiche di denuncia che ben si intonano con uno stile polemico molto umile (“Podere 41”), originale e declinato in toni a volte poetici (“Dalla Marea), a volte più dimessi: elementi che ricordano la letteratura post-medievale, come il cantautorato di qualche decennio fa. “Il motore è l’amore” sta invece agli antipodi, a rappresentare una verve più intimista che pervade comunque tutto l’album, dosata perfettamente in maniera da non prevalere rispetto all’altra componente.

Strumentalmente il disco è suonato in maniera ineccepibile, soprattutto grazie all’ex batterista degli Estra (Nicola Ghedin). Gli arrangiamenti tengono banco a delle canzoni dall’impianto semplice ma che estremizza il concetto di “canzone all’italiana” in ballad dal gusto più American folk. L’aggiunta di hammond e altri strumenti appena ritornati di moda (il flauto traverso, ad esempio), tutti con un ruolo ben definito e utile a riempire le canzoni senza strafare, conclude il cerchio.
Un lavoro molto pregiato, convinto del suo valore pur senza sconfinare nel vanto. Modesto e up-to-date, come il cantautorato dovrebbe davvero essere. Se così lo vogliamo definire. Consigliato.

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Tornano le note a margine. Chissà che non restino.

DIGITALISM – I LOVE YOU DUDE (V2, 2011)
Il pop elettronico e sintetico che negli anni ’90 ha fatto la fortuna di Chemical Brothers e Fatboy Slim è ormai diventato facile da riprodurre. I Digitalism avevano debuttato con un prodotto fresco e saccente, e questa volta sono tornati con la stessa cosa: scarno in quanto ad originalità, è comunque uno degli esempi principali di come agli europei piaccia (far)ballare. Julian Casablancas regala un tocco di classe indispensabile in “Forrest Gump”, ma non è la più bella del disco. Attese novità per non dichiarare bancarotta, ma I Love You Dude resiste molto bene.
VOTO: 3.5 su 5

BRUNORI SAS – VOL. 2 POVERI CRISTI (PICICCA, 2011)
Il nuovo episodio di quella che si appresta a diventare una saga storica nella tradizione cantautorale alternativa italiana è, se possibile, superiore al grande “Vol. 1”. Rino Gaetano e Capossela c’erano anche l’altra volta, ma sono scomparsi Ciampi e il primo Carboni per fare spazio agli eccessi di zelo più tipici della nuova guardia (Dente, Vasco Brondi, Dimartino). Brunori però è meno vivace, e si piega più difficilmente a certe virate populiste degli altri: sogni distrutti, tragedie e banalità quotidiane sono raccontate, di nuovo, con grandi divagazioni verbali che tengono i piedi a terra, fedeli a De André e le sue maniere rozze ma delicate allo stesso tempo. Fantastico.
VOTO: 4.5 su 5

GANG GANG DANCE – EYE CONTACT (4AD, 2011)
Da New York, furoreggiando in chart digitali e orecchie di musicofili poco estremi ma attenti: il loro electro pop dal sapore retrò per una volta non si tinge di toni vintage solo per soldi e figa. Tra oriente, dream/synth pop e scismi dance, distrugge ogni tentativo di insurrezione digitale degli ultimi anni, quasi tutti svaniti in poca cosa (Hot Chip, Knife, Digitalism, Animal Collective, Crystal Castles, i nuovi Gang of Four, tutti bravi ma nelle ultime uscite meno dei GGD). Sbiaditi per scelta, luccicano tra mille nomi per una provocante originalità che affascina nonostante alcune tonalità non brillino certo per l’innovazione dei loro colori: Eye Contact è un disco da non perdere di vista.
VOTO: 4 su 5

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ETICHETTA: Venus
GENERE: Noise, rock, alternative

TRACKLIST:
1. Intro
2. El Cura
3. Preghiera per Artaud
4. Tornerai
5. No Soi Sante
6. Il Volo della Paloma
7. In Fondo al Mare
8. O Le Pridi
9. Dos Pesos
10. Une Bugade Di Vint

Sono già sette, incredibile.
Gli Arbe Garbe, una band di cui davvero ci sarebbe da chiedersi quanto ami suonare visto che resiste negli anni ad ogni forma d’urto tipicamente italiana riaffermandosi ed evolvendosi in maniera evidente a volte, più subdola in altre, ma sempre preoccupandosi che quest’aspetto sia rilevabile dai più.
In Arbeit Garbeit l’anima “popolare” da banda folk torna prevalente con il mescolare linguistico, e quindi anche d’indole, dell’italiano e dello spagnolo proveniente dal mondo argentino, creando già una sorta di prodotto creolo che si può apprezzare per le sue virtù, perdonatemi il termine, etniche. Aggiungiamoci che a livello musicale stiamo assaggiando un disco perfetto, dove noise, vecchie forme di jazz, alternative rock classico, folk ed elementi più tipici della nostra tradizione cantautorale si fondono senza lasciare poi tante tracce del loro iniziale esprimersi, ed avremo una vera e propria sorpresa.
Percorrendo l’intero disco, dall’intro e il primo brano “El Cura”, arrivando alla conclusione affidata a “Une Bugade Di Vint”, c’è la sensazione che un senso d’inquietudine post-rivoluzionaria sia alla base di alcune scelte stilistiche e lessicali, che sia un po’ anche il tema dei testi (come quello di “Dos Pesos”) il traino di una “maniera” di comporre che si era persa dopo De André e che la band, davvero, ci sappia fare. Serve a poco citare i Figli di Madre Ignota e i Radio Zastava, che hanno impreziosito il disco con le loro ospitate, perché Arbeit Garbeit sarebbe stato perfetto in ogni caso.

Sincerandoci che chi legge questa recensione sia anche un fan di band analoghe, lo consigliamo; non è detto che piaccia a tutti, per questo lo specifichiamo. Che poi ogni disco non è fatto per piacere a tutti, e questo è un bene tenerlo in considerazione, negli anni in cui questo concetto sembra essere scomparso. Gran prova di una band giunta ad un punto di svolta che nonostante non sia mai arrivata davvero ne attesta la maturità.

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ETICHETTA: Controrecords/New Model Label
GENERE: Cantautorato

TRACKLIST:
1. Articolo 1
2. Le Prigioni del 2000
3. Insanity Show
4. I Pinguini Si Comprano il Cappotto
5. Giochi da Grandi
6. Iside
7. Brace
8. Sorrisi e Balle Varie

Di nuovo una perla di cantautorale italiana. Sembra una maledizione, quando le mode davvero funzionano e causano folli moltiplicazioni artistiche senza capo né coda, ma è in realtà una soddisfazione quando dalle tumultuose masse in caotico e continuo movimento emerge davvero una qualche forma d’arte apprezzabile.
Da Torino, stavolta, è il caso di Mezzafemmina: non so se è la prima volta che da questa regione giunge un cantautore dello stesso spessore di Gianluca Conte, però se la produzione affidata a Giancursi e Lo Mele (Perturbazione) non mente, ci potrebbe essere anche qualcosa sotto. Ma a noi non frega niente, finché le canzoni sono belle, e lo sono tutte e otto.
Storie A Bassa Audience è un unico viaggio dove la durata media delle canzoni, attestata più o meno sui quattro minuti, partecipa insieme alla costruzione dei brani stessi nel concretizzare il tutto, con risultati stupefacenti. Tutti i pezzi scorrono velocemente, senza il senso di pesantezza che spesso il genere rischia di indurre nell’ascoltatore meno abituato, e riascoltandoli si riescono a scoprire anche i lati più intimi del versante letterario, che possono sfuggire al primo incontro. Un manifesto di come si possano evitare i luoghi comuni ed analizzare la propria nazione dal punto di vista, se vogliamo “diversamente patriottico”, di un cantautore senza peli sulla lingua: è una specie di linguaggio folk-pop quello utilizzato per parlare di un’Italia priva di democrazia, dove la Costituzione si paragona più o meno ai rotoloni Regina. Il tutto con una delicatezza notevole, supportato da musicisti molto buoni, un songwriting che in ogni secondo è indice di una maturità già arrivata da tempo e che gli permette, con questo Storie a Bassa Audience, di confermarsi come un cantautore competitivo su scala nazionale.
Non perdetelo di vista, ed ascoltate attentamente soprattutto “Articolo 1”, “Iside” e “I Pinguini Si Comprano il Cappotto”.

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IN BREVE oggi esce col suo quarto numero a cura di Emanuele Brizzante, non più del misterioso A.B. Chi lo sa, se tornerà? Oggi vi parliamo di Corpi Celesti, un ottimo disco direttamente dal cantautore italiano Paolo Rigotto.

ETICHETTA: Nessuna
GENERE: Cantautorato italiano sperimentale

TRACKLIST:
1. Cronofilia (Canzone per Berta)
2. Integrazione
3. Male che Vada
4. Madama Dore’
5. Il Capo
6. Canzoni d’Amori
7. Scheda Madre
8. Due di Notte
9. Musica con la Cappa
10. La Fine del Mondo

Corpi Celesti, semplicemente questo. Se i “corpi celesti” non sono le dieci tracce, forse lo possono essere i nostri corpi (intesi come organismi), che si lasciano sbattere ai quattro venti dalla fragile emotività che irradia da questi brani.
Paolo Rigotto, da solo, mette in piedi una baracca più che sostanziosa, un parto di innumerevoli idee che si sovrastano, si incagliano l’una sull’altra, tutto per poter portare a termine il proprio task: proporre un disco geniale. Sperimentazioni elettroniche in voci “semi-vocoderizzate” e rumori di computer alla rinfusa (“Scheda Madre”) si fondono con le caratteristiche più classiche del cantautorato della tradizione, come se questo disco fosse una parentesi di tradizione tra il passato ed un futuro ancora da scoprire. Di cui forse, Paolo, ha visto alcune diapositive fluttuare nel cielo, e le ha volute riprodurre in musica, con brani come “La Fine del Mondo” (perché ne parlano tutti? Basta!).
Eccezionale disco che, nel soffocare della voce che spesso ti fa dubitare sulle capacità canore del suddetto, riesce a trovare un suo perché indagando sull’indole docile ma contemporaneamente maestosa di un cantautore che (ascoltate “Integrazione”) ha capito come fare a non farsi mettere in piedi in testa dal mercato.
Consigliato.

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Questa recensione è stata scritta per INDIE FOR BUNNIES
ETICHETTA: Urtovox
GENERE: Cantautorale italiana

TRACKLIST:
1. L’ordine del sorvegliante
2. Il sogno della vipera
3. L’impiccata
4. Strofe della guaritrice
5. E Alavò
6. Elon Lan Ler
7. Sette spade
8. Lo scroccone di Cioran
9. La Sicilia havì un patrùni
10. Questa notte l’amore a Catania

Cesare Basile: un instancabile cantautore catanese che periodicamente spezza le sue comparsate nei club per venirci a raccontare cos’è, secondo lui, il mondo oggi. Ogni volta, modernizzandosi nel senso riqualificativo del termine, ma sempre rimanendo fedele ad una filosofia di fondo che è difficile far rinverdire, ma che (e questo è un bene) lo rende inappellabile fonte di giudizi sopra la vita, potremo dire, quotidiana, una neomelodica farcitura talvolta encomiastica altre volte dispregiativa di elementi tipici della nostra società. E non solo, perché non stiamo parlando di uno sputasentenze qualsiasi, ma di un romantico visionario postdeandreiano, molto quotato per altro, che con le parole riesce a dipingere ritratti che neanche Molière, attaccato ad un mondo che si abbevera di blues americano e resta contaminato solo in parte da tutto il resto, pur attraendo in un’orbita folk il cantautorato classico del nostro paese. In fondo, ogni suo disco è una piccola perla, in fondo. In fondo, ogni sua canzone è una perla, in fondo. Però quello che affiora in superficie è soprattutto il suo approccio non polemico ma capace di essere un impegnato e distaccato punto di vista sulle comprensibili vicende umane. Per questo molte sue canzoni, anche del passato, hanno parlato di cose d’ogni giorno, hanno citato luoghi che noi conosciamo bene (soprattutto la sua Sicilia, come di nuovo fa in questo disco), hanno nominato anche persone, facendo spesso riferimento all’universo biblico. Figure come la “guaritrice” della quarta traccia, di rimando, potrebbero essere anche rivestite di una certa sacralità ma non è questo il nucleo della dialettica e della lirica di Basile. La sua fertile, fervente ed effervescente poetica è quasi una politica, una scelta, un semplice e continuo accostamento di termini che logicamente costruiscono un discorso, una storia o un racconto.
Curiosità del disco, la presenza dell’orchestra nazionale macedone in “Enon Lan Ler”, che Basile si è andato a cercare personalmente nella capitale Skopje; la presenza di qualche passaggio in lingua siciliana in “E Alavò”, brano comunque apprezzabile dal punto di vista della tipologia cantautorale, a livello di costruzione melodica ed armonica della canzone; infine, una stesura personalizzata di una cantata tradizionale sicula, “La Sicilia Havi un Patruni”, originariamente scritta da Rosa Balistrieri e Ignazio Buttitta, interessante anche per capire il profondo legame con la sua terra che il buon Cesare non ha mai celato.
Per riuscire a proporre in maniera migliore un prodotto come Sette (o meglio Dieci, come le tracce) Pietre per Tenere il Diavolo a Bada, si è circondato di una manica di scagnozzi, tutti musicisti chiaramente, di notevole levatura: Rodrigo d’Erasmo e Roberto dell’Era degli Afterhours, così come Enrico Gabrielli e Alessandro Fiori, ma anche altri; l’importante è notare come la sua musica non venga alterata dagli stili personali degli ospiti di cui l’album è infarcito, ma come la personalità del cantautore rimanga visibile e riconoscibile in ogni singolo secondo dello stesso.

Questo disco, l’ennesimo della sua carriera, non aggiunge nulla ad una sequenza di veri e propri capolavori della musica italiana come quelli che Cesare Basile ha sfornato negli ultimi anni. Senz’altro il quarantasettenne è riuscito a confermarsi, a dimostrare di non essere ancora ceduto all’intorpidimento dell’età né al qualunquismo che la nostra tradizione pop folk sta facendo proprio in maniera letale. E’ rimasto lui, aggiornandosi appena, riproponendosi, restituendo alla propria musica una vitalità che ancora non ha potuto soffocare la brio e l’esuberanza da sempre intrinseche nelle sue liriche. Nel duemilaundici, qui lo dico, è un disco essenziale.

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ETICHETTA: Annesso Rec.
GENERE: Cantautorato
SIMILE A: Dente, Ivan Graziani, Alessandro Fiori
VOTO: 3.5 su 5

TRACKLIST:
1. Naso a Tramezzino
2. Vedere Lost
3. Coinquilino Fernando
4. Gabbiano Veneziano
5. Dopo L’Università
6. Bustine di Tè
7. Inzagol
8. Frullatore d’Acqua Dolce
9. Sommelier

“Per Vedere Lost” è, di nuovo, quel giusto manifesto della vita di ogni post-adolescente all’università a cui con i precedenti lavori Edo ci aveva abituato. Che sia il primo full-length conta abbastanza solo prima di accorgersi che su nove pezzi quattro sono presi da lavori già pubblicati, però chi se ne frega quando la qualità è buona?

Edoardo Cremonese, milanese d’adozione (lui viene dalle nebbiose pianure di Padova, ancora citata in qualche testo), propone un cantautorato molto semplice che fonda tutta la sua forza comunicativa nei testi, simpatici e quantomeno ironici, che questa volta si presentano in una veste vagamente buonista, censurando alcune volgarità, e levigati con qualche battutina che tende a smorzare quel senso di dejà-vu che certe tematiche automaticamente sollevano giungendo al nostro (labile) udito.
Gli argomenti? L’università (e il post-università), la musica, la TV, la vita di ogni giovane. Dalle feste e i relativi aneddoti di “Coinquilino Fernando”, i riferimenti a Lost e i Griffin, il mondo del calcio rivisto in chiave pseudo-decadente come metafora di ciò che si sarebbe dovuto fare (“Inzagol”, il brano più interessante tra i nuovi, con il suo cambio di registro centrale che riesce a creare una varietà dove, effettivamente, è piuttosto assente). Stupisce altresì il modo in cui un insieme di argomentazioni e trattazioni contenutisticamente lineari e disadorne riesce a diventare variopinto, colorato e pieno di sfumature di significato molto interessanti dal punto di vista dell’estensione del consenso popolare. Lo so, sembra politichese, ma effettivamente utilizzare alcune parole e alcune battutine, siano esse nonsense o piccanti sferzatine ironiche/parodistiche (o, perché no, citazioni? Come quelle di Antonio Albanese), è il modo migliore di praticare un taglio netto tra chi saprà accettarti e chi no. E in questo caso la linea che viene tracciata gli garantisce un certo appeal che non lo lascerà solo, con brani che sicuramente avranno la giusta presa ai concerti (vedasi “Frullatore d’Acqua Dolce” e il singolo “Vedere Lost”) e anche ascoltandoli a palla nella propria camera di studente universitario in affitto sommerso di appunti, libri, monetine e, perché no, qualche disco, una chitarra acustica e una bottiglia di vino.

 

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Pop cantautorale

TRACKLIST:
1. Terra Perduta
2. Non Lavoro
3. Città Blindata
4. Rio Preca
5. Forza Mafia
6. Flatulente
7. Gelato in Febbraio
8. Carpe Diem
9. Senzacqua

Stupisce il nome, stupiscono i titoli, stupisce il fatto che queste dovrebbero essere “storie di non lavoro”. Giubbonsky, in verità progetto pensato e realizzato da Guido Rolando, è una realtà valida. Valida dal punto di vista letterario perché racconta con disillusione una serie di storie che possono riguardare tutti noi, con tematiche che toccano argomenti diversissimi, dalla libertà di sognare a quella di avere uno spazio (c’è una dedica al centro sociale Cascina Torchiera Senzacqua di Milano dentro “Senzacqua”, ultima traccia) ad argomenti più terra terra come la vita dei ROM e le collusioni tra stato e mafia. Il clima è da sessantotto trasportato quarant’anni avanti.
Si tenta di protestare contro qualcosa che sta mangiando tutti, con la filosofia che è quella tipica dei ragazzi degli anni zero (però con la mentalità aperta di chi conosce anche il passato politico della nazione) e la testa concentrata sull’imbarazzo che comunicare, di nuovo, certi concetti può provocare. Perché comunque sono cose già sentite, ma ha senso ripeterle quando sono messaggi che l’autore avverte veramente come propri. E si sente che Giubbonsky con le sue “canzonette” si diverte nel raccontarci qualcosa, con uno sguardo neanche troppo distaccato ma che ha il pregio di essere individuale e personale, niente di qualunquista o di troppo (mal)politicizzato. E neppure quando si ringrazia, nel booklet, il gruppo di ragazzi picchiati del G8 di Genova (e Carlo Giuliani, ovviamente), oppure Aldrovandi e Cucchi, non traspare populismo, ma una volta digerito il disco tutto risulterà di una naturalezza tale che non potrete dubitare dell’animo buono di Rolando.
Forse il termine migliore per definire il suo modo di scrivere è “leggerezza”, una leggerezza che è difficile recuperare quando ormai vanno di moda violenza verbale, turpiloquio (e dissing), quando è difficile anche esprimere un concetto senza risultare censurabili, quindi pericolosi, quindi comunisti (secondo le mode attuali).
In maniera del tutto convinta e coerente si può stimare ed apprezzare il suo lavoro sui testi, poi sulla musica, con i limiti e il beneficio del dubbio su qualche ritornello volutamente “già sentito”, senza mai comunque cadere nella tentazione del plagio perché qui si parla di un disco che vuole comunicare delle idee, non di menate prog o jazz ipertecniche. La pesantezza di alcuni arrangiamenti, effettivamente, penalizza il disco ma sembra fin troppo chiaro (con tutte le volte che l’abbiamo ripetuto, ndr) che Storie di Non Lavoro non va ascoltato per la musica.Nell’album c’è soprattutto chiarezza espositiva, chiarezza, quindi, a tutti i livelli. Però sembra mancare, a volte, il nesso tra la musica e le parole. Immaginiamoci che non ce ne fosse mai stato il bisogno e avremo un disco perfetto. La sua imperfezione è in realtà un ulteriore motivo per apprezzare (oltremodo) la carica emotiva della delusione e della rabbia con cui si grida contro uno Stato che sta tradendo tutti quanti (in “Forza mafia” e “Città blindata”), come se ce ne fosse ancora bisogno. Perché il bisogno c’è davvero. E se non lo facciamo anche con la musica, abbiamo perso.

Un ottimo disco, con ottimi contenuti e testi, direi, eccellenti. Eccellenti anche nell’ironia di celiare (e ridere sopra) tematiche serie come la decadenza politica di una città come Milano, che dovrebbe rappresentare l’avantreno del nostro paese e che invece è guidata da gente “Flatulente”.
Consigliato, davvero.

 

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ETICHETTA: Autoproduzione
GENERE: Cantautorato italiano

TRACKLIST
1. The Wreck of the Nordling
2. Song
3. Je Veux Une Vie En Forme D’Arete
4. Y A Du Soleil Dans La Rue
5. Incurable
6. Pourquoi Que Je Vis
7. Wonderful Nightmare
8. Red Iron Man
9. Song To The Siren
10. J’Aimerais/Tout A Etè Dit Cent Fois

Scicli è un comune in provincia di Ragusa, famoso per l’architettura di vari stili che vi si può trovare, ma non certo per la musica. William Wilson, cantautore già attivo in vari altri progetti nell’isola meridionale, prova a cambiare le cose autoproducendosi un disco che tenta di dimostrare come anche qui si componga della bella musica. Ci sarà riuscito?
La verità è che risulta molto difficile dare un giudizio organico di questo lavoro: Just For You Not For All sembra quasi una dichiarazione d’intenti, più che un titolo di disco, riferendosi praticamente al pubblico a cui è diretto l’album, che infatti non è “per tutti”, ma richiede una certa conoscenza per poterlo capire ed approfondire. Di per sé, niente di complesso: in realtà la virtù principale del disco è l’essere particolarmente minimale, privo di fronzoli, relativamente semplice. E farlo in maniera troppo palese come qui avviene è forse un modo per nascondere carenze a livello tecnico e compositivo che in diversi frangenti del disco si possono riscontrare (alcuni passaggi in “Red Iron Man” in particolare, nonostante sia uno degli episodi oggettivamente più riusciti). Ma non si giudica un’opera musicale solo in virtù di queste caratteristiche. Wilson (che tra l’altro è il nome di un personaggio di Edgar Allan Poe), mette in fila una serie di malinconicissime ballad le cui sfumature sempre molto delicate e soffici ricordano la buona stella di Jeff Buckley, da cui rubano anche alcune nuances decadenti, supportate anche dall’utilizzo della lingua francese, per esempio nel musicare Boris Vian. Altri riferimenti ai quali Wilson si è appoggiato sono quelli di Gregory Corso, e dei Piano Magic, di cui realizza una cover di “Incurable”, quest’ultima in realtà presuntuosa presa di posizione che risulta molto carina e funzionale al resto del disco nella sua veste acustica.
La cantautorale italiana negli ultimi anni ha subito un’impennata incredibile, con il protagonismo delle liriche e degli arrangiamenti sperimentali (o classicheggianti) di alcuni nomi, che non andremo a ripetere. William Wilson tenta di coniare letteratura già scritta a concezioni di questo tipo, non riuscendo nell’intento di risultare efficace oppure importante. Si possono apprezzare le poesie di Vian rimaneggiate, così come l’eccesso di autoreferenzialità che sfugge da ogni canzone, nonostante siano solo due quelle che l’artista firma con la sua penna, e forse anche le intenzioni di dare una patina di fioca torbidità al disco lo riesce a sollevare dal baratro.
In sintesi, questo è un album che comunque potrà piacere a chi ascolta musica di questo tipo, ma che non aggiunge niente ad un panorama che ha già giocato le sue (ultime) carte in questi due o tre anni. La provvidenziale banalità degli arrangiamenti fa il resto, e lungi da noi criticare oltre il lavoro di un musicista di tutto rispetto lasciamo l’onore di concludere la recensione ad un augurio di vedere, in futuro, più elaborazione personale da parte di un cantautore che ha senz’altro capacità immensamente più grandi di quelle rivelate da Just For You, Not For All.

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